Il grande salto

di Glenda
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Artin guardò la macchina di Vittorio svoltare ed imboccare i viali.

Il sole tramontava solo ora: le giornate si erano fatte più lunghe da quando era arrivato per la prima volta in quella casa.

Aveva cercato di affezionarsi a quella strada, a quel marciapiede, alla bella vista di Porta al Prato e all'odore del parco delle Cascine, ma l'unica cosa che era riuscito ad amare davvero era il fiume, quasi un cordone ombelicale con la sua vecchia vita.

Cercò le chiavi nella tasca, e quando le estrasse si accorse di Linda.

Non avrebbe dovuto essere lì: quella era l'ultima cosa che doveva accadere quel giorno.

Ma quando gli occhi azzurri di lei, pacifici come due laghi di montagna, si spalancarono per la gioia di vederlo, Artin si trovò a pensare che invece aveva bisogno proprio di questo.

- Volevo solo salutarti. - gli disse.

Artin non aveva idea se questa fosse consuetudine tra Elia e lei, ma il disagio che emanava la sua postura, il modo in cui ondeggiava sui piedi e giocava con le proprie dita, gli fecero dedurre di no.

- Da quanto sei qui? -

Lei non rispose.

- È domenica… avevo pensato… che fossi libero. Hai lavorato anche oggi? -

Provò a immaginare quanto lo avesse aspettato, se avesse provato a suonare o fosse solo rimasta lì, per vedere se scendeva, o rientrava, come le sue compagne adolescenti ai tempi della scuola quando corteggiavano qualcuno.

Desiderò essere allora: desiderò essere loro.

- Faccende private. – disse.

Avrebbe voluto che quell’incontro con Linda fosse trasparente, come il suo nome.

Ma c'erano i fili.

- Vuoi… salire? -

Linda parve per un attimo stordita.

- Qualcosa non va? -

- Non mi avevi mai invitata in casa tua. -

Forse anche la casa di Elia era la sua “fortezza”, e lui la stava violando come faceva Vittorio ogni giorno. Ma Elia se ne era andato, e Linda era calore per quella casa fredda.

- Non vuoi… ? -

Lei si affrettò a cancellare quel turbamento dal viso e annuì, condiscendente.

- Certo che voglio. Sono curiosa di vedere dove vivi! -

Artin girò la chiave nella toppa come se fosse la prima volta che lo faceva: invitare qualcuno in un posto è prendere possesso, è sentirlo proprio.

Aiutò Linda a sfilarsi il cappotto, lo appese all'attaccapanni insieme al suo; le fece cenno di accomodarsi sul divano, ma lei rimase in piedi.

- Elia Avanzini, l’uomo del mistero! – cantilenò, guardandosi in giro.

- Credimi, è l’ultima cosa che vorrei essere. -

- Bugiardo. -

- No, dico sul serio. Li odio, i misteri. A me piace il tuo nome. -

I suoi occhi si abbassarono sul pavimento.

- Insomma, Elia, - disse Linda, docilmente, ma con fermezza nella voce – si può sapere cosa vuoi davvero da me? Cerco di dimenticarti, ci provo, e tu ogni volta mi stupisci e il desiderio ritorna, come un maledetto rimorso. Mi dici di non cercarti, e poi mi suoni sotto casa in piena notte: che devo pensare? Sono stata la tua amante per mesi. Mi stava bene così. Poi tu hai detto che preferivi che stessi fuori dalla tua vita. Mi stava bene anche questo. So adattarmi alla realtà, so chi sei tu, lo sapevo fin da subito, e so benissimo che io sono solo una di tante. Vuoi fare l’amore con me? Mi sta bene. Vuoi che io sia quella da cui si può passare quando ci si sente soli? Ve bene anche questo. Ma non dirmi che non sei un bugiardo, e che ti piace il mio nome. Un uomo nella tua posizione è un bugiardo. E che ti piacesse il mio nome, non lo hai mai detto. -

Sul volto di lei era dipinto un’espressione di desolata indolenza. Pensò a sua madre, alla sua immensa, profonda accettazione di tutto ciò che le era stato dato dalla vita. Accettazione che aveva il viso di Linda, gli occhi di Linda, le labbra di Linda.

Lui non la meritava. E non la meritava nemmeno Elia.

- Non te l’ho mai detto proprio perché sono un uomo nella mia posizione. E gli uomini nella mia posizione sono stupidi. Proprio così. Anche Vittorio è stupido. Lasciamo andare le cose, perché pensiamo che non vadano abbastanza bene. Ed è vero: le cose belle non vanno mai “abbastanza bene”. Vanno e basta, e le devi lasciare andare. L’amore è imperfetto. Ed è per questo che appassiona l’umanità dalla notte dei tempi. Non c’è nulla di appassionante nella perfezione. Non c’è nulla di appassionante in me, nella mia vita, nell’immagine che do al mondo, nella mia ‘posizione‘. Ma anche tu hai sbagliato tutto fin dall’inizio. Anche tu hai guardato quell’apparenza di perfezione e ti sei lasciata abbagliare: hai amato Elia Avanzini, insieme alla sua posizione, insieme alle sue bugie, necessarie perché la sua immagine stesse in piedi. -

La guardò negli occhi con un sorriso sul punto di sfaldarsi.

- Dai retta a me, Linda. Il mondo visto da questa posizione, non è affatto più rotondo che visto da un’altra. Forse tu non mi crederai, ma io ho avuto modo di vederlo da entrambe, e mi sono ritrovato a fare i conti con le storie di sempre, con il dolore di sempre, con le emozioni di sempre. Gli uomini sono anime incomplete. In loro c’è qualcosa di mancante, che cercano di colmare come possono, e per questo prendono strade che poi, all’apparenza, sembrano così diverse. Ma sotto sotto, basta guardare bene per ritrovare quel luminoso indizio di imperfezione che ci fa male e che ci avvicina tutti. E io sono stanco di vedere gente affannarsi per coprirlo. Per questo mi piace il tuo nome. Perché vorrei che il mondo fosse trasparente. -

Aveva detto cose che non erano da Elia, cose troppo sue per poter essere credute. Voleva essere creduto? Voleva davvero essere creduto?

Sentì le mani fredde di Linda prendergli il volto: un benefico refrigerio sulle sue gote che scottavano.

Poi lei afferrò la sua testa, la tirò a sé e lo baciò sulla bocca.

“O no, non deve andare così. Non deve andare così.” pensò Artin in un secondo.

Ma nel secondo successivo si accorse che le sue labbra si muovevano con quelle di Linda.

Era la cosa più stupida che avesse fatto da quando si trovava in quel ruolo, in quei vestiti. E non poteva togliere quei vestiti! Non poteva assecondarla, sarebbe saltato tutto, avrebbe scoperto tutto, avrebbe…

Le dita di Linda avevano slacciato uno ad uno i bottoni della sua camicia, le sue labbra scesero lungo il collo e sul suo petto: sentiva i capelli di lei strusciare contro la sua pelle. Avevano il profumo di neve di quella notte. Seta bionda.

“Linda… ” sospirò senza riuscire a dire altro, e ascoltò il suono di quel nome. Il nome della trasparenza.

La sua testa era in confusione, gli occhi pieni di colori che non avevano più a che fare con la realtà. Non c’era il soffitto sopra la sua testa, non c’era il divano sotto la sua schiena.

Addosso a lui, attorno a lui, c’era solo l’odore di Linda.

Pensò che era così bella, che la desiderava, e tutto, per qualche istante, fu solo ebrezza.

Poi lei disse qualcosa. Il suo peso si fece più leggero, il suo corpo si mosse.

“Mio Dio…!”

Si staccò da lui, si tirò su a sedere: il suo volto era stordito e spaventato.

“Mio Dio… tu chi sei?”

Artin realizzò in un attimo cosa era appena successo.

E, nello sconcerto più profondo, sentì un timido sollievo allargare il suo petto.

“Tu non sei Elia! Tu non… Lui non mi amerebbe mai così! Lui non mi amava!”

Linda si coprì alla meno peggio con il maglione che era scivolato a terra.

“Cristo santo, tu non sei lui! Gli somigli dannatamente, ma non sei Elia! Che idiota, dovevo capirlo! DOVEVO capirlo già da quel giorno!”

Anche Artin si rimise a sedere, senza trovare la forza di rivestirsi: per un istante pensò che, vista dall’esterno, quella scena dovesse apparire esilarante.

La guardò senza abbassare gli occhi e s’arrese.

“E’ vero.” disse “Non sono Elia.”

Lo spavento e lo stupore rimasero un solo istante sui begli occhi di Linda, poi le sue gote si accesero, lo sguardo si ravvivò: una libera, prorompente rabbia sembrò straripare da lei.

- RAZZA DI BASTARDO! - afferrò il cuscino del divano, lo sradicò letteralmente e glielo lanciò addosso - CHI CAZZO SEI, EH? DIMMI CHI CAZZO SEI! -

Si alzò furente, afferrò il primo oggetto che ebbe a portata di mano e lo scagliò contro Artin. Il ragazzo balzò in piedi scansando il pericolo, ed un prezioso posacenere andò in mille pezzi sul pavimento.

Lui alzò le mani in segno di resa, stordito, confuso, quasi divertito. Nudo.

Lei brandì la sua scarpa col tacco, il volto in fermento.

Una teiera.

Una piccola teiera col fischio.

- Mi chiamo Artin. - confessò - Mi sto fingendo Elia per il bene della banca. De Nistri sta tutto. -

Le gote di Linda sbollirono per un attimo.

- E Elia? Dov’è? -

- Non lo so. -

Si guardarono in silenzio, e quel silenzio li rese di nuovo per un attimo vicini, come se una complicità non detta aleggiasse nella stanza.

- Ascolta, Linda, - riprese Artin con voce piana - Elia ha fatto degli sbagli. Non so se ti amasse o meno, non sta a me giudicare. Ma di sicuro ha scelto di voler uscire dalla propria vita. E al suo posto, ci sono entrato io. Anche io ho fatto degli sbagli, e a volte credo che il destino mi abbia messo qui per provare a rimediare ai miei ed ai suoi. A volte, invece, penso che tutto questo sia un divertente scherzo di Dio. Ma sia come sia, sono felice di averti conosciuta. -

Un breve luccichio passò sugli occhi della ragazza.

- Non avresti dovuto chiedermi di salire. -

- Lo so, non avrei dovuto. -

Artin si rimise la camicia, raccolse il resto dei vestiti per terra.

- Linda, - mormorò, rivolto alla parete - questa storia, nessuno deve saperla… -

La voce della donna esplose di nuovo.

- Credi che mi divertirò ad andare in giro a raccontare che sono andata a letto con uno sconosciuto? Tu sei proprio deficiente! CAZZO, CHE RAZZA DI DEFICIENTE! -

Aveva già infilato anche le scarpe, prese il cappotto dall'attaccapanni e non gli diede nemmeno il tempo di rimettersi i pantaloni per seguirla, per fermarla, per dirle qualcosa.

Ma cosa avrebbe potuto dire?

Le cose vanno.

- Vaffanculo. – dichiarò lei, come una sentenza definitiva, e si sbatté la porta alla spalle.

Era solo, seminudo, in un salotto in cui sembrava passato il terremoto.

Ma adesso in quella casa c'era anche lui, c'era la sua vita: non era più uno spazio lasciato vuoto da un altro.

Si rivestì lentamente, e non fu come rientrare nei panni di Elia: i panni di Elia non avevano di sicuro mai assistito ad una simile, tragica commedia.

Avrebbe dovuto sentirsi in colpa, preoccupato, dispiaciuto? Non riusciva a provare niente di tutto questo. Aveva rubato l'amore di un altro, ma ci aveva anche messo tutto l'amore che l’altro non era stato in grado di dare. Non c'era nulla di sbagliato nell'ultima ora della sua vita.

Il cielo si era fatto scuro; accese distrattamente il punto luce del salotto e sorrise al cuscino abbandonato in mezzo al pavimento.

Poi lo sguardo gli cadde sul pezzo di divano lasciato sguarnito: c'era una busta di carta.

Non riusciva a credere che Elia Avanzini, padrone di una banca, utilizzasse ancora il vecchio trucco dei soldi nascosti sotto il materasso!

Si sedette sul lato buono e la aprì.

Non c'erano soldi: c'era un quaderno.

Al vederne la copertina Artin si sentì invadere da una tenerezza profonda: c'era disegnato un logo in voga tra le cose di scuola forse vent'anni prima, ai tempi in cui lui era ancora alle medie! Lo trovava così stonato con quella casa che provò subito affezione per quell'oggetto fuori tempo e fuori posto, e anche un po' per il sentimento che aveva mosso chi ce l'aveva messo.

Lo aprì, e cadde a terra un foglio volante: una pagina d'un diario scolastico, datato al due settembre di ventiquattro anni prima, una di quelle pagine dove non si scrivono compiti, perché le lezioni non sono ancora iniziate .

soffiasse davvero quel vento di scirocco,

e arrivasse ogni giorno per spingerci a guardare

oltre la faccia abusata delle cose,

nei labirinti oscuri delle case

La prima pagina del quaderno portava la data di due mesi dopo: era scritta con una calligrafia piccolissima, che ignorava le righe ed era tanto fitta da sembrare illeggibile.

“Ieri è morto mio padre” cominciava.

Un diario.

Elia Avanzini aveva tenuto un diario.

Per ventiquattro anni.

E lo aveva lasciato lì.

Perché? Dio, perché?

Perché voleva che Vittorio lo trovasse, si rispose.

Sapeva che lui avrebbe violato ancora quella casa. Sapeva che sarebbe stato lui, dopo la sua finta morte, ad occuparsi di sgombrarla, venderla, o lasciarla così.

Quel diario era una lettera d'addio.

Sentì il cuore sobbalzare.

E iniziò a leggere.





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