Il fuoco che bruciò
sotterra.
... .
Roma.
Veniva dall’Egitto.
E per la verità ricordava molto poco dell’Egitto. Una luce abbagliante, di un sole che
sembrava non tramontare mai, e che apriva coi suoi
raggi i frutti della terra e le boccette di essenze, profumando l’aria di
qualche odore indefinito e paradisiaco, che nella notte restava, nella notte
azzurrina, nei silenzi dolci interrotti solo dai canti degli uccelli. Un odore che arrivava lontano fino alle dune lontanissime, oltre le
cateratte del fiume, dove si perdeva in qualcosa di più selvaggio. I
fiori di loto che si lasciavano trapassare dai raggi del sole e coccolare poi
da quelli della luna, che sembravano guarirli dalla
violenza vitale del giorno… i fiori di loto e tutti gli esseri umani.
Si ricordava poi di una reggia
sontuosa, grande e aperta, dalla quale si potevano vedere la città intorno e le
dune in lontananza, percorse da file di quadrupedi o da carovane, e le strade
lastricate, dove a vecchi bigi e quasi perlacei con la toga greca si alternavano
soldati luccicanti come scarabei di vetro e metallo, coi
loro mantelli rossi. La reggia, di cui ricordava un lento decadere, ma senza un
immagine precisa, senza essere capace di fissare una
data. Fino a quando non era finito tutto in cenere. L’incantesimo
solare si era spezzato e il mare doveva aver ribollito, ferito a morte come la
terra di cui baciava e leccava le rive.
Lei sapeva che il sangue e le
battaglie avevano squassato il terreno limaccioso sotto le acque distese della
foce del Nilo. Ma non se ne era resa davvero conto
fino a quando le fiamme non arrivarono violente insieme con le urla più
sgraziate, mangiando tutto - perfino i petali dei fiori di loto in quelle acque
dove lei aveva assistito la regina dei re nei suoi lunghi bagni, e le
bellissime donne dai seni odorosi e simili a fichi polposi e umidi, e le pelli
di miele – tutto strappato dalle fiamme, tutto che si accartocciava come una
foglia secca.
Lei non ne sapeva molto di foglie
secche; sapeva che fuori dal palazzo c’erano palme che
marcivano con le loro foglie filiformi che diventavano marroncine
e brutte, ma a palazzo ogni foglia marcia veniva subito tolta dai vasi. Da
quando però si trovava in questo nuovo posto, da quando mani calde e dure, cavalli sudati e corde strette intorno alla carne
l’avevano portata via dalla sua terra, aveva visto, periodicamente, le foglie
di alcuni alberi cambiare colore, morire, e staccarsi dai rami.
Cose come non ne
aveva mai viste: schiere maestose di eserciti che marciavano compatti
come un'unica cosa, un unico carro trainato dal vento umido delle colline del
Lazio. Uno strano clima, che conosceva soltanto una stagione calda, un clima che a volte lasciava uno strato di
calura a galleggiare sopra un pantano di umidità che
faceva crescere muschi ai lati sozzi delle strade, altre volte l’afa secca che
faceva sudare la pelle di un sudore puzzolente, e intorno, odori pestilenziali,
come quelli di una palude. Odori di sporco e di marcio e di decomposto, di
pelli che bruciavano, sudate e insanguinate, da ogni angolo della grande città e di tutto il suo mondo.
Tutto questo ricordava, e
nient’altro di preciso.
La sua condizione non era
cambiata molto; si trattava pur sempre di una schiava che in ogni momento
poteva essere punita o anche uccisa, accusata, sfruttata. Soltanto che, finchè si era trovava nella sua terra d’origine, aveva goduto di un posto di favore nelle grazie della regina.
Adesso aveva un padrone che evidentemente non la apprezzava nello stesso modo;
i suoi compiti erano tanti e vari. Ma il più
importante di tutti era, senza dubbio, quello di restare nell’ombra.
C’era una cosa che non disse mai
a nessuno, fra le tante altre. Una cosa che aveva visto, che
non avrebbe mai voluto vedere. Non era un segreto per nessuno,
sicuramente. E forse il padrone era anche contento che
gli schiavi vedessero quel genere di cose, perché vivessero nel terrore di provarle
a loro volta e si comportassero quindi come delle bestie ubbidienti.
Ma lei si sentiva comunque in possesso di un segreto; aveva catturato un incubo,
lo conservava nella mente, ed era come tenere ben nascosto sotto il letto o in
un cassetto un pezzo di carne umana sanguinante, o gli occhi nocciola di un cucciolo
strappati dalle sue orbite rotonde.
Ciò che la schiava aveva visto,
erano le torture.
Stavano nascoste in una stanza
riservata soltanto a loro. Non era lontana dal salone d’ingresso, così che le
urla si potevano sentire molto bene. Anche questo
forse era per intimorire gli schiavi.
Erano state
proprio quelle urla terrificanti a condurre la schiava verso la stanza
disgustosa, abbandonando le proprie mansioni.
Erano atrocità quali non ne aveva mai viste, ma di una cosa era sicura: aveva la
sensazione netta, nella mente, la sensazione di quelle urla fin da quando
ricordava di avere una memoria. Anche in Egitto, anche in quella che chiamavano
“la provincia romana d’Egitto”, quelle urla si erano
sempre sentite. Erano urla che ferivano le orecchie e che riempivano il cervello
di una curiosità folle, e apparentemente del tutto irragionevole.
Erano visioni che colmavano gli
occhi di orrore, sì, ma anche di voglia di vederne
ancora.
Gli occhi vedevano la realtà, ma
il cervello tentava di convincerli che non si trattava che di
illusioni, cose finte, incubi. E non ci
riusciva. Vedendo quelle torture, la schiava aveva sentito il dolore arrivare pungente
anche a lei. Ma non aveva potuto staccarsi da dove si trovava, fin quando i conati di vomito non l’avevano costretta a
nascondersi per rigettare.
Aveva visto donne e uomini
torturati nei modi più atroci, in quella stanza dipinta di bianco.
Un assaggio l’aveva già avuto,
vedendo uomini con pali conficcati dentro, e che uscivano loro da in mezzo alla schiena, uomini in decomposizione impalati
così che emergevano ai bordi della strada per Roma come alberi rivoltanti. E
lei proprio per alberi li aveva scambiati: alberi con volti umani e membra
umane; nello smarrimento e nell’angoscia, nello stato di confusione in cui si
trovava le erano sembrati illusioni, aveva creduto che fossero soltanto degli
incubi, stava sognando di entrare in un posto maledetto, ma si sarebbe
risvegliata e avrebbe trovato proprio la città splendida di cui tanto aveva
sentito parlare
E quello degli alberi e del
viaggio fu un incubo che non le tornò più in testa: non si era risvegliata mai
nel cuore della notte con la sensazione di aver avuto visioni paurose, per
quanto se ne sarebbe aspettata senz’altro qualcuna. Ma da quando, senza essere notata da nessuno,
aveva lasciato le sue faccende per lasciarsi tentare dal richiamo del sadismo
bestiale di tutti gli uomini e di tutte le donne, - un sadismo della mente, a
pensarci bene, perché il corpo odiava guardare – ecco, da quel giorno di incubi ne aveva ogni notte.
Sognava sempre quei pali
appuntiti e giganteschi che venivano piantati coi
martelli nel pube delle donne legate a gambe aperte, quegli uomini mutilati
nelle maniere più orribili, gli arti distorti in posizioni innaturali, il
fuoco, le fiamme, il ferro e il legno, le schegge, fili spinati tesi e schiave
nude urlanti e disperate sopra, che guardavano il cielo, ovvero il bianco
soffitto, schizzato di sangue, dove rimbalzavano i loro sguardi che imploravano
il niente.
Sguardi
infuocati e vivi rinchiusi sottoterra, dove bruciavano soltanto le perle
coralline del loro sangue.
*
Nella grande
villa romana giungevano spesso ospiti importanti, per cui la domus era tutto
un subbuglio.
Era un giorno d’autunno e sarebbero arrivati ospiti illustri, e la schiava pensava che
non sarebbe stato diverso da tutte le altre volte. Per la cena il padrone aveva
dato ordine che fossero preparate delle pietanze
orientali molto particolari e aveva anche pagato delle danzatrici orientali che
allietassero il simposio, coi loro tessuti trasparenti e i veli fluttuanti
simili ad ali di torpedine o veli di medusa, manti di seduzione che fluttuavano
nell’aria in quel gran bruciare d’incensi provenienti da terre lontanissime. Il
padrone era un uomo solido e freddo in guerra, ma in casa non rinunciava mai a
questo genere di “mollezze”, come la schiava aveva spesso sentito definire
simili spettacoli.
Adesso il padrone stava facendo
il bagno nella sua piscina privata all’interno della casa, assistito dalle sue
schiave.
Lei lavorava in cucina,
preparando le stesse pietanze che aveva preparato quando
era ancora in Egitto. Già, ecco un’altra cosa che ricordava, la cucina. Riempire
ogni carne e ogni pianta di spezie agrodolci, profumate fino all’intontimento,
forti come le rocce che affioravano dalla sabbia dei deserti, fra le dune, come
croste.
In mezzo a quegli odori le pareva
di essere tornata a casa. Il palazzo doveva aveva vissuto la sua adolescenza
doveva essere stato ricostruito da dopo che era stato bruciato, e il sangue che
aveva incrostato i pavimenti, i muri e le decorazioni era
stato cancellato. Stava cercando di immaginarsi come poteva essere.
Probabilmente era stato rifatto uguale, o forse, chissà, era
stato rifatto da capo in una forma completamente diversa.
Passarono delle ore, un paio, o
tre forse. Improvvisamente la schiava registrò delle voci che provenivano dal
salone, e pensò che doveva trattarsi degli ospiti che
erano arrivati. Gli schiavi in cucina avevano cominciato un precipitoso
andirivieni, uscendo dalla cucina con dei piatti, tornando a
mani vuote e uscendo di nuovo con piatti colmi.
Lei sapeva che doveva uscire meno
possibile, e quindi rimase in cucina assieme alle vecchie cuoche. Ma ad un tratto sentì il suo nome.
Rispose alla chiamata prontamente
e in silenzio, come un cane che associa un suono particolare
all’ordine di accorrere. Ma si rendeva conto di chiamarsi proprio in quel modo
solo se ci pensava per qualche istante; chi le avesse dato
quel nome, non se lo ricordava. In fondo non era sicura che fosse stata sua
madre. Non sapeva neanche chi fosse sua madre:
ricordava una donna con una decina d’anni più di lei, o meno, anche, che aveva
ricoperto esattamente quel ruolo. Una sensazione di calore e d’abbraccio di una
calda coperta le veniva in mente, pensando a lei. Ma
era un altro ricordo che si stava eclissando, diventando sempre più fievole
nelle nebbie che avvolgevano Roma in quell’autunno
maledetto.
Sorpassata la porta della cucina
si trovò di fronte al salone dove da poco si era iniziato il simposio. C’erano
quei vecchi perlacei che erano molto simili alle figure cordiali ed estraniate
da tutto il resto che si erano aggirate per le strade della sua città natale.
C’erano anche dei giovani altezzosi, con indosso la toga virile. Ciò faceva di
loro uomini e rendeva i loro visi accartocciati in una
specie di smorfia boriosa, che voleva far credere che sotto ci fossero anime
che non avevano bisogno di apprezzare niente. Erano giovani soldati romani con
molti soldi, belle case e carriere onorevoli aperte davanti a loro. La schiava
vedeva soltanto le loro spalle e i loro piedi, e il
suo compito era quello di tacere e di leccarli.
La schiava si rivolse al padrone
con una reverenza del tutto umile.
- Comandate, domine. -
Nelle coppe iniziarono a versare del vino. Il padrone non parlò, non le impartì nessun ordine. Lei cominciava a
diventare nervosa: guardò verso i vecchi bigi e poi verso i giovani, come a
voler indagare i loro sguardi per capire cosa sarebbe successo. Ma i vecchi bevevano con occhi
imperturbabili e in qualche modo grotteschi, e i giovani sembravano ancora più iattanti.
Gli schiavi tenevano le schiene dritte ma gli sguardi bassi, e passavano da una
parte all’altra della stanza come spettri, senza che si sentissero neppure i
loro passi.
Passarono dei
minuti molto lunghi, forse un’ora addirittura, passarono diverse coppe
di vino.
Il padrone le mise un braccio
intorno ai fianchi e se la avvicinò con fare pigro. Lei non obbiettò,
ovviamente, ma il suo sguardo era sempre più nervoso.
Solo allora si accorse che le
danzatrici si erano fermate e ora accorrevano fra le braccia dei romani che le
invitavano, o meglio che ordinavano loro di farsi avanti.
Il padrone alla fine costrinse la
schiava a sedersi sulle sue ginocchia piuttosto vecchie ed esili, rispetto a
quelle solide e forti dei giovani che gli stavano di fronte. La schiava si irrigidì ancora di più. I muscoli delle sue gambe si
fecero così tesi che i lacci che le tenevano legati i sandali intorno ai
polpacci iniziarono a stringere. Il padrone le passò una mano sotto la gonna
bassa del suo vestito di lino, cercando di insinuare le dita fra le due natiche
ambrate e poi accarezzando avanti e indietro, sfiorando la peluria del pube. La
schiava sentì il sudore che le gocciolava da ogni poro della pelle. Sembrava il
tocco di un morto.
Le dita del padrone si infilarono fra le labbra e cominciarono a solleticare coi
polpastrelli. La schiava si irrigidì ancora di più e
strinse le gambe, e allora la mano del padrone si ritrasse ed egli si alzò,
fissandola con occhi incandescenti, perché senz’altro s’era accorto che la
schiava non era consenziente.
Lei guardò di nuovo verso gli
ospiti e lesse rimprovero e disprezzo, in modo e in misure diverse, ma nei visi
sia dei bigi che dei presuntuosi.
Il padrone la colpì con la frusta
che uno schiavo era stato lesto a porgergli. Il dolore
esplose immediatamente allargandosi sotto la pelle e mordendola ferocemente.
Lei gridò ma nessuno sembrò accorgersene.
Il padrone allora la stese di
forza fra i cuscini e con un solo gesto le tolse il corto abito bianco; le
fibbie non molto resistenti caddero a terra tintinnando per un paio di secondi,
prima di fermarsi con un arresto che fece piombare in gola il cuore della
schiava.
Lei non ricordava niente del
genere dalla sua terra natale. Non aveva nessuna sensazione come quella che
stava provando adesso, di terrore, orrore, di disgusto, paura. Il freddo era
come quello della morte, ma sudato, come carni messe
in acqua bollente. C’era un fortissimo odore di vino e la sala lustra era ferma
e insensibile, linee e colori imperturbabili e
immobili. Un sacco di porpora e d’oro, ovunque, l’abbaglio
della luce delle candele che vi si rifletteva.
Gli occhi della schiava
assomigliavano a quelli di una bestia selvatica in fuga dai cacciatori.
Mai, mai aveva sentito niente del
genere. Era spaventata fino alla nevrosi, e sentiva la saliva colarle dalla
bocca, le si scioglieva a mezza gola il boccone amaro
delle lacrime. Abbassò precipitosamente la testa, come a volersi coprire il
collo, fin quando il mento non toccò la pelle. Sentì che in quel modo era incapace di
urlare. Ma gridava dentro, perché le gridava lo
stomaco, contorcendosi dalla paura.
Basta.
L’odore dell’incenso era disgustante, era eccessivo.
Basta.
Solo adesso sentiva voci e
sospiri, e le sembravano urla.
- Basta! - gridò. In egizio.
Rotolò sul pavimento, con una
scossa, liberandosi dalla presa del padrone.
Strisciò e rotolò come un verme o
un animale senza più zampe, cercando di scappare, senza avere il coraggio di
alzare la testa verso la faccia del padrone; avrebbe potuto trovarci di tutto.
Sentì che dei corpi enormi le si buttavano addosso inchiodandola al terreno, qualcuno
che la teneva per i polsi, qualcuno che la teneva per i fianchi, qualcuno che
le afferrava le caviglie, o il collo, o i capelli. Ormai era come un brandello
nudo che giaceva a terra incapace di muoversi, un cencio schiacciato da un
numero indefinito di massi. Schiavi corpulenti con gli occhi inespressivi e le
fronti di pietra; aspettavano solo un ordine del padrone.
- Alzatemi questa cagna. -
La sollevarono, tenendola per il collo, i capelli, le
braccia e i fianchi. Non avrebbero mollato la presa a meno
che il padrone non l’avesse ordinato, e lei non aveva possibilità di
divincolarsi da quelle braccia gigantesche.
Il padrone fece un passo avanti.
La guardava fissa, e ciò che stupì la schiava fu che sembrava abbastanza
divertito, in modo sadico. O forse, semplicemente, non
sembrava più annoiato.
Dopo una serie interminabile di
piccoli e lenti passi avanti - nel compiere i quali il padrone non soltanto non
cambiò espressione ma non mosse neanche minimamente il
collo o le spalle, proprio come una statua che all’improvviso avesse acquisito
la capacità di muovere le gambe - il soldato romano le fu davanti, a pochi
centimetri di distanza. Infilò il dito indice sotto il collare di cuoio che lei
portava alla gola e iniziò a tirarlo verso il basso. Ma gli schiavi ancora le
tenevano i capelli e lei sentiva che le si strappavano
dalla testa, mano a mano che il padrone continuava a tirarla giù per il
collare. Alla fine il padrone lasciò la presa con un movimento brusco e la
schiava gridò di dolore. Gli schiavi lasciarono la presa e dei capelli scuri
rimasero loro nelle mani. La schiava si sarebbe accasciata a terra in lacrime,
se non ci fossero stati quei giganteschi mostri che ancora la tenevano per le
braccia e i fianchi e le gambe.
Intorno nella stanza guardavano
tutti con poco interesse la scena, salvo gli altri schiavi, che lanciavano
soltanto occhiate furtive e praticamente
impercettibili. Tenevano lo sguardo basso, perché avevano tutti
paura che, senza un motivo particolare, sarebbe potuto toccare anche a
loro.
A quel punto la schiava non
sentiva più niente di quello che veniva detto dal
padrone; d’un tratto le lacrime le appannarono la vista e non riuscì più a
distinguere niente del salone. Soltanto il padrone che era davanti a lei, vedeva
soltanto lui, o lo immaginava, perché aveva il suo fiato in faccia.
La guardò a lungo. Non si mosse,
e neanche quelli che la tenevano si mossero.
Niente, niente si mosse, fin quando gli ospiti, sazi di cibo, di vino e di donne, si
alzarono barcollando come borracce svuotate. Erano evidentemente pronti ad
andarsene. Soltanto allora il padrone si mosse e si mise a parlare con loro in
modo del tutto naturale, come se non fosse successo niente. Gli schiavi nerboruti
allentarono la presa, e la schiava fu certa di sentire il sangue che tornava a
scorrere.
Dopo alcuni minuti gli ospiti se ne andarono. Il padrone si avvicinò rapidamente alla
schiava, le assestò due colpi di frusta sul seno, e la lasciò andare, dolorante,
impaurita e umiliata. Dette ordine che l’indomani la
portassero alle torture.
Era chiusa da sola nella camera
che di solito divideva con altre schiave. Non c’erano finestre, e fuori due
grossi uomini montavano la guardia nel caso lei fosse riuscita
– anche se non poteva riuscirci – a togliere da sola il pesante
chiavistello che chiudeva la porta dall’esterno.
Non c’erano vie di fuga, ne coi piedi né col sangue. Non c’erano aperture di nessuno tipo né c’erano coltelli, lime, pezzi di ferro
appunti: non poteva accoltellarsi, non poteva impiccarsi, non c’erano neanche
corde.
Ogni volta che la forza
dell’abitudine, quella bestia che in qualche maniera riesce sempre a far
dimenticare tutto il resto, le diceva con chissà quale coraggio di mettersi a
dormire, arrivava immediatamente la ragione, l’anima che gridava con tutte le
sue forze di ricordare quei pali, ricordare quei
ferri, ricordare quelle braci e quelle fiamme e le corde e le catene e i fili
spinati. Lei drizzava su, uno scatto e un grido isterico. Il
pianto che terrificava perfino gli schiavi là fuori, che soffrivano e
stringevano le cosce muscolose, sentendo cigolare la gola del roditore
destinato alle torture. Schiacciato contro un angolo e in trappola, con
il naso rosa che trema e le orecchie abbassate che vibrano, in un mare di urina ed escrementi e vomito.
Anche
loro avevano visto quella stanza.
La schiava capì che c’era un solo
modo per cavarsela. O almeno per avere una speranza di
riuscirci.
Ma
doveva essere brava a recitare, ed era talmente spaventata che aveva seri dubbi
sulla riuscita del suo piano. La forza dell’abitudine le stava di nuovo suggerendo
di calmarsi, dicendole che non era il caso di mandare il padrone su tutte le
furie così.
Ma il
cervello di nuovo la faceva scattare in alto con lo stomaco capovolto e il
cuore che stava per scoppiare in un’esplosione di sangue, schizzando via dal
petto fino alla parte opposta della stanza.
Se il padrone viene a sapere quello che stai facendo…
Non importa: ora o mai più.
Gli schiavi erano abituati alle
grida e ai pianti e ai sospiri smorzati; perciò quando non li udirono più,
sentendo invece dei colpi sommessi alla porta, esitarono per lunghi minuti, ma
poi si decisero a controllare. Non si sarebbero stupiti per niente di trovarla
morta.
Il corpo della schiava egizia era
abbandonato contro la porta e fu quindi necessario un minimo di spinta supplementare da parte degli schiavi per spalancarla.
E trovarono più o meno quello che si erano aspettati:
la ragazza che stava già impallidendo, morta, con il lenzuolo stretto intorno
al collo: si era strangolata.
La schiava doveva fingersi morta
a tutti gli effetti. Aveva un solo terrore, ovvero che
qualcuno controllasse il battito del suo cuore: l’avrebbe trovato impazzito.
Sudava anche, ma sperava che gli schiavi non se ne accorgessero:
aveva indossato l’abito a maniche lunghe di un’altra schiava che dormiva in
quella stanza. In questo modo, forse si sarebbe visto meno il suo sudore. E comunque, aveva espulso talmente tante cose durante quelle
ore, che nessuno ci avrebbe dovuto far troppo caso.
La fortuna fu dalla sua, perché
entro poco tempo sentì che le mancava la terra sotto il corpo: uno schiavo
l’abbrancò e se la caricò sulle spalle, le tolse il vestito e la scaricò, nuda
e sporca com’era, lasciandola ancora col lenzuolo intorno alla testa,
lanciandola in aria. Lei sentì l’inconfondibile aria aperta. Non
fresca, perché l’olezzo di un mucchio di cadaveri la rendeva pesante.
Aprì gli occhi, radunando tutto
il suo coraggio, e scoprì, attraverso la semi
trasparenza del lenzuolo che le avvolgeva il capo, membra scheletriche, pelli
secche e ferite, croste e moncherini; era su di una catasta di un corpi in
marcitura, come l’odore aveva preannunciato.
Era appena sorta l’alba, il
padrone si stava probabilmente svegliando. Improvvisamente, con uno slancio del
quale non si sarebbe mai creduta capace, la schiava saltò in piedi e corse,
corse, corse disperatamente, certa di avere l’ira
delle fiamme dietro di sé, fiamme che la inseguivano per mangiarsela.
In Egitto si era sempre parlato
molto di Roma.
Lei ricordava volti esaltati e
voci entusiaste, e belle parole, posti stupendi che si formavano dai discorsi
di giovani e vecchi, donne e uomini, tutte persone che
avevano visto l’urbe o che ne avevano
sentito parlare dai mercanti al porto: erano racconti straordinari che salivano
dalla foce del Nilo e galoppavano fino al palazzo reale, come un cavallone di
vento fresco e profumato che viaggiasse sopra l’acqua, in un unico grande
balzo.
La schiava non poteva credere,
adesso, di aver fatto la conoscenza di Roma e di trovarsi con lei; ma Roma,
sicuramente, poteva credere benissimo di aver conosciuto un’altra disgraziata
simile, e non era minimamente stupita della sua presenza.
Girava nuda coperta di schifezze
ed emanando puzza e disperazione disgustanti. Ma nessuno era troppo lesto a
ritrarre lo sguardo quando la vedeva.
La schiava si trovava volutamente
nelle strade meno trafficate, i vicoli più stretti che
riuscisse a trovare, e li vedeva saltare, come saltava il suo cuore, come
saltavano le case e franavano durante un terremoto. Era ancora terrorizzata e
sapeva che il pericolo non era finito. Ma aveva addosso un’eccitazione
che non era soltanto negativa. Non riusciva a spiegarsela.
Mano a mano
che affondava fra le viscere di Roma, Roma le regalava il peggio che potesse
vomitare, come per punirla del fastidio che stava cominciando a dare.
La schiava vide i malformati,
avvolti nei loro tabarri che alla meno peggio
coprivano tutte quelle parti del corpo che spuntavano dove non dovevano essere
e mancavano dove non avrebbero dovuto mancare. Vide gente camminare zoppa e cento occhi che la guardavano e un baluginare di
coltelli nel buio di qualche altro vicolo, animali morti, sporcizie che
precipitavano da minuscole finestre simili a feritoie, Roma che alzava le
braccia chiudendo il cielo. Sembrava che i due lati della strada convergessero
l’uno verso l’altro e si sentivano persone gridare, e
bambini squittire, come se quello schiacciamento inferisse loro un dolore
inenarrabile.
All’improvviso qualcuno la prese
per un braccio e la tirò in un vicolo. Lei incominciò subito a
urlare e pensò che sarebbe morta se il suo cuore non avesse smesso di
gonfiarsi, bere sangue e saltare come un matto.
L’uomo le tappò la bocca con una
mano piena di anelli d’argento, e la voltò in modo da
poterla vedere in viso. A lui non faceva schifo tutta
quella merda, probabilmente davvero lei non era la prima che capitava lì in
quelle condizioni. Là era tutto un decomporsi e un continuo premere, premere,
premere, coi cadaveri che restavano schiacciati
insieme ai vivi e tutto che si mescolava insieme nel luogo più orribile che lei
avesse mai visto.
- Vieni con me e ti aiuterò, -
disse l’uomo, spiccio. Lei non poté che seguirlo. E
dove sarebbe andata sennò? Quella non era una domanda, ma un ordine. E lei non era un cavallo in corsa, ma una cagna ferita in
fuga.
*
Era abbastanza facile ricostruire
come lei fosse arrivata lì: aveva seguito quell’uomo e poi era passata di mano in mano proprio come
un oggetto. Un gioco molto divertente, che molti sembravano
apprezzare.
La prima volta era stata
spaventata. L’avevano buttata in una vasca d’acqua calda e mani rozze l’avevano
strofinata energicamente, per il tempo che bastava a toglierle di dosso la
sporcizia e la tinta bianca che si era data sulla pelle per farla sembrare esangue.
L’avevano tirata fuori, le
avevano fatto indossare minuscoli stracci e sandali con un
alta zeppa di sughero e lacci di cuoio stretti intorno alle caviglie, le
avevano tinto gli occhi e le labbra e l’avevano di nuovo trascinata per quei
vicoli.
Sì, era stata molto spaventata.
Non sapeva che cosa doveva fare, non capiva che cosa le dicevano, cosa si dicevano tra loro.
- Sei vergine? - le aveva chiesto
una donna, con la voce più lasciva e miagolante che la
schiava egizia avesse mai sentito.
Non aveva risposto, e la donna
l’aveva scossa, aveva ripetuto la domanda, e poi da capo.
Sei vergine?
Sei vergine?
Sei vergine? La schiava non sapeva che cosa volesse dire.
- A quanto pare sì, - concluse la
donna in tono brusco. Le assestò uno schiaffo, e trascinandola per un braccio
con una presa solida, mentre lei barcollava su quelle alte calzature, la
trascinò in una stanza illuminata da alcune torce, dove una lunga fila di gente
aspettava il suo turno ad un banco rozzo. Il turno per cosa, lei non lo sapeva
ancora.
- E’ vergine, - dichiarò la donna
col tono di voce più invitante che fosse capace di produrre.
“Sovrapprezzo”, dichiarò.
E da
quella prima volta non aveva più avuto paura, perché il padrone non l’aveva più
cercata
*
Veniva dall’Egitto.
Ma
dell’Egitto aveva la stessa visione confusa di sempre. Forse
più confusa ancora, perché ai suoi ricordi più dolci e innocenti si
sovrapponevano in continuazione quei nuovi odori e quel nuovo fuoco che
bruciava le feci, le montagne di feci sulle quali si sdraiavano tutti loro,
quando avevano finito la loro vita, per un giorno o per una notte.
Quante volte
finiva la sua vita. E ogni volta l’Egitto
spariva per lasciare spazio alla puzza. I fiori di loto diventavano macchie
bianche che andavano diventando marroni, il Nilo si
trasformava nel Tevere fangoso, nubi di zanzare, scarti morti di ogni genere
che venivano trascinati dalla corrente e si incastravano fra loro sulle sponde.
Le piramidi diventavano i palazzi di Roma, quei bei palazzi
principeschi che lei non avrebbe mai visto (mai più) se non da lontano, e la
cosa la lasciava del tutto indifferente. Le sabbie del deserto non erano più
idee concepibili. Intorno a Roma c’erano campi e erbe
bagnate, c’erano i soliti disperati che in tutto il mondo c’erano, ma che lei
non aveva mai conosciuto.
La pressurizzazione
era sempre più asfissiante. Ogni giorno uguale. Si allentava durante il sonno
per poi riprendere non appena la mente tornava a riflettere. La lupa cercava di imparare a non
riflettere più.
Ma non
ci riusciva. Ne era talmente incapace che aveva sempre
un pensiero fisso in testa. Un altro di quei segreti che
custodiva senza un motivo preciso: in fondo, a nessuno sarebbe importato più di
tanto se avesse deciso di farne cosa pubblica, se di pubblico ce ne sarebbe
stato mai. A lei andava solo di tenere la cosa per sé. Perché era
un’idea lusinghiera, e tenerla dentro era come un cullarla, era come essere incinta di un’idea, e non stare più nella pelle
di darla alla luce fisicamente, ma bisogna aspettare per forza. Tenére dentro questa idea era come cullarla ed accrescere sistematicamente
la gioia che avrebbe generato una volta messa in atto. Era un morboso affetto
verso la sua idea, la quale, a pensarci, avrebbe dovuto essere orribile, invece
sembrava soltanto un’idea come un'altra, che appunto per questo andava cullata
e coccolata nell’intimo: perché assumesse quella gradazione di rosso speciale
che ha soltanto un tipo di idea, soltanto un tipo di
fuoco. Quello del suicidio.
Fu una mattina vagando con un
coltello in mano, in uno strano e crudele stato di lucidità, per i vicoli di
Roma. Dopo sette anni ormai era irriconoscibile, e niente toglieva che in una
qualsiasi circostanza il padrone fosse morto. Ma chi ci pensava più al padrone? Aveva avuto padroni che
cambiavano tutte le notti o anche che ritornavano ogni tanto, oppure tipi di
padroni che tornavano con la puntualità antipatica di chi non ha niente di
meglio da fare in tutta la sua vita che tenere bene il conto di un determinato
calendario, quello che decideva i giorni in cui era d’uopo recarsi al lupanare.
Soltanto questi tipi di padrone
la cercavano, e non che la cercassero poi tanto, dato
che erano sicuri di trovarla sempre lì. A lei piaceva quest’idea
di suicidio anche perché era l’unico modo che avesse per stare tranquilla e
dare contemporaneamente una preoccupazione a quelli che per tutto il giorno
tenevano in considerazione i giorni in cui andare a
trovarla, e, di persone così, ce n’erano almeno cinque.
Vagando per le strade più basse
di Roma, si ricordò che era autunno, la stessa stagione arancio e grigio perla
che aveva aleggiato attorno agli alberi-uomo che l’avevano accolta
quando era stata portata lì. Un ricordo, pur sempre un ricordo. Le dava una strana emozione leggermente acuta, come
tutti i ricordi che si è cercato per tanto tempo di
respingere. E più ci pensava, più le faceva male.
Chiuse gli occhi.
Ed era il vento dell’Egitto
quello che spirava adesso nei suoi capelli e che guidava i suoi passi
barcollanti, non era il nugolo pestilenziale d’insetti che veniva
su dal Tevere. Era l’odore di loto che veniva dai giardini del palazzo, portato
dalla brezza. Un salmastro che risaliva il Nilo passando per
il mercato e caricandosi di spezie e di frutti carnosi e turgidi, diventando un
odore spossante che trasformava il giorno in una costante dolce violenza.
Oh, che bello. Continuando a
camminare ad occhi chiusi, lasciandosi guidare da questa visione, immaginò
adesso che arrivasse la notte posandosi sul deserto come una piuma celeste. Il
cielo si faceva scuro, ma limpido, e l’aria si
raffreddava. Comparivano le stelle, e più le guardavi, più scoprivi
che ne venivano fuori da tutte le parti, gioielli splendidi della luna, la
regina che era sorta circondata da una luminescenza di fiori di loto. Le voci
si spegnevano e niente molestava più la pace che profumava della stanchezza del
giorno, dissipando ciò che del giorno era rimasto e
trasformandolo in un nuovo profumo, più dolce e apparentemente impercettibile.
Una vera bellezza. E tutte le pressioni scomparvero di colpo, a parte la
pressione che per un minuscolo attimo la lama del coltello esercitò sulla pelle
unta della donna, prima di affondare nella carne. E la
carne si chiuse intorno alla lama riversandole contro un fiotto di sangue che
sgorgò zampillando dalla ferita, quando la lama uscì. E
poi affondò di nuovo. Uscì e rientrò, uscì e rientro tante tante volte, accompagnando il tramonto del sole e le
fasi della luna che girava vagando per il cielo come il loto negli stagni
profondi, mettendo a tacere con la sua forza sinistra la fiamma che aveva
sempre bruciato l’Egitto.
La fiamma che
bruciava la donna. Oh,
che bellezza, che splendida visione di fuoco!
Ma tutto
ciò se ne bruciò da sé e si spense. Poi la mattina dopo, quel che ne rimaneva giacque lì per strada, e le braccia di Roma se lo
premettero al petto sudato, insieme con tutte le altre carni.