[Dedicata a Giulia.
Perchè si spera che io riesca a darle questa schifezza il 14
giugno,
nonché il giorno del suo compleanno.
Potrei parlare per dieci pagine di word amore,
quindi cerco di bloccarmi in poche righe,
Non sarà molto bella.
Però è fatta col cuore, pensando ai tuoi gusti.
Ho provato a pensare alla tua coppia preferita, al tuo dinamitardo e
alla tua bambolina preferita.
Al tuo stile un po' angst, romantico, tragico/macabro.
Al tuo tocco di erotismo nascosto, tramutato da me in un sogno *muahaha
*, alla tua mania di infilare battutine in scene tragiche.
Oh, io ci ho provato xD
Spero siano IC, spero con tutto il cuore che ti piaccia,
Un piccolo regalo per augurarti da lontano, un sincero Tanti auguri.
Ti amo pazzoide. <3
… … ...
Ancora una cosa! ùù
Dedico Deidara a Elisa.
Per prima cosa perchè il logo è suo, e poi...
Su Elì, non conosci i famosi kamikaze rinascimentali? XD ]
Nella Firenze del 400 sbocciano l'arte e
la passione.
Ma... con pizzico di romanticismo e noir in più.
Un incontro inevitabile tra due nemesi lontane.
Un sentimento d'odio, di invidia ma intriso di una sfrenata attrazione.
Quando l'eternità incontra l'attimo... Che catastrofe ne
può conseguire?
.Chocolate
Strawberry
“Sasori sarebbe rimasto un eterna illusione nel nulla di
Susanoo,
una mela vermiglia dell'albero sacro.”
Con i polpastrelli del pollice, il biondo, sfiorò
delicatamente il palmo della mano, giocando con la lingua sulle labbra
sottili. I capelli dorati, incorniciavano disordinatamente il viso
pulito, dai tratti femminei, mentre negli occhi padroneggiava solo
un'insensata soddisfazione.
Mosse un passo, sempre intento a fissare la cicatrice che svettava tra
la carnagione lattea della mano: le stesse cicatrici che lo
costringevano al dolore, alla voglia di dare sempre il massimo in tutto
ciò che faceva. Si guardò intorno raccogliendo i
capelli, con un elastico, dietro la nuca. Inclinò la testa
in avanti arrivando ad annusare ogni molecola del profumo che,
invitante, saliva dal piatto.
Quella poteva definirsi arte.
Arte del più geniale cuoco presente a Firenze, nel '400.
Ogni alimento, anche il più semplice, nelle sue mani
diventava una combinazioni di sapori, di odori capaci di mandare in
estasi il fortunato assaggiatore.
Vedere negli occhi degli uomini, fili intessersi creando bagliori
impercettibili; udire gemiti quasi inconsistenti mostrarsi nella sala
ad ogni boccone; immaginare danze invisibili cominciare negli angoli
più celati della mente, per poi consumarsi su papille
gustative in festa... quella era l'arte secondo Deidara. Lui ambiva ad
un attimo di pura estasi, ad un secondo di sfuggente passione. Voleva
creare la sensazione di un momento, che sarebbe volato via, ma che,
allo stesso tempo, si sarebbe introdotto con forza nel cuore dell'uomo,
lasciando al suo passaggio una scia di enorme piacere. «Stai
pronto a portare in tavola il primo piatto » il suo ordine
vibrò severo sulle labbra, mentre un dito ordinava al
cameriere il luogo dove portate le pietanze. «Ancora cinque
secondi... ora » tutto doveva essere perfetto quando lui era
il cuoco: dallo staff, agli orari; dagli assaggiatori agli stessi
piatti.
Il cameriere prese velocemente il carrello, trascinandolo nella stanza
accanto. Seduti compostamente alle sedie del tavolo imbandito, tutti i
più importanti signori d'Italia aspettavano –
pretendevano - il pranzo come nobili marionette arroganti,
troppo pigre per muovere sole i propri passi.
Deidara alzò il piede lentamente – si
pulì le mani, sorrise – arrivando a lambire i
cardini della porta di nocciolo: sporse la testa, e osservò,
persona per persona, i lineamenti dei nobili sempre, in qualche modo,
esagerati. Vide il re, la regina e la loro figlia, poi
osservò tutti i duca, i conti. Ne studiò i
movimenti, ne scrutò gli occhi che inevitabilmente si
soffermavano lì; in quell'unica sedia vuota, una nota
stonata strappata ad uno spartito perfetto. Chi osava ritardare ad una
sua cena? Contò nella mente gli invitati, enumerò
i presenti, i loro volti.
«Scusate per il ritardo » una voce
risuonò tra le volte dorate del palazzo, troppo sensuale per
essere ignorata. Troppo artistica per non osservare il possessore. In
risposta alzò gli occhi, incrociando di sfuggita lo sguardo
dell'uomo. Riconobbe i suoi lineamenti, riconobbe le dita affusolate e
leggermente callose. Riconobbe il suo viso, e vide nella mente il suo
nome, stampato come un tatuaggio. Lui era il suo antipodo, il suo
rivale. Lui era Sasori, lo scorpione, il più talentuoso
scultore che l'intera Mantova, l'intero mondo avesse mai avuto.
Ed ora stava lì, in piedi davanti alla sedia, pronto ad
assaggiare i suoi piatti. Inevitabile provare onore. Inevitabile
trovarsi a sperare...
«Ma non posso restare di più, ho altri impegni
» la sua voce risultò suadente, tanto da rendere
la delusione una piccola macchia in fondo al cuore. Si
inchinò leggermente, tornando da dove era venuto.
Deidara non disse niente... semplicemente lo fissò, allibito.
* * *
Mise a posto le ultime cose, e uscì dalla cucina...
finalmente.
Dietro i vetri della finestra, si poteva intravedere già il
tramonto,accompagnato da tutte le sfumature che creava.
Quel giorno di lavoro gravava ancora sulla sua mente, pesava
sull'orgoglio, sull'ambizione.
Li poteva vedere entrambi – l'orgoglio e l'ambizione
– legati al cappio di una corda. E li intravedeva pochi
attimi dopo a penzoloni, annegati in un respiro cercato. Uccisi, da un
inchino di cortesia.
Camminava per i corridoi del castello, ignorando completamente tutte le
persone che, forse solo per gentilezza, gli porgevano un saluto. Si
sistemò il colletto, e si strinse la coda posta sopra la
nuca.
E' un ambasciatore di pace.
Un bel corno! Lui non lo voleva nella sua Firenze: quella
città era abbastanza grande per un solo genio, non per due.
Arrancò un passo in avanti, in quel momento avrebbe tanto
voluto essere a letto, e si bloccò davanti ad una porta: ne
accarezzò gli spigoli, spiando ciò che succedeva
dentro.
Non c'era maniera per descriverlo: un aggettivo lo sminuiva, due erano
anche troppi.
E lui, come tutti, non trovava una via di mezzo.
I suoi occhi castani erano persi in un luogo sconosciuto, in una
dimensione inarrivabile per chiunque. I suoi gesti erano perfetti,
nessuna parola li descriveva meglio: sensuali, coordinati col piccolo
scalpello. Sasori doveva fare il chirurgo, in fondo aveva talento.
Già, doveva ammetterlo. Lo scorpione sapeva usare le mani,
per l'arte.
Sapeva incantare l'anima, spezzare il tempo. Infiltrarsi nel cuore, e
distruggerlo dall'interno.
Sasori pareva una bambola; una di quelle che costavano tanto, dalla
pelle liscia e invitante, dagli occhi di un azzurro irreale, dai tratti
delineati dal linee d'inchiostro...
Com'era eccitante l'idea di averlo accanto! Come sarebbe... bello,
essere una delle sue opere, grate – senza ombra di dubbio
– del suo tocco! Invidioso della perfezione? Ovviamente. Per
una volta Deidara avrebbe voluto essere il migliore, il genio. Non il
misero secondo arrivato, perennemente in basso, sullo scalino a destra
del podio.
Ma era davvero arte quella? Che mai poteva avere di bello, un blocco di
pietra.
A differenza sua Sasori voleva aggredire la perfezione: trascinare
l'arte negli anni, regalando attimi di venerazione, strappando sorrisi
ai volti più bui. Voleva fermare il tempo, bloccare cuori
stracolmi, occhi stanchi, anime straziate... e farli rinascere -liberi
– in un altra epoca, in un altra vita. Pretendeva di far
ammirare ciò che faceva nell'eterna utopia di Firenze, di
istillare nell'animo altrui un sentimento capace di smuovere le menti,
i cuori.
Entrò nella stanza come ipnotizzato dal suo profilo, ne
catturò l'attenzione e rimase immobile.
Le loro erano arti diverse, arti che, inevitabilmente, si completavano.
Perchè non si potevano dividere due opposti. Per quanto
lontani possano essere, per quanto irraggiungibili all'apparenza...
saranno sempre uniti dall'altro polo dell'universo: come il giorno non
può nascere senza la notte, l'eternità non poteva
esistere senza ogni effimero attimo.
«Questa... non è arte »
sentenziò Deidara accarezzando i profili della statua.
«Non evoca nessun ricordo, nessun sentimento. Punta solo
all'esteriorità, alla bellezza piatta. » Sasori
bloccò le mani, intente a rifinire i particolari, catturando
con violenza lo sguardo di cielo. Assurdo paragonarlo ad un predatore
con la sua preda, ad un gioco di agilità, dove vince, chi
corre più veloce. «E voi? Voi che arrivate a
dubitare della mia arte, chi siete? »
«Deidara, cuoco di Lorenzo de Medici »
sfiorò con gli occhi i tratti duri del volto,
osservò le strisce lucenti che incorniciavano il mento
perfettamente spigoloso. Abbassò poi lo sguardo
e…annegò. I suoi occhi assomigliavano al mare che
attorniava l'Italia: gelido e caldo, affascinante ma letale al
contempo. «Un cuoco? Da uno che dice simili ipocrisie, mi
aspettavo qualcosa di meglio. Cosa ne potete sapere voi dell'arte,
della mia arte? » disse mentre le labbra
si stesero in un sorriso.
«I miei piatti sono l'arte stessa.
Riescono a creare il piacere di un momento, l'effimero ricordo di gusti
perfetti. Non puntano a durare nel tempo, cosicché gli occhi
umani si abituino ad un simile obbrobrio. » Nella piccola
stanza calò il silenzio. Solo la luce del sole, che filtrava
attraverso i cristalli dei vetri riuscivano a riempirla, seppur di
poco. Il falco socchiuse gli occhi, certo di aver vinto il primo round,
nella guerra contro lo scorpione. Alzò la mano per
sistemarsi i capelli, ma la risata sonora di Sasori lo colse alla
sprovvista; il suo sorriso ardeva nel cuore, una fiamma densa che
bruciava ogni cosa sul suo cammino, facendo male. Dannatamente male.
«Se vi credete così bravo... dovrete farmi
assaggiare uno dei vostri piatti la prossima volta. Visto che
all'ultima cena non sono riuscito a mangiare niente. »
Parlò piano, legando le parole da melliflue pause. Aspettava
una risposta, forse la pretendeva quasi... finché nel
ritrovato silenzio, Deidara, tornò alla lucidità,
capendo che una guerra era appena cominciata. «E sia, vi
stupirò Sasori» Sul viso di entrambi solo un
sorriso beffardo e una strana luce negli occhi, ancora legati dal
contatto dello sguardo. Inutile decretare il vincitore di quel round, a
quel punto: il loro profumo aveva dato alla testa ad entrambi.
«Allora venite come me, vi inebrierò i sensi
» dichiarò deciso, voltandosi di spalle. Fece
qualche passo in avanti, intento ad aprire la porta, ma il silenzio
dietro di sé, lo raggelò. «Non venite?
»
«Non ne ho voglia» sibilò bonariamente.
«Però, vi crederò sulla parola.
»
«No! » il suo urlo rieccheggiò tra
l'intonaco dei muri, vibrò nelle orecchie dello scultore
facendolo sussultare leggermente. «Voi dovete vedere, dovete
ammettere che la vostra non arte. La mia è arte, la mia
è... »
«Sapete Deidara? Voi rappresentate per me la cosa
più pericolosa al mondo »
«La cosa più pericolosa al mondo? »
rimase stupito, dalla sincerità intrisa nella voce. Lui non
puntava ad incutere paura. Sasori sarebbe mai riuscito a capirlo? Lui
voleva il rispetto, lo pretendeva. «Non credo. Quelle
sono le fragole al cioccolato. » sibilò
il biondo, alzando gli occhi al cielo come se la risposta fosse ovvia.
«Le fragole al... »
«Già, la combinazione più peccaminosa
al mondo. »
Sasori lo fissò sorpreso, stupito dai suoi occhi privi di
ogni malizia, dalla sua geniale follia. Una tentazione, la
più peccaminosa e lussuriosa, racchiusa in frutto? Scosse la
testa e non aggiunse altra parola: quel cuoco lo affascinava da morire.
* * *
Quando la mattina dopo Deidara aprì gli occhi, il sole
spaccava già a metà il cielo. Stirò i
muscoli, tentennando sulla decisione d'alzarsi: in fondo non era
l'unico cuoco del palazzo, quindi perchè non godersi ancora
un po' del meritato riposo? Scostò le coperte del letto,
assaporandosi gli spifferi d'aria. Gli occhi ancora gonfi dal sonno,
stanchi dall'incubo.
... Aveva memorizzato ogni cosa dell' incubo – o sogno? - che
gli aveva tormentato la notte. Ogni parola, ogni movimento. Si
ricordava benissimo la figura pallida entrare maliziosamente nella
stanza, sfilarsi i vestiti e, senza ritegno, intrufolarsi nel suo
letto. Rammentava il gelido tepore dei suoi piedi, lo sguardo vuoto
mentre scivolava sotto le coperte. E infine ricordava la lingua
guizzante nell'incavo del linguine, il piacere provocato dalla leggera
penetrazione...
Un giorno avrebbe mai avuto l'occasione di tramutare sogno in
realtà? Avrebbe mai avuto il coraggio di cogliere la mela
dall'albero di Dio? Dare ascolto al serpente, alla tentazione, per
attimi di puro piacere. Dopotutto, era così che incantava i
suoi sostenitori. Quindi, perchè non cedere lui stesso?
Si alzò dal letto, avvicinandosi, con qualche barcollo, al
cestello pieno d'acqua. Intinse le mani nel liquido, godendo del lieve
freddo. «Sto diventando scemo» concluse sorridendo.
«Dite che questa
è arte?»
«Voi, siete l'arte»
Sprofondò col volto nell'acqua, cercando inutilmente di
scacciare quei pensieri.
… Quella fu la prima volta che il falco sognò lo
scorpione; e doveva anche essere l'ultima.
«Dimostratelo»
«Cosa volete che faccia?»
«Rendete questo momento perfetto.»
«Allora... fatemi vostro. Nel cuore e nell'anima.»
Consapevole che una cosa del genere non sarebbe mai successa, Deidara,
alzò di nuovo il volto boccheggiando l'aria intorno a se.
«Mi sto perfino eccitando! » urlò poi,
sconvolto. Si guardò il cavallo dei pantaloni, stampandosi
il palmo della mano alla fronte: era... vero.
«Signore? »
Deidara sussultò violentemente, asciugandosi il volto.
«Sì? Entrate pure»
«C'è una visita per voi, posso farlo
entrare?» Non ebbe tempo di rispondere che, Sasori, comparve
a pochi passi da lui; perfetto come sempre. «Di solito si
aspetta il permesso, sapete per ben educazione»
sbottò irato.
«Ma io non volevo entrare, lo pretendevo.»
Se lo immaginava steso sul letto, abbracciato dalle morbide lenzuola
nere: riusciva a vedere i capelli arruffati, appiccicati delicatamente
alle guance dal lieve velo di sudore, gli occhi duri, improvvisamente
divenuti morbidi, carezzevoli. E riusciva a sentire i respiri caldi tra
i riccioli chiari del pube, la lingua leziosa lungo l'erezione
fremente...
L'orgoglio dello scorpione avrebbe mai permesso una cosa del genere?
No. Sasori sarebbe rimasto un eterna illusione nel nulla di Susanoo,
una mela vermiglia dell'albero sacro.
«Qualche problema? » sussurrò Sasori.
Chissà se l'artista toccava i suoi amanti, come sfiorava le
suo opere d'arte. Chissà se un giorno avrebbe toccato
così anche lui. «No, nessun problema»
rispose il Deidara seccato; il cavallo dei pantaloni che cominciava ad
essere veramente d'intralcio. Il fulvo danzò con lo sguardo
sui tratti delicati del biondo, evitando volontariamente di
soffermarsi. Lasciò cadere le mani lungo i fianchi e
sospirò, notando i pozzi cristallini che, innocenti, ancora
lo stavano fissando.
«Comunque tornando a noi. Sono venuto qui per consegnarvi
questo » Prese dalla tasca una busta bianca, porgendolo, con
la solita arrogante nobiltà, al biondo ancora mezzo
addormentato. «Mh? »
«E' l'invito ufficiale al ballo di questa sera. Non dovrete
venire da cuoco, ma come nobile. E per favore... spero vivamente che
verrete conciato meglio di come siete adesso. » lo
squadrò, divertito e altezzoso. «Divertente, sul
serio » Ironizzò una risata, rispondendo con
disprezzo.
Come diavolo si permetteva? Forse non aveva ancora capito chi lui fosse.
Prese l'invito tra le mani, poggiandolo sgarbatamente sul tavolo alla
sua sinistra. «Perchè avete voluto invitarmi?
»
«Perchè voglio farvi capire quanto io sia il
migliore » Deidara contrasse il volto, chiuse i palmi in una
presa ferrea. Sembrava che si divertisse, a farlo impazzire.
«Allora verrete? »
«Sì »
«Non vedo l'ora »
* * *
Si sedette a destra del re, incrociando con ansia le dita davanti al
volto. Sentiva le palpebre pesanti, la voce impastata dalla battaglia
in sospeso. Il petto si muoveva al ritmico tempo del respiro, divenuto
particolarmente agitato. Per lui? No impossibile.
Deidara era sempre stato il predatore, certo che nessuno al mondo
avrebbe mai potuto superarlo. Però, quegli occhi lo avevano
scaraventato con violenza nella verità, lo avevano
schiaffeggiato lasciando marcati segni rossi sulla sua autostima.
Sasori, era un complesso groviglio di fili: da capire, da maneggiare, e
solo poi, in seguito, da sbrogliare. E se solo un passaggio di questi
veniva saltato, tutto poteva andare a rotoli in pochi secondi.
«Finalmente è arrivato »
sibilò con entusiasmo Lorenzo. Strano, non aveva mai
mostrato tanto interesse per lui. «Sasori è qui
»
Deidara sussultò, alzando di scatto il volto; vago per la
stanza, passando per ochette e damerini permalosi. Nessuno che fosse
anche solo paragonabile alla sua perfezione, nessuno che si potesse
definire bello al suo confronto.
«Dove lo vedete? »
«Laggiù accanto a mia figlia... Sono proprio una
bella coppia »
Sasori non stava realmente ascoltando le parole della nobile, egli
guardava in un punto, aveva fisso il suo sguardo in occhi che ancora lo
stavano inseguendo. Occhi che desideravano averlo, che bramavano il suo
corpo, le sua membra.
«Perchè non andate a salutarlo Deidara? Ho sentito
che siete ottimi amici »
«Declino l'invito signore... Siamo solo conoscenti »
Il biondo sorrise, distogliendo lo sguardo. Che poteva farci? La sua
unica debolezza consisteva nella perfezione, e lui ne era l'esempio
vivente.
«Guardate si sta avvicinando »
Fu in quel momento, passo dopo passo, che Deidara comprese la
verità: la sua grazia, il suo talento, la sua amara
nobiltà... Non avrebbe mai creato una simile arte.
Però non provò invidia, le farfalle allo stomaco
non lo assalirono. E il senso di impotenza, seguito dalla
volontà di porre fine alla sua esistenza, lo risparmiarono
per una volta.
Lui non poteva nemmeno sfiorare la perfezione.
Però... poteva farla sua.
“Chocolate”
Un sussurro.
«Buonasera signore » sibilò il rosso,
inchinandosi davanti al trono affilato. «Deidara »
«A voi, Sasori » rispose Lorenzo, tranquillo.
Paradossale pensare che in fondo sarebbe stato bello, fare l'amore con
lui. Sentire il suo spirito entro di se, la voce roca sospirata
nell'orecchio.
«Non andate a ballare? E' appena cominciata la musica
»
Ma non fu il dolce suono del violino a inebriare i sensi del biondo,
non fu la musica a ipnotizzarlo, non la sensazione di impotenza a
scoraggiarlo così tanto. Sentiva la testa girare, incurante
delle leggi di gravità, attraverso il vortice di
irresistibile malia. Ma non ebbe tempo di parlare che si
volatilizzò, tra i passi sensuali del ballo. Lo
lasciò al ciglio di un burrone, ai confini dell'ossessione,
della follia. Sarebbe riuscito a fare un passo indietro, o sarebbe
precipitato nell'infinito rancore?
Prese la mano della ragazza, alzandola a ritmo della musica.
La strinse a se, con fare possessivo, e la baciò leggermente
sotto gli occhi impassibili di Sasori.
Era solo lui a provare invidia? Solo lui ad avere una morsa allo
stomaco, l'egoismo di volerlo tutto per se? Lo guardò
nuovamente, scrutò nei suoi occhi, scavò
nell'anima illeggibile.
«Mi volete? »
Perse l'accordo, sbagliando passo. Le labbra si muovevano lente,
piegate dalla piega sorniona.
Fecero vibrare la richiesta, nessun suono, nessuna reazione. Solo lui
poteva sentirlo, un urlo dentro la sua testa. Era Deidara, ad un passo
dalla crudele divinità.
«Forse »
«Allora venite »
«Stasera, dopo la festa. »
Rimase in silenzio, la risata che voleva prendere atto, infiltrarsi con
forza.
«Vi aspetterò, qui »
* * *
Entrò nella stanza stranamente impacciato, torturato della
voglia, l'eccitazione ormai presente.
Tra tanti, lui aveva scelto Deidara.
Tra mille, aveva scelto l'arte, l'attimo.
Si guardò intorno, osservando il tramonto dietro le grandi
finestre. La notte stava uccidendo il sole, così la pensava
Deidara: era bello credere in qualcosa di innaturale, qualcosa di
consapevolmente falso. Com'era bello e falso, immaginarsi insieme a lui
nel vortice della passione.
«Sasori? Siete qui? » le parole si persero nella
sala, l'eco rieccheggiò tra i muri vuoti.
Non era il tipo d'arrivare in ritardo.
Usci dalla stanza, dirigendosi verso la stanza dell'uomo.
«Ch- Che state facendo? » sibilò
Deidara, nel vedere la scena che, all'entrata, gli si
presentò davanti.
Valigie in mano, mantello da viaggio, un sorriso apatico sulla labbra.
«Cos-Cosa state facendo? » Sasori prese la sua
valigia e la consegnò al paggio. Poi asserì,
serio.
«Da quando ambite a distruggermi, Deidara? » il suo
sguardo lo incatenava, bruciava i vestiti mentre, con arroganza,
voltò le spalle pronto a salire in carrozza. Fu strano
pensare che ciò che vide, i capelli fulvi, la schiena
disegnata col carboncino, fosse una vista familiare: Sasori era sempre
un passo davanti a lui, era sempre più affascinante, sempre
più artistico.
«Scusa?»
«Con quegli sguardi, con quelle iridi di cielo. Da quando
ambite ad imprigionarmi? » sentenziò la frase come
fosse un insulto, sputò le parole a terra come fossero
qualcosa che sapeva, che sentiva ma che, senza remore, ripudiava.
«Io non voglio, rimanere in gabbia. Voglio poter muovermi,
libero » Però, Deidara aveva capito tutto. Forse
un intuizione sbagliata, ma nei più profondi meandri della
mente di Sasori – lo stesso che era avvolto da un'armatura di
freddo rancore – piangeva un bambino, annegato nel gelido
mare dei suoi occhi.
«Signor Sasori, voi siete stato imprigionato tempo fa. Anche
ora, qui adesso, portate una maschera, che non lascia uscire il vostro
vero volto.» Un sussulto scosse il suo corpo, le dita
richiuse con forza nella mano; ferivano la pelle lattea, ad ogni
scarica che gli frustava la spina dorsale. E presto, la prima goccia
scarlatta sporcò il pavimento.
«Chi vi fa credere che non sia questo il mio volto?
» Voltò la testa, gli occhi leggermente socchiusi.
Due spilli che penetravano la pelle, lasciando ferite profonde sul
rivale – Amico? Amante?-.
«Il vostro cuore. Non... batte»
In fondo al battito di un cuore fermo, che mai poteva esserci?
Semplice... il fondo ad esso, ci sarebbe stato solo il nulla.
«Mi dispiace » sussurrò infine,
attraverso il riflesso del finestrino
Deidara non rispose, solo un ultimo sguardo. Bastava un sussurro...
forse due.
Un gozzo in gola, troppo simile al suono di due parole gli impedivano
di versare lacrime, scatenare la rabbia in corpo. Ribellarsi alla
decisione presa senza il suo consenso.
Mentre innegabilmente la carrozza partì per Mantova.
Dite che qualcuno ha vinto la guerra?
Dite che si può decretare il vincitore e il vinto?
Io credo che sarebbe opportuno finirla in parità.
Prima però, dovrò ricomporre i pezzi del mio
cuore che,
senza ritegno avete gettato a terra.
Lo vedete?
Prendetelo, perchè è ancora vostro scorpione.
* * *
Camminava lento per il lungo corridoio di Palazzo Te, affrescato dai
migliori pittori in circolazione; la posizione ritta, fiera, le mani
intrecciate dietro la schiena. Osservò alcune donne passare,
ricambiando al loro sorriso con poco interesse. Si tirò
indietro i capelli, giocando con piccoli ciuffi e annusò
l'aria, avvertendo un odore diverso dal solito. Trattenne il respiro,
mentre il profumo riempì ogni molecola della stanza; lo
invitava ad entrare, spingendolo verso la porta senza violenza, ma con
forza. Sasori si bloccò all'istante, lambendo con le dita la
superficie ruvida della porta; la spinse delicatamente e
sgranò gli occhi senza farsi notare.
«Buongiorno» sibilò chiudendo la porta
dietro di se. Vagò con lo sguardo per la stanza e
inevitabilmente si soffermò lì, nel punto in cui,
sopra la coperta di seta, sedeva una donna muovendo lussuriosamente un
calice di vino. «Buongiorno a voi» disse lei,
soffocando una risata. «Vi stavo aspettando, scorpione
» L'uomo, ancora immobile sul ciglio della porta,
corrucciò la fronte, accigliato. «Scorp-»
«So bene chi siete voi, non c'è bisogno che lo
ripetiate. » sentenziò pacata.
Un gioco di sguardi, di intelligenza. Come negli scacchi stavano
entrambi studiando le mosse dell'avversario; e al primo passo falso
qualcuno sarebbe divenuto un vinto. «E il vostro signorina?
»
«Sakura Haruno » Terminato il nome, Sasori,
notò la curiosa sfumatura rosa dei capelli, poi gli occhi
del color di un serpente: occhi di un verde irreale, tale da mozzare il
fiato. «Petalo, di ciliegio..?!» sibilò
ironico «Sembrate più un
confetto» Vide le sue dita contrarsi attorno al
cristallo del calice, pronta a ridurlo in briciole. «Voi
invece siete uno scultore di altissimo livello, che si è
fatto molti nemici tra le signorie di Mantova.» Lo guardava
fervida, in tono di sfida, mentre Sasori sprofondò nella
morbida poltrona. «Lo so. E so anche che voi, Sakura, non
siete qui in veste amichevole. C'è per caso qualcuno che mi
vuole vedere morto? »
«La lista è molto lunga »
accarezzò con le labbra i bordi di vetro, assaporando le
piccole gocce depositate del liquido scuro. Sospirò
lievemente, appoggiando il bicchiere sul comodino vicino; si
alzò di scatto dal letto, facendo cadere a terra il boa di
piume corvine che, anche se minimamente, coprivano il corpo delicato.
«O è il mio compleanno e ne nessuno mi ha
avvertito » sfiorò con lo sguardo le curve morbide
dei fianchi, cercando di sviare la vista dal corpo che, come una
calamita, lo attirava a se.
Cadere nella tentazione, cedere al peccato carnale regalandosi attimi
di puro piacere – attimi di pura... arte
- . Da quando aveva bisogno di questo? Da quando il sesso facile, la
bramosia del desiderio avevano preso il sopravvento sulla sua mente?
«Guardatevi. Sono la cosa più pericolosa, la cosa
che in questo momento desiderate di più »
Ascoltò la voce come fosse l'eco di un urlo lontano,
guardò la figura avvicinarsi allo stacco del muscolo,
indifferente; la sentì giocare con i bottoni della
biancheria, cercando l'erezione sotto di essi.
Stava davvero cedendo alla lussuria? Lui, che era considerato l'uomo
perfetto: misterioso, sfuggente, stupendo... Lui
che aveva amato una sola volta, che aveva desiderato realmente un solo
corpo. «E'-è errato » sibilò
impassibile. «Voi siete bella, affascinante. Ma non siete la
cosa più pericolosa al mondo... quelle sono le fragole al
cioccolato.» Sakura alzò gli occhi, delusa nel
vedere che, lei, non aveva nessun effetto sulla mente dell'artista, ma
stupita dall'insolita reazione. «La combinazione
più peccaminosa al mondo» Giunto al
culmine, allontanò la ragazza con un gestaccio. Chiuse gli
occhi, coprendosi il volto con la mano sinistra, e si lasciò
andare ad un gemito che sapeva di lagna. Si sistemò meglio,
poggiando le braccia sui braccioli di seta e portò la mano
al linguine, riallacciandosi la cinta dei pantaloni. «Che
state facendo? » ansimò Sasori.
«Non volete concedermi il piacere dell'orgasmo, mi prendo una
consolazione - seppur magra – nel vino. A proposito, ne vuole
un po' scorpione? » Annuì e non aggiunse altro.
Strano pensare che, in qualche modo assomigliasse a lui.
Sakura aprì la bottiglia, in seguito il carillon tempestato
di pietre preziose. Ne prese il contenuto, stringendolo nel palmo
pallido; svitò il tappo e un odore di mandorle dolci si
sprigionò nell'aria.
Ne versò il liquido nel vino, mischiandolo con movimenti
circolari. «Ecco tenete »
Sasori respirò l'odore presente, ma non se ne
curò; forse, però, fece solo finta di non badarvi.
Toccò con le dita i bordi, e ne gustò un sorso.
« Danzou, Sarutobi, Tsunade » sussurrò
flebile la ragazza.
«Eh? » All'improvviso sgranò gli occhi,
schiumò dalla bocca e per pochi secondi assaggiò
l'inferno. Poi si accasciò a terra, privo di sensi.
«Sono coloro che mi hanno ordinato di uccidervi...
Perdonatemi Sasori » Si avvicinò al letto, si
vestì velocemente e chiuse le palpebre al corpo inerme.
«E' stato solo un ordine » Si mise il cappuccio,
abbassandolo al livello degli occhi e uscì dalla stanza,
sbattendo la porta.
Scacco... matto.
Sarebbe rimasto un illusione spezzata nel nulla di
Susanoo, una mela caduta dall'albero di Dio.
Sarebbe rimasto in terra, pezzi d'anima rinchiusi in ogni statua.
Sasori... non avrebbe mai più creato l'arte.
* * *
Prese la fetta del dolce in mano, portandola all'altezza delle labbra e
le socchiuse leggermente.
Il primo assaggio doveva andare a lui, l'opera compiuta doveva essere
elogiata, prima, dallo stesso artista; doveva passare la prova
più difficile, l'esame che ne avrebbe decretato la
qualità, che avrebbe dato un valore alla sua anima. Chiuse
gli occhi pronto, e ne lambì la punta.
«Signore! » Qualcosa però,
andò storto nell'esecuzione. Prima un colpo alla porta, un
secondo, infine un terzo.
«Vi disturbo? » sibilò l'uomo,
affacciandosi timidamente alla porta.
«Sì » sentenziò il cuoco,
irritato. «Ma visto che avete già rovinato
l'attimo, dite ciò che avete da dire. »
Posò il dolce sulla mensola di ciliegio, riservandogli uno
sguardo monocorde. Non guardava l'interlocutore, ne era intento ad
ascoltare le sue parole. Voleva solo mangiare, chiedeva tanto?
«Riguarda... Sasori » spezzò la frase in
due, enfatizzando tristemente sul nome.
«Ah lo scorpione. Come sta adesso? »
sussurrò il biondo, stringendo il bordo della mensola. Le
dita premevano sulla parte inferiore del legno, la forza che
riuscì a scheggiarla.
Troppi giorni erano passati da quella notte.
Troppi giorni erano trascorsi nel tentativo di dimenticare la
delusione, il tradimento che l'eternità gli
riservò. Troppi giorni... troppo di tutto.
«E' proprio questo il punto. Sasori è...
» passò la lingua sulle labbra, la voce
fastidiosamente allegra. «... morto »
Deidara spalancò gli occhi, fissando il volto serio del
servo. «Morto? »
«Le cause sono ancora un mistero, signore. Ma è
sicuro che sia omicidio.»
Lo sguardo impassibile, gli occhi inesorabilmente vuoti. Solo una piega
sorniona delle labbra spezzava la maschera d'odio.
«Andate»
«Sì signore»
Il cuoco si guardò intorno, osservando la stanza in tutta la
grandezza. Fece un passo verso il tavolo, accarezzando i bordi del
vassoio d'argento; poggiò i gomiti sul legno, lasciando
cadere il volto, tra le mani aperte. E... rise, una risata falsa,
sardonica. «Ve lo siete meritato scorpione» Diede
un pugno sulla superficie del tavolo, rovesciando con gesti
scoordinati, il vassoio. «Ve lo siete... meritato »
ripeté infine accasciandosi a terra, la schiena che premeva
pesante sulle gambe del tavolo. «Ora però...
» Si coprì il volto con una mano, e smise di
ridere. «Che farò io?»
Valeva la pena godersi appieno l'attimo, se per l'eternità
non c'era più nessun spiraglio di luce? Valeva davvero
vivere una vita lontano dalla sua metà, dalla sua nemesi?
No... e sì. Sasori era scappato dopotutto, lasciandolo solo.
Aveva preso la sua decisione, l'ultima firma al suo testamento. Ormai -
quei capelli rossi, quegli occhi marroni - non faceva più
parte della sua vita da tempo.
Guardò di sottecchi il dolce maciullato a terra, la panna
liquefatta sulla pavimentazione nera, le fragole macchiate di marrone
ferite dalla colluttazione.
Non c'era più speranza nei suoi occhi, niente più
tristezza al suo ricordo. Solo una lacrima, una sola, infranta
nell'angolo della bocca, tradì le sue emozioni.
E per la prima volta Deidara si arrese alla verità: il suo
dolce, quel dolce, non avrebbe mai raggiunto la
perfezione. Per la prima volta nello zucchero sentì l'amaro
sprigionarsi nelle vene, lento come il veleno, pungente come un ago.
Ad esso mancava qualcosa.
Qualcosa che niente e nessuno gli avrebbe mai ridato indietro.
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