Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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Per prima cosa, la Tigre era corsa all'aia coperta. Benché amasse molto di più i suoi cavalli, era convinta che sarebbe stato un danno peggiore perdere tutte le galline e quei pochi conigli che era riuscita a comprare: le uova e la carne le servivano come non mai.

“Basterà mettere tutti gli animali nelle gabbie più riparate.” spiegò Caterina a quelli che l'avevano seguita, ossia Galeazzo, Bernardino, De Marzi e, stranamente, anche la balia di Pier Maria.

Proprio mentre questa cominciava ad avvicinarsi alla conigliera, la Leonessa le si avvicinò e le chiese a chi avesse lasciato il bambino.

“L'ha tenuto Sforzino – rispose la ragazza, prendendo colore, evitando di guardarla, come se temesse di essere presa a male parole da un momento all'altro – lui non se la sentiva di correre fino a qui...”

Non volendo sottilizzare e trovando che fosse plausibile che Sforzino non avesse voluto prestarsi a un lavoro fisico, la Sforza non tornò più sull'argomento, ma ribadì alla balia di fare quanto detto.

Intanto due servi si erano uniti a loro e così i piccoli animali furono messi in salvo in una manciata di minuti.

Dato che, alla fine, i volontari erano anche troppi e avrebbero potuto spaventare i cavalli, se fossero entrati in massa nella stalla, la Tigre ordinò alla balia e al De Marzi di tornare in casa. Stava per fare altrettanto con Galeazzo e Bernardino, ma questi stavano già correndo a recuperare le assi con cui avrebbero tappato le fenestrature, e dunque sarebbe stato inutile provare a farli desistere.

Lo stalliere stava cercando già da solo di adoperarsi in qualche modo, ma la furia del temporale aveva agitato le bestie tanto da costringerlo a dedicarsi direttamente a loro, piuttosto che a limitare i danni.

Non era solo la pioggia, ma soprattutto il vento a rendere pericoloso l'ambiente. Caterina non si era mai premurata di far sistemare meglio la stalla, perché anche nei giorni di neve si era dimostrata più che idonea come rifugio per i cavalli. Quella tempesta senza precedenti, invece, metteva in discussione ogni cosa.

“Prendi i chiodi – ordinò a Galeazzo, che aveva appena finito di aiutare Bernardino a portare in loco le travi – e tutti i martelli che trovi.”

Mentre il Riario eseguiva, Caterina si accorse della grande difficoltà dello stalliere e così gridò al Feo di andargli in soccorso per calmare i cavalli, in primis quelli dei cubicoli che avrebbero sistemato nell'immediato.

“Aiutatemi con queste – fece poi la Tigre, rivolgendosi ai due servi e cercando di sollevare da sola una delle pesanti assi di legno, ma trovando le sue braccia incapaci di reagire come un tempo ai suoi comandi – dobbiamo chiudere quella fenestratura e poi rafforzare quella porta secondaria...”

Lavorare a quel modo, nel buio rischiarato quasi solo dai lampi, le stava togliendo il fiato e le forze, ma, allo stesso tempo, la stava facendo sentire viva. Il nitrire impazzito dei cavalli le ricordava quasi le cariche di cavalleria e il rombo dei tuoni quello dei cannoni.

La pioggia, gelida e tagliente malgrado fosse giugno, si infilava ovunque e non di rado si tramutava in gettate di grandine, a volte fine e pungente come pallottole di archibugio, altre volte pesante e tonda come pallotte da spingarda.

La Sforza, quando piantarono l'ultimo chiodo e tirarono l'ultima fune, era fradicia dalla testa ai piedi, ansante e sfinita, ma, fondamentale, felice. I cavalli erano stati sistemati nei punti più riparati della stalla e quasi tutti erano stati incappucciati, per renderli più mansueti.

“Andate pure, ora... Credo... Credo di potermela cavare. Grazie.” boccheggiò lo stalliere, che ancora teneva per la coda la più agitata delle bestie, ossia la giumenta che a volte la Leonessa aveva cavalcato di straforo.

“Voi due restate con lui.” ordinò invece la donna, indicando i due servi che, bagnati e stremati quanto lei avrebbero solo voluto potersi asciugare e riposare, ma che si vedevano costretti a ubbidire: “Noi torniamo alla villa...” concluse, facendo un cenno a Galeazzo e Bernardino.

Il Riario era come lei madido di pioggia, con le guance rosse e il respiro un po' corto, mentre il Feo, che era stato accanto agli animali tutto il tempo, era meno fradicio, ma decisamente più sporco.

“Fatevi preparare entrambi un bagno. Che sia molto caldo.” dispose la madre, mentre arrivavano all'ingresso della stalla: “Non voglio che vi prendiate una polmonite.”

Detto ciò, dopo un cenno d'intesa coi due figli, la donna prese a correre sotto il diluvio, colmando la distanza tra la stalla e la villa in poche falcate. Non appena entrò in casa riferì alla serva che era accorsa che sarebbero serviti tre bagni urgenti, uno per lei e uno a testa per Galeazzo e Bernardino.

La giovane – la procace domestica che a volte il suo quintogenito aveva guardato con interesse – si trattenne a stento dallo sbuffare e, con una mezza riverenza, ribatté: “Faremo quanto prima, mia signora...”

“Giovannino aveva paura di non vederti tornare...” Fortunati arrivò alle spalle di Caterina facendola quasi sobbalzare.

Il piccolo Medici, ancora tra le sue braccia, tese una mano verso la madre, che la strinse e lo rassicurò: “Adesso devo sistemarmi e scaldarmi – gli spiegò – e poi sarò da te...”

Senza aggiungere altro, la milanese andò alle scale, per raggiungere in fretta la propria stanza e spogliarsi. Il caldo di quei giorni aveva lasciato il posto a una temperatura quasi invernale e gli abiti bagnati le stavano mettendo i brividi. Anche se ci sarebbe voluto un po' di tempo, prima di avere una tinozza colma di acqua calda, intanto poteva provare ad accendere il camino e scaldarsi così.

Arrivata al piano di sopra, vide per caso una scena che la indusse a rallentare il passo. Galeazzo e la balia di Pier Maria dovevano essersi appena incontrati per caso sul pianerottolo. Si stavano guardando senza dire nulla e gli occhi del Riario indagavano senza sosta il corpo della giovane che, stretto nei vestiti resi aderenti dalla pioggia, rivelava fianchi morbidi, un seno generoso e ancora gonfio di latte, e una figura, nel suo complesso, armoniosa e desiderabile. A una seconda osservazione, la Leonessa si rese conto che anche la ragazza guardava Galeazzo con interesse, valutandone probabilmente la prestanza fisica notevole per i suoi diciassette anni e mezzo.

“Non voglio interrompere nulla – disse infine, riprendendo a camminare – ma dovreste andare entrambi a cambiarvi e scaldarvi, o vi ammalerete.”

La giovane, come folgorata da quelle parole, si scusò con un borbottio sommesso e si dileguò. Il Riario, invece, imbarazzato, ci mise qualche istante di più, prima di mettersi in moto.

“Se vorrete, voi due avrete tutta la notte per recuperare – gli sussurrò veloce la madre, passandogli accanto – ma non voglio che il mio erede muoia per una polmonite.”

Galeazzo, rosso fuoco, quasi non colse il modo in cui la donna l'aveva appellato, ma riuscì solo a balbettare: “In realtà... Sì... Io... Vado... In camera.”

A quel punto a Caterina non restò che fare altrettanto. Una volta in stanza, si spogliò con calma, avvolgendosi in una delle coperte più calde che aveva e si mise ad aspettare che arrivassero i servi con il suo bagno caldo. Quando finalmente allestirono la tinozza, con l'interno ricoperto dal morbido panno che ormai la Tigre usava sempre, ed ebbero versato l'acqua in quantità consona, la donna chiese ai domestici il favore di far andare da lei la nutrice, più tardi, in modo da farsi aiutare da lei per asciugarsi e rivestirsi.

L'ordine – inusuale, dato che la Sforza di norma faceva tutto da sé o, al massimo, con l'aiuto discreto di Fortunati – venne subito recepito e nel giro di una mezz'ora, quando ormai si era scaldata a dovere, la Leonessa vide arrivare la balia in camera.

Un po' titubante, la giovane entrò, portando con sé i teli necessari ad asciugare la sua padrona, e rimase in un angolo, in attesa di disposizioni. Si era sistemata alla bell'e meglio – per lei non era in previsione nessun bagno caldo – e si era cambiata gli abiti, ma i capelli erano ancora un po' umidi e c'era in lei un qualcosa di precario che la sua padrona non colse subito.

Caterina ricordava molto bene quanto quella giovane, più o meno dell'età di Bianca, le avesse fatto pena, quando l'aveva assunta. Aveva un figlio poco più grande di Pier Maria e, soprattutto, era povera da far paura, come le giovani donne che la Tigre, a volte, aveva tolto dalla strada a Forlì.

“Tuo figlio come sta?” le chiese, a bruciapelo, e, senza darle il tempo di rispondere, le chiese anche: “A chi lo hai affidato, visto che ormai vivi qui?”

“Mio figlio sta bene.” rispose, in ansia, la nutrice: “L'ho affidato a mia madre, mia signora.”

“Quindi l'hai già svezzato.” ne dedusse la Sforza, lasciando che l'acqua, ancora tiepida, le lambisse anche le spalle, fino alla base del collo.

“Molto tempo fa, mia signora... Prima di venire a lavorare qui.” spiegò la balia: “Era un po' presto, ma se l'è cavata bene.”

“Credo sia tempo di svezzare anche Pier Maria.” soppesò la milanese: “Anzi... Forse si sarebbe dovuto iniziare già da un po'...”

Il volto della balia si fece terreo e poi prese colore, mentre i suoi occhi cominciarono a velarsi e la fronte ad aggrottarsi: “Capisco, mia signora.” disse piano, con la voce incerta.

Spiazzata proprio da quel tono dolente, la Tigre sollevò lo sguardo verso la giovane e, capendo che fosse sul punto di scoppiare a piangere, le chiese: “Cosa c'è?” per un folle istante pensò perfino che Galeazzo avesse potuto importunarla in qualche modo: “Non stai bene? È successo qualcosa di cui vorresti parlarmi..?”

“Io...” fece la balia, lo sguardo basso e la voce sempre più rotta: “Solo... Non mandatemi via subito, vi prego... Anche se... Anche se il piccolo verrà svezzato, io...”

Finalmente la Leonessa capì l'arcano e fece un sospiro, quasi sollevata: “Non intendo licenziarti. La tua presenza è importante e, anzi, ora che c'è anche Giovannino, mi faranno comodo due braccia in più... Ovviamente, aumentandoti la paga.”

Quel risvolto, evidentemente inatteso, fece spalancare gli occhi alla ragazza che, deglutendo a fatica, si affrettò a dire: “Allora... Allora resterò, anche se Pier Maria verrà svezzato?”

“Certo.” annuì la Sforza: “A meno che tu non abbia altri lavori meglio retribuiti in vista...”

“Io mi trovo bene, con voi. Siete una padrona buona e generosa.” fece la giovane, con il suo forte accento toscano.

“Sei troppo gentile, nei miei confronti...” sorrise la donna: “Adesso, per favore, aiutami... L'acqua inizia a essere fredda.”

Per qualche minuto, la Tigre si lasciò asciugare paziente, e la balia si dimostrò abile anche come dama da camera. L'aiutò a pettinarsi e le consigliò cosa indossare per quella notte di tempesta.

Fuori i tuoni imperversavano ancora, così come la pioggia, e Caterina fu d'accordo nello scegliere vestiti che avrebbe ritenuto di norma troppo invernali, per quel giugno.

“Provi qualche interesse per mio figlio Galeazzo?” chiese a un certo punto la Sforza, quando, ormai, era pronta a congedare la balia.

Questa, tornando a prendere colore, istintivamente scosse il capo e poi, per amor di gentilezza, e sentendosi un pochino sotto processo, spiegò: “Messer Galeazzo è molto gentile e galante e anche bello...”

“Tu sei una giovane donna molto bella e intelligente – provò a dire Caterina, per non essere fraintesa – sono sicura che se tu fossi d'accordo, mio figlio non...”

“Io sono una nutrice.” fece l'altra, come se quel fatto chiudesse sul nascere ogni questione.

La Leonessa strinse un attimo le labbra. Non riusciva a capire se nelle parole della ragazza ci fosse una sorta di ammissione di inferiorità nei confronti di un giovane uomo dal cognome relativamente importante o, al contrario, se fosse un modo per mettere in chiaro che lei si riteneva una donna già matura e con determinate aspettative, mentre Galeazzo era solo un ragazzino inesperto e impacciato.

“Volevo solo dire che io non mi opporrei, se tra voi ci fosse qualcosa.” concluse la Sforza, nel modo più elegante che le riuscì: “E, di contro, non voglio forzarti a far nulla. Né intendo incoraggiare troppo lui, nel caso non sia deciso...”

La nutrice chinò il capo, a mo' di ringraziamento e non disse nulla. Era evidente che, per lei, la questione nemmeno si era posta, fino a quel momento, quindi la milanese decise di non insistere più sull'argomento e la ringraziò per averla aiutata. Se Galeazzo si fosse fatto avanti – cosa, in realtà, al momento forse poco probabile – era chiaro che la balia avrebbe saputo come gestirlo. Aver comunque esposto senza filtri la sua posizione, permise a Caterina di rilassarsi un po'.

Dopo averle permesso di andare, aspettò qualche minuto ancora e poi andò a cercare Giovannino.

Come aveva immaginato, era ancora con Fortunati, ma chiedeva con insistenza di lei. Il temporale lo spaventava e l'unica cosa che poteva calmarlo era l'abbraccio della madre.

Seduta in poltrona con il Medici al collo, sperando che nessuno degli altri figli – né il nipote Pier Maria – reclamasse la sua attenzione quella notte, la Leonessa lasciò che il piovano si sedesse dinnanzi a lei e le leggesse qualcosa.

Giovannino, alla fine, vinto dalla stanchezza, si assopì, quasi abituato, ormai, al frastuono senza fine della tempesta, quasi che quel rombo di tuono continuo, così simile al fuoco dei cannoni, invece di terrorizzarlo, ormai lo cullasse. Francesco smise di leggere, chiuse il libro e si mise a guardare Caterina che, gli occhi fisse al camino acceso, nemmeno si era accorta del suo silenzio.

“Sembri una Madonna col Gesù Bambino...” le sussurrò, dopo un po', vinto da quella visione che, sinceramente, lo aveva portato a pensieri spirituali e non terreni.

Con un che di amaro, la milanese ribatté: “La Madonna, però, che io sappia non ha mai indossato un'armatura, né impugnato una spada, né ammazzato soldati nemici...” poi guardò verso la testa coperta di fini ricci castani, finalmente tagliati a dovere, del figlio e aggiunse: “Né l'ha fatto Gesù Bambino...”

“Non è detto che questo Gesù Bambino lo faccia, in futuro...” provò a dire Fortunati che, per indole e per idea personale, avrebbe davvero sperato che nessuno dei figli di Caterina diventasse davvero un soldato: “Magari farà il poeta, o il Cardinale o...”

“O il guitto, o lo stalliere, o il cuoco, o il sarto...” lo prese in giro la Tigre, con un sorriso pacifico che impedì al piovano di arrabbiarsi.

Passò qualche ora di silenzio e l'unico tra i tre che riuscì a dormire fu Giovannino. I lampi e la pioggia iniziarono a desistere un po' solo verso mattina.

“Si sta spostando verso Firenze...” fece Francesco, alla finestra, intento a scrutare l'orizzonte: “Mi sa tanto che oggi toccherà alla gente di città tappare le imposte e mettere in salvo le bestie...”

 

“Sì, ci sono passato accanto poco fa – stava spiegando Alamanno Salviati, giunto a casa del cugino Jacopo per confortarlo anche quel giorno per la recentissima morte della madre – e in effetti l'Arno è a filo dell'argine... Ci vorrebbe che smettesse di piovere, se si vuole che non esca...”

Lucrezia, che aveva posto domande sullo stato del fiume al solo fine di interrompere il pesante silenzio che si era creato, annuì e commentò, vuota: “Altrimenti si andrà tutti a remi a breve... E le tende per il palio? Immagino non si correrà...”

“A meno che per domani non sia tutto a posto, credo di no.” convenne Alamanno, lanciando di quando in quando uno sguardo al cugino, che stava con un gomito appoggiato al bordo del camino e lo sguardo fisso a terra, del tutto estraneo al loro discorso: “I canapi sono rovinati, quindi andrebbero rifatti e le tende son tutte squarciate... Vedremo come sarà domani il tempo.”

“Una tempesta simile in giugno – commentò la Medici, mentre un fragoroso tuono quasi le copriva la voce – non l'avevo mai visto qui a Firenze... Vero, Jacopo?”

L'uomo, che pur aveva sentito il suo nome, non rispose. La moglie, una mano sul pancione, fece un breve sorriso comprensivo e poi dedicò uno sguardo eloquente ad Alamanno.

“Forse dovrei togliere il disturbo...” fece a quel punto l'uomo, allargando appena le braccia.

Da quando Elena Gondi era spirata, tutto sommato all'improvviso dopo un lungo periodo di debolezza contraddistinto da assenze e lunghi sonni, Jacopo si era fatto taciturno e molto cupo. La moglie l'aveva visto altre volte in crisi, ma quella volta era diverso. La madre era stata per il Salviati l'unico punto fermo della sua vita per molto tempo. Anche se era felicemente sposato con Lucrezia e anche se ormai la sua famiglia era quella creata con la sua sposa e i suoi figli, sapere che sua madre non c'era più, lo aveva riportato indietro nel tempo, alla tremenda precarietà vissuta da bambino, al senso di inadeguatezza patito da ragazzino e all'ansia per il futuro che era riuscito a domare, solo in parte, grazie alla Medici.

“Cugino...” sussurrò, con una voce d'oltretomba che fece voltare sia Lucrezia sia Alamanno: “Ti prego... Resta con noi per pranzo.”

“Va bene.” fece quello, sorridendo in modo tranquillo e poi, sperando di far cosa gradita, cercò di alleggerire un po' il clima, esclamando: “Magari parleremo di come stiamo rompendo le corna ai pisani... O del caro Cardinal Soderini che sta per rientrare dalla Francia ed è più interessato al numero di chierichetti cantanti che avrà attorno che a quanti uomini armati lo difenderanno...”

Jacopo non disse né di sì, né di no, ma fece un cenno con la testa che, quanto meno, stava a indicare che il tentativo del cugino non lo infastidiva.

“Prima o poi smetterà di piovere...” sospirò Lucrezia, guardando verso la finestra, ma Alamanno ebbe il sospetto che il suo augurio fosse ben più metaforico di quanto non volesse lasciar intendere.

 

“Ti fidi davvero di quella donna?” chiese Troilo De Rossi, non appena Creobola ebbe lasciato la stanza.

Bianca, che aveva fatto portare in camera la cena per entrambi, sollevò le sopracciglia e ammise, con tono incerto: “Mia madre se n'è fidata abbastanza da farla partire con me per venire qui a Roma e anche per farti sapere che era nato nostro figlio...”

“Sì, ma è strana...” insistette l'emiliano, cominciando ad allentarsi i lacci del giubbone: “Non si capisce mai cosa pensa, e poi si atteggia come a una poveraccia, quando invece sa leggere e scrivere e impara a memoria qualsiasi cosa in un attimo...”

La Riario guardava il marito, che le dava la schiena, e si chiedeva se quel nervosismo fosse davvero legato alla sua insofferenza verso Creobola, o se ci fosse qualche altro motivo. Giugno stava volgendo a termine e Roma era un calderone ribollente che si copriva di nuvole scure ogni sera. Troilo passava buona parte delle sue giornate in Vaticano, tra 'inutili impegni' come diceva lui, e tornava a palazzo Riario sempre di pessimo umore. Ultimamente, però, Bianca non aveva più provato a chiedergli quando sarebbero partiti alla volta di San Secondo, sia perché immaginava che, se ci fossero state novità in merito sarebbe stato il primo a parlarne, sia perché non voleva dare l'impressione di essere una ragazzina lamentosa.

“Ti rendi conto che con la memoria che ha potrebbe riferire intere conversazioni a chiunque? È come avere un plotone intero di spie in casa...” si incaponì il De Rossi, ormai in brachette, i capelli scompigliati per la furia con cui si era spogliato.

“In effetti, non hai tutti i torti...” ammise la giovane, che non aveva mai pensato a quel risvolto dell'avere a servizio Creobola: “Quando partiremo, le ordinerò di tornare da mia madre a Castello.”

Troilo annuì, ben felice di quella decisione e poi, sedendosi accanto a lei al tavolino che era stato imbandito proprio dalla scaltra serva, le chiese: “Allora tuo fratello è tornato a casa?”

La Riario annuì e, sfiorandosi il pancione in modo inconscio, ribatté: “Sono felice che sia con mia madre... E poi adesso Pier Maria avrà un bambino con cui crescere. Hanno solo quattro anni di differenza, in fondo...”

L'emiliano, che aveva iniziato a mangiare, prendendo qualche pezzo di faraona in agrodolce, annuì e convenne: “Gli farà bene. Per lui sarà come un fratello.”

“Magari, quando potremo farlo... Mi piacerebbe che Giovannino ogni tanto trascorresse del tempo con noi, a San Secondo.” disse, timidamente, la Riario: “Quando era piccolo, ho passato tanto tempo con lui e... Mi manca. Mi piacerebbe che tra noi due restasse un rapporto stretto anche negli anni...”

“Certo. Faremo tutto quello che vorrai.” convenne l'uomo, con tono franco: “Sarai la signora di San Secondo. I tuoi ordini saranno legge.”

“Non esagerare...” rise Bianca, divertita dal tono di Troilo, da lei interpretato come scherzoso, ma che, in realtà, si rivelo sinceramente serio.

“Diamoci il tempo di consolidare il nostro potere. Rimettiamo in piedi la rocca, risaniamo quel tanto che basta le casse dello Stato...” riassunse lui, tenendo il conto con le dita unte di salsa agrodolce: “E nessuno potrà più dire né a te né a me cosa fare, né quando né come farlo.”

La figlia della Tigre si trovò d'accordo e colse una sfumatura quasi adolescenziale nella determinazione fiduciosa del marito. Una volta di più si trovò a capire come mai si fosse innamorata così facilmente di un uomo che aveva il doppio dei suoi anni: aveva l'età che aveva, e questo lo rendeva un uomo forte e sicuro, da cui farsi proteggere, oltre che amare, ma aveva anche un lato fresco e infuocato, che lo faceva assomigliare a un ragazzino ancora pieno di ideali e speranze, e questo aspetto del suo carattere le piaceva moltissimo.

“Domani devo parlare con il papa.” fece alla fine Troilo, masticando un altro pezzo di faraona: “In questi giorni hanno dei problemi a Pisa... Dicono che il Corella stia per radunare delle nuove truppe... Credo che al momento, per il pontefice, noi siamo l'ultimo dei problemi a cui pensare. E anche Cesare... Il divertimento che provava nel tenerti qui in pallida memoria della prigionia di tua madre sta svanendo, finalmente...”

“Quindi pensi che ti darà il permesso di partire?” chiese, speranzosa, la Riario.

“Dirò che devo rendermi conto della validità dei soldati di San Secondo, che devo contare i pezzi d'artiglieria e tutto il resto... Gli farò credere che è necessario, se vuole contare su di me come alleato...” spiegò l'uomo, annuendo da solo e masticando: “Vedrai che ci lascerà partire.”

Bianca sorrise e, sorbendo appena un sorso d'acqua, sussurrò: “Speriamo.”

“Voglio che questo figlio nasca a San Secondo.” dichiarò il De Rossi, posando la grande mano sul ventre della moglie.

“Magari sarà una figlia.” suggerì lei.

“Ancora meglio.” fece eco lui, e non solo per le complicazioni che un secondogenito maschio avrebbe portato alla loro difficile situazione: “E adesso mangia qualcosa... Fa caldo e devi restare in forze...”

Con un sospiro, la ragazza attinse dallo stesso piatto dell'emiliano e mise in bocca un pezzo di faraona. Lo masticò con gusto rinnovato e poi ne prese subito un altro. Le buone notizie le avevano fatto ritrovare l'appetito.

“Appena domani saprai qualcosa di certo, per la nostra partenza – concluse, tornando al discorso iniziale – darò licenza a Creobola e scriverò a mia madre, spiegandole il perché della nostra decisione di rimandargliela.”

Troilo fu d'accordo e poi, avvicinando il piatto con la carne alla moglie, assicurò: “A San Secondo avrai tutte le dame di compagnia che vorrai. Le sceglierai personalmente.”

“Con calma.” ribatté lei: “Mia madre ne ha avute giusto un paio in tutta la sua vita... Una, purtroppo, è stata catturata come lei alla caduta di Ravaldino, ma l'altra è finita impiccata e non a torto... Magari potrei anche decidere di non averne, di dame di compagnia.”

“Ancora meglio.” fece il De Rossi: “Così ti avrò più spesso solo per me...”





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