Riflessi d'innocenza

di parfina
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Quell'inverno fu uno dei più freddi degli ultimi cinque anni, uno di quegli inverni che ti entrava prepotentemente nelle ossa e te le congelava fino a bloccarti i movimenti. Le mani congelate, che al minimo segno di riscaldamento bruciavano come l'inferno.

Poi arrivò la primavera e fu bellissima: l'erba e i fiori appena germogliati sospinti dal vento fresco, le piogge torrenziali e improvvise di marzo, le gocce d'acqua che sbattevano violentemente sui tetti e sull'asfalto. Emilia amava guardare la pioggia distesa comodamente sul suo letto, con lo sguardo fisso sulle gocce che scendevano velocemente sul vetro graffiato della sua finestra. Quando era più piccola, le piaceva immaginare che le gocce facessero a gara su chi arrivasse per prima sulla cornice della finestra, come le macchine che sfrecciavano in paese.

Poi arrivò l'estate, calda e umida, che costringeva Emilia a restare in veranda, stesa in pose improponibili sulla sedia a dondolo, facendo sventolare le sue piccole mani cercando di creare un po' di aria fresca.

Quella stessa estate, Lucia, la madre di Emilia, decise di mettere in affitto una delle camere di casa loro. In soli due mesi, più di otto pensionanti erano passati per quella casa, ed erano per lo più scrittori stranieri che volevano trovare ispirazione dalla campagna italiana.

Ognuno di loro aveva lasciato in Emilia dei ricordi ben precisi: Lars, lo svizzero stempiato con i capelli dello stesso colore della birra, aveva la mania di mangiare con delle posate di sua esclusiva proprietà. Poi c'era Edward, un inglese poco dedito all'igiene personale, che rimaneva ore chiuso in camera sua a scrivere con l'incessante rumore della macchina da scrivere, che riecheggiava sonoramente per la casa silenziosa. Infine, ci fu Lucien, un americano, il ragazzo più bello che Emilia avesse mai visto, un intellettuale che aveva il vizio del fumo, come tutti gli intellettuali.

 





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