Inverno-1
Inverno
La primavera
arriverà
Capitolo Primo
Acqua a catinelle
La pioggia scendeva dal
cielo a fiotti gelidi, abbattendosi nel fango grigiastro fino a
formare vortici di paglia e melma. Il cielo era basso, plumbeo,
gravava sul paese come nebbia d’inverno. Un cavallo nitrì in
lontananza, e il ragazzo alzò la fronte fradicia pensando che
invidiava la sua stalla calda.
Pagò caro
quell’attimo di distrazione: lo schiocco di una frusta risuonò
nel diluvio e una voce brusca gli ordinò di riprendere il
lavoro. Con il dolore fresco della schiena e un tuono che rombava
cupo nelle orecchie, Lorenzo digrignò i denti e continuò
a camminare, trasportando i secchi pesanti appesi alle estremità
della canna sulle sue spalle.
Detestava quegli
uomini.
E detestava quella
vita.
L’inverno
era arrivato troppo presto, prima che finissero l’ultimo raccolto
di fichi. Con il freddo erano giunti anche le nubi da est, la
pioggia, il fango, e loro.
Chi fossero non
importava davvero; erano come gli altri. Si erano avvicinati prima
che iniziasse il lungo periodo delle piogge, comparendo ai piedi
della collina nelle loro armature impolverate, e tutti avevano
pensato che fossero presagio di sventura.
Avevano ragione.
Il loro signore era un
uomo pragmatico, non aveva perso tempo a fare considerazioni inutili:
si era subito rivolto al capo-villaggio, domandandogli della vecchia
rocca disabitata, e ne aveva preso possesso in un solo giorno.
All’inizio
qualcuno aveva azzardato alcune domande: chi sono? Cosa vogliono?
Perché si sono stabiliti nel castello? Quei pochi coraggiosi
che avevano avuto l’ardire di alzare la voce all’assemblea
cittadina erano serviti da esempio memorabile: il Signore li aveva
fatti frustare pubblicamente. Sovrastando le loro grida di dolore,
poi, aveva proclamato a gran voce che ogni singolo uomo, donna o
bambino gli doveva obbedienza; che il villaggio era di sua proprietà,
che si preparava una guerra, e che tutti gli uomini validi avrebbero
dovuto contribuire, non
parlare.
Nessuno aveva più
osato aprir bocca.
Quel giorno erano
iniziate le piogge...
E sul villaggio era
sceso l’inferno.
Erano passate alcune
settimane dall’arrivo del Signore, quando Lorenzo giunse al punto
di invidiare un cavallo.
Durante
quel periodo l’acqua aveva invaso le strade e ogni avvallamento,
inondato i campi freddi e reso sdrucciolevoli i sentieri. Il sole era
diventato un pallido e raro miraggio dietro la coltre grigia del
cielo, una sfera evanescente che tanti dicevano di non ricordare
nemmeno. In compenso, attorno al villaggio era sorta la trincea.
I contadini erano stati
costretti a costruirla con ritmi di lavoro inumani; dopo aver
consegnato alle truppe gran parte delle provviste per l’inverno
erano stati strappati ai campi e ai boschi per sprecare le loro
energie tirando su un muro di fango e sassi attorno alla collina. A
tutti sembrava un lavoro inutile, pensato solo per farli soffrire:
anche in caso di scontro, cosa poteva fare una barriera marcia così
bassa che si poteva tranquillamente guardare oltre?
Tanto
più che il Signore aveva un’idea molto ampia del concetto di
uomini
validi:
secondo il suo pensiero, valido era ogni ragazzo dagli otto anni in
su provvisto di entrambe le braccia. Che fosse maschio o femmina, era
irrilevante.
Inevitabilmente, i
fanatici avevano iniziato a pensare a un castigo divino: prima la
pioggia prematura, poi l’invasione, infine la fatica... Qualcuno
doveva aver peccato molto pesantemente. In mancanza di un pubblico
capro espiatorio le donne avevano preso a lanciarsi occhiate
sospettose, additando l’una e l’altra, mormorando di stregoneria
e atti illeciti. Oltre la stanchezza, l’umiliazione e il
malcontento, ci si era messo anche il sospetto.
Lorenzo aveva
rinunciato quasi subito a far ragionare i suoi compaesani. Lui e
un’altra manciata di giovani avevano cercato di tenere alto il
morale, di spronare gli uomini a non abbattersi, perché una
volta terminata la trincea sarebbero stati liberi; ma anche se liberi
non avrebbero avuto comunque cibo, ribattevano i pessimisti, e subito
era stato chiaro che quei ritmi di lavoro li avrebbero uccisi troppo
presto, soprattutto i più deboli.
Di fronte al
disfattismo generale Lorenzo aveva finito per perdere la speranza, e
con lui i suoi compagni. Come animali da soma, avevano chinato il
capo e si erano sottomessi docilmente al volere dei loro aguzzini.
Prima
o poi finirà.
Quel
giorno Lorenzo non ci credeva poi tanto. I pomeriggi di lavoro si
susseguivano alle mattine già sfiancanti, sempre sotto la
pioggia battente, sempre cupi come un corteo funebre. Gli unici segni
di vita venivano dalle guardie incaricate di sorvegliarli, uomini
rudi che si lamentavano del freddo e scacciavano la noia frustando i
più stanchi – gli stessi uomini, per inciso, che la notte
sfogavano la lussuria sulle donne del paese, sostenendo che fosse
loro dovere
distrarli.
Quando fu tanto buio
che neanche le guardie riuscivano a distinguere i contorni della
trincea, la voce di quello più grosso si levò alta
nell’aria umida, ordinando il rientro. Gli abitanti del villaggio
non avevano nemmeno la forza per sospirare di sollievo; lasciarono
cadere ciò che trasportavano e si volsero esausti verso le
case dal tetto di paglia.
Lorenzo si unì
alla parata mesta che trascinava i piedi su per il sentiero. La
stanchezza gli annebbiava i sensi, la fame gli mordeva lo stomaco
peggio che negli inverni più duri; la rassegnazione, orribile
demone parassita, gli toglieva persino la voglia di vivere. Se non
avesse saputo che il suicidio era il peccato più grande, si
sarebbe buttato da un tetto.
Rientrò nella
casa umida con le membra intorpidite. Accanto al focolare trovò
la vecchia nonna, intenta a cuocere su un fuoco stento la zuppa più
liquida che avesse mai visto. In un angolo, steso su un pagliericcio
muffo e maleodorante, il nonno invalido; anni prima la falce aveva
mancato le spighe di grano per conficcarsi nella sua gamba.
«E’ quasi
pronto» commentò la vecchia vedendolo sedersi contro il
muro – non c’erano sedie attorno al tavolo, erano finite tutte
nel camino.
Mentre aspettavano
giunsero anche la madre e il padre, con gli occhi vuoti di chi ormai
ha accettato che la morte è vicina. Si sedettero accanto al
fuoco e cercarono di allontanare il gelo che li avvolgeva,
inutilmente.
Ultima a rientrare fu
Lia, la sorella, unica sopravvissuta di una serie di sfortunate morti
premature. A dispetto dei suoi fratelli, era una ragazza robusta e
sana, ma il lavoro delle ultime settimane aveva reso anche lei secca
come la più denutrita delle vagabonde.
«Oggi era ancora
peggio del solito, vero?» disse, affiancandosi alla nonna
davanti al fuoco e sfregando le mani ruvide una contro l’altra.
Nessuno rispose. Da
giorni, ormai, i tentativi di conversazione di Lia cadevano nel
silenzio più completo.
«Mi hanno mandata
a prendere dei rovi giù al bosco, nel pomeriggio»
proseguì imperterrita, come se qualcuno la stesse ascoltando.
«Con uno dei loro uomini. Voleva mettermi le mani addosso, il
porco, ma non ha neanche da provarci! Gli ho detto che ero tisica, e
che era meglio per lui se non mi toccava.»
Rise, di una risata
amara che stonava con il viso tutto sommato grazioso. Nonostante le
guance incavate e il colorito cereo, era l’unica della casa a
conservare gli occhi accesi della sua gente.
La zuppa fu decretata
pronta dopo pochi attimi, e distribuita in ciotole di argilla
sbeccata; era poco più che acqua, ma il semplice calore aveva
il potere di rinfrancarli tutti.
Lia si sedette con la
sua porzione accanto a Lorenzo, e la sorbì in silenzio per
alcuni minuti, cullata dal ticchettio uniforme della pioggia.
«La stalla sul
retro sarà asciutta?» chiese a un tratto, in un mormorio
appena udibile.
Lorenzo scrollò
le spalle. «Che importa? Le capre ce le hanno portate via.»
«Sì, ma se
il tetto avesse una falla?» insisté la ragazza. «Credo
che dovremmo controllare. Un giorno quel posto ci servirà di
nuovo.»
«Come fai a dire
che saremo vivi?» replicò lui atono.
Un lampo di rabbia
baluginò negli occhi di Lia.
«Vieni a
controllare la stalla con me. Ora!» sibilò,
accompagnando la richiesta con cenni nervosi del capo.
Lorenzo si riscosse dal
torpore e la considerò brevemente. Guardò poi il resto
della famiglia, che raschiava il fondo della ciotola con sguardi
apatici, e sospirò a fondo. Se non avesse avuto la certezza
che Lia non era una sognatrice, l’avrebbe mandata al diavolo; ma
Lia era la ragazza più concreta che conoscesse, ed
evidentemente era successo qualcosa di abbastanza importante da
trascinarli nuovamente sotto il diluvio.
Senza dire nulla agli
altri, lasciarono le loro stoviglie sul tavolo e uscirono per
l’ennesima volta sotto la pioggia battente.
Camminando in un buio
completo aggirarono la casa, cercando di tenersi sotto il minuscolo
riparo del tetto, finché non raggiunsero il retro; qui una
stanzetta costruita affastellando sassi alla buona aveva accolto in
passato due capre e i loro capretti.
«Non dire nulla,
siamo intesi?» fece Lia, con un sorriso emozionato.
Di fronte a
quell’espressione Lorenzo avvertì una campana di pericolo,
ma non fece in tempo a impedirle di aprire la porta della vecchia
stalla.
All’interno c’erano
due uomini.
La luce e il calore
nell’antro angusto e maleodorante venivano da un piccolissimo falò
alimentato da sterco e paglia. I due sconosciuti erano seduti con la
schiena appoggiata alla parete della casa, e lo squadrarono senza
nascondere la loro diffidenza.
Prima che chiunque
potesse parlare, Lorenzo tirò indietro Lia per un braccio.
«Sei impazzita?»
le sibilò all’orecchio, furibondo. «Vuoi farci
ammazzare? Chi diavolo stai nascondendo?!»
«Mollami!»
sbottò lei, divincolandosi secca. «Non voglio farci
ammazzare! Voglio liberare tutti!»
Lorenzo scosse la
testa. «Sei pazza! Ci porterai alla rovina!»
«Se solo mi
ascoltassi...»
«Ragazza!»
La voce che aveva
parlato era un mormorio roco, eppure ebbe il potere di ammutolire
entrambi.
Lia e Lorenzo si
voltarono e incrociarono lo sguardo di uno dei due uomini, un tizio
magro dagli occhi azzurri.
«Non è il
caso di discutere sotto l’acqua. Entrate. Anche se puzza, almeno è
asciutto» sorrise.
Lia obbedì
immediatamente, come se accettare inviti ambigui dagli sconosciuti
fosse cosa di tutti i giorni. Lorenzo invece strinse le labbra.
«Avanti. Mica ti
mangiamo» lo incitò l’uomo dagli occhi azzurri. «E
poi, senza offesa... sei un po’ troppo magro per sembrare gustoso.
Anche se non dovrei essere proprio io a parlare.»
Il suo compare, più
robusto e barbuto, si lasciò andare a una risatina secca, e
anche Lia sorrise a metà. Lorenzo non dovette nemmeno
sforzarsi per capire che la sciocca era già innamorata. Era
sempre questo il guaio con le femmine: perdevano la testa per il
primo tordo con gli occhi chiari che le degnava di un’attenzione.
Ma lui era il fratello
maggiore, e suo dovere era proteggere la famiglia – per quanto
sciocca si dimostrasse; così irrigidì i muscoli
doloranti, chinò la schiena e raggiunse il piccolo
conciliabolo della stalla.
L’uomo dagli occhi
azzurri chiuse la porticina, sotto l’occhiata allarmata di Lorenzo,
e spiegò che lo faceva per impedire a qualcuno di scorgere la
fiammella; poi, senza scusarsi, continuò a masticare la carne
secca che teneva nella bisaccia. La sola vista del cibo fece
gorgogliare lo stomaco dei due fratelli; Lia arrossì
d’imbarazzo.
«Allora, da
quanto tempo è qui il Signore?» domandò lo
straniero, senza dar segno di notare il loro disagio.
«Tre settimane»
bofonchiò Lorenzo. «E voi?» insinuò dopo un
attimo.
«Tre ore»
rise l’uomo. «La tua bella sorella ci ha incontrati nel bosco
e offerto rifugio.»
Lia arrossì,
giocherellando con una ciocca dei capelli scuri e umidicci, ma
Lorenzo serrò i denti.
«Chi siete?»
«Ribelli.
Attraversiamo le campagne in cerca di villaggi oppressi dagli egoisti
signorotti locali e fomentiamo la rivolta.»
«Perché?»
«Perché è
giusto. Perché gli uomini sono nati liberi. Perché sono
guerre idiote sulle spalle della povera gente. Scegli tu la versione
che più ti aggrada... Più praticamente, perché
siamo stati vittime dei soprusi in prima persona.»
«E cosa ci
guadagnate?» domandò Lorenzo aspro, senza fidarsi di
mezza parola.
«Molto, credimi»
l’uomo gli lanciò un’occhiata condiscendente. «Lo
capirai anche tu, se arriverai vivo alla mia età.»
«Non sembri tanto
vecchio.»
«Tu invece sembri
giovane quanto sei!» rise l’altro, gioviale. «Di’,
tua sorella sostiene che sei uno in gamba. Uno forte, carismatico. E’
vero?»
Lorenzo arrossì
senza saperlo, e borbottò qualcosa di poco chiaro.
«Bene; ci sarai
di grande aiuto» approvò l’uomo.
«Non ho detto che
vi avrei aiutato» protestò il ragazzo.
«No?»
«No. E non
fingerti stupito! Non so nemmeno i vostri nomi, siete comparsi dalla
nebbia... potreste anche essere emissari del Demonio, per quello che
ne so!»
«Ah, ragazzo mio,
guardati dagli uomini e non dai demoni!» citò l’altro
sconosciuto, con una mezza smorfia derisoria.
«No, no, ha
ragione» lo ammonì il compagno. «Non ci siamo
nemmeno presentati, che gran villani. Il mio nome di battaglia è
Falco» sorrise, tendendo una mano nera di terra.
Lorenzo esitò un
lungo istante; poi, davanti al suo sorriso aperto, cedette e rispose
all’offerta di amicizia.
«Baio» si
presentò l’altro, limitandosi a un cenno del capo. Mentre lo
faceva si accarezzò la barba ispida, gesto che ripeteva
costantemente.
«Veniamo da
Agria, a nord. Avete sentito le voci della rivolta?»
Sì, le avevano
sentite, in quella che pareva un’altra vita. Prima dell’arrivo
del Signore le merci circolavano liberamente attorno alla collina, e
con loro le notizie: nel villaggio di Agria la popolazione si era
sollevata in massa, detronizzando il signore del castello; avevano
strappato il suo vessillo ed eletto un capo-villaggio. Ma lì
la notizia non aveva destato molto scalpore: il paese di Lorenzo era
libero dal giogo del tiranno da anni e anni.
Prima che arrivasse il
Signore.
«Voi
avete istigato la folla?» domandò il ragazzo con
sospetto.
Falco sembrò
molto orgoglioso della paternità dell’azione, e subito
attaccò un’entusiasmante descrizione dei combattimenti più
accaniti.
Il sorriso di Lia si
incrinò percettibilmente, sostituito da un’espressione più
annoiata; l’interesse di Lorenzo, invece, schizzò subito
alle stelle. E più Falco parlava, più i suoi occhi si
sgranavano, via via illuminandosi: ogni parola riaccendeva una
vecchia sensazione, ogni immagine era una piccola scossa all’altezza
del cuore... Dalla voce di Falco, come un miracolo, scaturiva la vita
che lo aveva abbandonato nelle lunghe settimane di oppressione.
Lorenzo non se ne rendeva nemmeno conto, estasiato dalle gesta e
dalle idee dello sconosciuto usurpatore della sua stalla; non si
accorse del tempo che passava, dei segni di impazienza di Lia,
dell’altro uomo che si era addormentato, russando profondamente; ma
quando Falco tacque aveva le lacrime agli occhi, e sua sorella pensò
che fosse ammattito.
«Tutto questo con
così pochi uomini...» mormorò ammirato. «In
un villaggio tanto sottomesso! E’ incredibile! Stupefacente! Non
oso nemmeno immaginare cosa riuscirete a fare qui...»
«Cosa
riusciremo
a fare, Lorenzo» lo corresse Falco. «Noi e voi insieme:
tu e Lia potete darci un grande aiuto.»
Lorenzo fremette e gli
occhi di Lia si fecero languidi. La considerazione di quell’uomo
era improvvisamente diventata tutto, per entrambi.
«Ma abbiamo
parlato fin troppo» li ammonì lui. «E’ tardi, e
voi siete sfiniti. Andate a riposare. Domattina prima dell’alba
tornate qui, e definiremo i dettagli del piano.»
Lia e Lorenzo se ne
andarono a malincuore, offrendo pane e provviste segrete. Falco
rifiutò, dicendo che avevano la bisaccia piena, e li
incoraggiò a non restare sotto la pioggia.
Per la prima volta da
settimane, i due fratelli attesero l’alba con un’ansia vitale che
pensavano di non poter provare mai più.
La mattina dopo gli
ardori furono ben più moderati.
Lorenzo aprì gli
occhi a mezzora dall’alba, riconoscendo la familiare sensazione dei
muscoli rotti e delle articolazioni doloranti. Prima di alzarsi
rifletté su Falco e gli avvenimenti della sera prima.
Non
si trattava di un miracolo, ma di un maleficio,
si disse. Falco non era un santo, anzi: la sua capacità di
ammaliarlo era così sospetta da avvicinarlo maggiormente a
Satana, non al Padre Celeste; altrimenti non si spiegava l’ardore
che gli aveva messo in corpo, il desiderio insano di scatenare una
rivolta, a dispetto di tutte le vite che sarebbero venute a mancare.
Chiunque avesse tanto potere sulle scelte altrui non poteva che
essere maligno, perché Dio amava il libero arbitrio.
Si propose di mettere
in guardia Lia e cacciare gli sconosciuti. Quando la sentì
alzarsi, cercando di non far rumore mentre infilava le scarpe, le fu
accanto in un istante.
«Devi stare
attenta a Falco» le sibilò all’orecchio.
«Non dire
sciocchezze!» rispose lei stizzita. «Lui ci salverà
tutti! Anche tu lo pensavi ieri sera!»
«Deve
essere malvagio!» insisté Lorenzo. «E’ troppo...
troppo bravo
per essere un eroe. Quando le cose sembrano semplici, c’è il
Maligno di mezzo!»
«Oh, per favore!
Ti sembra semplice risvegliare quel branco di pecore che è
diventato questo villaggio? Smettila di dire scemenze da fanatico e
torna con me nella stalla. Chiediglielo direttamente a Falco, se è
un demonio.»
Lia si liberò
dalla sua stretta e corse fuori dalla casa, sotto una pioggerella
fine e gelata. Sbuffando come un mantice, Lorenzo la seguì, se
non altro per proteggerla. Raggiunsero di nuovo la stalla dietro
l’edificio, e lui sperò che i due se ne fossero andati.
Invece erano ancora lì.
«Buongiorno»
li salutarono amichevoli. «Il solito tempaccio?»
Lia attaccò
discorso con una facilità disarmante, scivolando subito a
sedere accanto a Falco. Lorenzo cercò di raccogliere il
coraggio per cacciare entrambi dalla sua proprietà, ma davanti
all’espressione aperta dei due uomini le parole gli morirono in
gola.
Era in Falco il trucco.
Lui diceva qualcosa, e
tu cadevi ai suoi piedi.
«Entra, Lorenzo.
Voglio discutere i piani anche con te» gli offrì.
E Lorenzo entrò.
Di nuovo pioggia.
Pioggia fredda, aguzza
come spilli, che si infilava negli abiti e si appiccicava alla pelle;
pioggia che strappava ogni goccia di calore, speranza o vita, pioggia
maledetta che scorreva negli occhi e rendeva scivolosi i carichi.
Semplice pioggia, trasfigurata dalla disperazione.
Lorenzo lavorava a
testa china, scrutando febbrile le guardie che controllavano i
lavori. I capelli gli intralciavano la visuale, ma impedivano anche
agli uomini del Signore di scorgere la scintilla vitale che lo
animava; perché quel giorno aveva un’ulteriore missione,
oltre alla sopravvivenza: quel giorno era l’uomo di Falco.
Contò sei
militari rannicchiati sotto le sporgenze dei tetti; attorno alla
trincea ne vide altri due, ragionevolmente di pessimo umore, e
azzardandosi ad alzare il capo ne individuò quattro lungo la
strada che conduceva alla rocca. Ma non era certo che non ce ne
fossero altri: sotto lo scroscio della pioggia i contorni erano
indistinti, ben visibili restavano soltanto le torce alle finestre.
Annotò
mentalmente ogni dettaglio, cercando di indovinare le armi che
portavano gli aguzzini; studiò le loro espressioni, a caccia
di demotivazione o fiacchezza; infine, tentò una mossa
azzardata.
Mentre trasportava un
secchio di calce fradicia inciampò e cadde ai piedi di una
guardia. La frusta calò inesorabile, quasi prima che le sue
mani affondassero nel fango, e Lorenzo gemette con più
convinzione del solito. Rialzandosi, per la prima volta si lasciò
andare a una sequela di lamentele smozzicate contro il Signore,
audacia mai dimostrata da nessuno dei suoi compaesani – almeno dopo
il memorabile esempio degli uomini puniti il primo giorno. Sentì
la frusta rallentare il ritmo, ma fu solo per un istante: subito
riprese, più rabbiosa che mai, e se Lorenzo non fosse scappato
in fretta i segni sarebbero stati ben più profondi.
Quella notte, nella
stalla sul retro, riferì a Falco che gli uomini del Signore
avrebbero venduto l’anima al diavolo pur di non perdere i privilegi
di cui godevano; ma non lo amavano, e al primo cenno di disfatta se
la sarebbero svignata come cani selvatici.
Impiegarono
quasi una settimana a decidere tutti i dettagli del piano. Nel corso
di quei giorni diversi uomini si avvicendarono al fianco di Falco,
cambiandosi con Baio e portando provviste fresche. Lorenzo immaginò
i pericoli che dovevano correre di notte in notte, e nel suo petto si
agitarono ammirazione e diffidenza: ancora non riusciva a capire cosa
spingesse i ribelli a lottare senza una ricompensa, e se da un lato
li scrutava con sospetto, dall’altro non poteva fare a meno di
cedere ai discorsi di Falco... Con
lui tutto sembrava giusto e a portata di mano: ma qual era il prezzo
da pagare a quello che ormai aveva imparato a definire ‘l’angelo
mandato dal Demonio’?
Non appena il piano fu
completato Falco insistette per dare il via alle manovre. Lorenzo non
notò l’improvvisa fretta che lo animava, scambiandola per
ansia, e ne fu suo malgrado contagiato: agitato da uno stato di
febbrile eccitazione si accordò con Lia, raccolse coraggio,
speranza, brandelli di autostima, scacciò ogni dubbio.
L’inferno
stava per finire, anzi doveva
finire!
Nella notte che
precedette il primo passo non riuscì a chiudere occhio. Si
girò e rigirò nel letto finché il grigiore
dell’alba non strisciò attraverso le imposte marce,
leggermente meno impenetrabile dell’oscurità. A quel punto
si alzò, teso e impaziente al tempo stesso, e cercò i
vestiti nel buio.
«Cosa stai
facendo?»
Una scarica gelida
corse lungo tutta la sua schiena, impedendogli di afferrare le
scarpe.
«Hai intenzione
di rovinarci tutti?»
Lorenzo alzò
tremante la testa; nelle tenebre gli occhi di suo padre baluginavano,
inequivocabilmente delusi, e le sue parole riecheggiarono le accuse
che, a suo tempo, lui stesso aveva rivolto a Lia. Probabilmente gli
altri familiari fingevano soltanto di dormire, nella stanza angusta e
soffocante.
«Io
salverò
tutti, padre!» sussurrò caparbiamente Lorenzo.
«No. Tu ci
porterai al disastro, e lo sai. Ma il tuo egoismo ti impone di
tentare la via dell’eroe, e pur di morire con una spada nel cuore
invece che nel tuo letto, sei disposto a sacrificare tutti noi.»
Non alzò mai la
voce; il tono rassegnato con cui parlò fu, infine, la cosa
peggiore.
«Siete annebbiato
dalla disperazione, padre» replicò Lorenzo,
conficcandosi le unghie nei palmi. «Non vedete più la
speranza, non credete più nella vita... Ma io ci credo! Io
voglio un domani, voglio lottare per averlo! Non voglio morire in
mezzo al fango, servendo un uomo che disprezzo!»
«La pioggia non
durerà per sempre» laconico, il vecchio continuò
a fissarlo. «Verrà la primavera. Verranno stagioni
migliori, la trincea sarà costruita...»
«Ma voi non lo
vedrete mai! Voi, e mia madre, e molte altre persone morirete ben
prima della primavera!»
Il padre non replicò;
si limitò a fissarlo, con quei suoi occhi immensamente tristi
e immensamente vuoti. Aveva smesso di credere molto, molto tempo
prima; ed era troppo stanco per provarci di nuovo.
«Ormai siete loro
schiavo» mormorò Lorenzo. «Ma io non voglio
seguire le vostre orme.»
Senza attendere una
risposta afferrò le scarpe, le infilò, e uscì
sotto il diluvio.
«Ricorda,
ragazzo: non vacillare. Se tu esiti, che ragione hanno gli altri per
credere in te?»
Lorenzo annuì
alle parole di Falco, stringendo le mani l’una all’altra con
forza. Fissava il minuscolo fuoco all’interno della stalla, e in
lontananza avvertiva il rombo cavernoso del tuono. Avrebbe combattuto
anche per suo padre, che non credeva più nel futuro.
Tuttavia... Lo avrebbe fatto in ogni caso, era deciso sin dal primo
pensiero riottoso; ma sapere di non avere il suo appoggio era
avvilente.
Falco rimase in
silenzio, mentre il Baio sgranocchiava della frutta secca
tormentandosi la barba. Prima dell’inizio anche loro non riuscivano
a nascondere la tensione.
«Ah, quasi ce ne
scordavamo:» riprese Falco dopo qualche istante. «tu non
hai ancora un nome di battaglia.»
Lorenzo sollevò
la testa di scatto.
«Il nome di
battaglia è importante. Serve a definire ciò che sei,
ti dà il coraggio di apparire sempre al meglio. Guarda il
Baio: se non avesse questo nome come potrebbe ricordarsi di tirare
sempre avanti?»
Il Baio lanciò
un grugnito che poteva essere indifferentemente una risata o un
insulto. Ma Falco continuò, sorridendo.
«Dobbiamo trovare
qualcosa che si addica anche a te. Un nome forte e fiero, che possa
scintillare nel ricordo delle persone ed essere un monito per i
nemici.»
«Veramente credo
che un nome simile mi metterebbe a disagio...» balbettò
Lorenzo, mentre le sue orecchie si facevano di brace.
«E’ questo il
punto: il nome deve definire il massimo di ciò che puoi
essere. A meno che tu non ti accontenti di un topo di campagna...»
Questa volta la risata
del Baio fu davvero inconfondibile, e Lorenzo pensò che
sarebbe sprofondato per la vergogna.
«Perché tu
sei il Falco?» domandò, cercando disperatamente di
dirottare la conversazione.
Falco si indicò
il viso.
«Occhio
di Falco. Mi chiamano così perché ho una vista
portentosa: riesco a immaginare ciò che accadrà e a
disporre le mie mosse di conseguenza. Si può quasi dire che io
legga il futuro.»
Lorenzo ammutolì.
Non avrebbe mai avuto un nome altrettanto grande. Davvero, forse
avrebbe dovuto iniziare a considerare ‘marmotta campestre’...
«Chiamiamolo
pulcino spaurito» propose il Baio con un ghigno. «Guarda
lì che faccia.»
«No, ho un’idea
migliore» Falco scrollò le spalle. «Aspettiamo la
fine della giornata. Sul campo scoprirà certamente il suo
punto di forza.»
Se Lorenzo non si era
sentito sufficientemente sotto pressione, ora lo fu.
«Ricorda»
gli occhi azzurri dell’angelo inviato dal Demonio brillarono, prima
dell’impresa finale. «Non esitare. Tu sei la speranza, tu sei
il pilastro che non deve cedere. Non avere incertezze, non
abbatterti, non mollare; possono ridurti in catene, è vero, ma
non possono toccare la tua anima e i tuoi pensieri. Ricordalo.»
La sera, nonostante la
spossatezza, Lorenzo stava ancora ripetendo le medesime parole dentro
di sé. Ormai avevano perso di significato, ma gli sembrava che
fossero penetrate a fondo nelle sue stesse carni.
Nervoso e fosco spinse
la schiena contro la parete della casa, cercando il magro riparo del
tetto. La pioggerella della mattina si era trasformata in un
temporale più deciso, che ora scrosciava nel buio denso di
ombre; mentre aspettava, Lorenzo cercò di ricordare il
silenzio, ma non ci riuscì.
Il primo uomo comparve
da dietro la casa, muovendosi con cautela e circospezione infinite.
Avvolto in un mantello scuro di tela cerata si avvicinò
camminando a scatti, senza smettere per un istante di guardarsi
attorno. Lorenzo gli indicò la stalla e lo guardò
scomparire all’interno.
Convincere Menio era
stato difficile, ricordò; avvicinarlo durante i lavori,
lasciar cadere qualche parola, ma soprattutto vincere l’apatia e la
paura... l’uomo temeva per la sua famiglia. Lorenzo era fermamente
convinto che Falco avrebbe dissipato ogni dubbio, e solo per questa
ragione aveva promosso la sua causa al punto da assicurargli la
riuscita del piano – quando invece lui per primo non ne era certo.
Dopo Menio arrivarono
altre tre o quattro persone, sempre sole, sempre guardinghe. Alla
fine si erano presentati all’incirca gli stessi che si erano uniti
a lui nei primi ed ultimi tentativi di resistenza. Lorenzo indicò
la stalla a tutti e rimase fuori. Ci fu un ultimo ritardatario, poi
nessun altro. Allora, abbattuto, anche lui raggiunse i compagni.
«Bene, il numero
perfetto» sorrise Falco vedendolo entrare. «Se fossimo
stati più di così non so dove ci saremmo seduti.»
Lorenzo contò
nove persone, includendo sé, Lia e i due ribelli. Il Baio si
grattava la barba seduto in un angolo, gli uomini del villaggio
scrutavano nervosamente tutt’attorno.
«Siediti, Fosco»
esordì allora Falco, con il tono mistico che aveva incantato i
due fratelli; e Lorenzo capì che Fosco sarebbe stato il suo
nome, e con un misto di turbamento, delusione ed euforia prese parte
al cerchio.
Ormai
tornare indietro non sarebbe più stata semplice vigliaccheria:
avrebbe significato il più infame tradimento.
- Fine primo capitolo -
NEXT: Tempo variabile
Buongiorno, buon pomeriggio, o buona sera che dir si voglia!
Sono qui in clamoroso anticipo (rispetto ai mei standard) per
pubblicare il primo capitolo di questa storia, che con una certa
sorpresa ha vinto il contest "Dal Film alla Storia" indetto da DarkRose86 sul forum di EFP.
L'assunto del contest era semplice: trarre dalla citazione di un film celebre un racconto originale.
La frase che io ho scelto era: "Il tuo cuore è libero, abbi il
coraggio di seguirlo", direttamente da Braveheart - Cuore impavido. Se
e come sarà presente, temo lo scoprirete soltanto nel terzo ed
ultimo capitolo! XD
Prima di lasciarvi - non si sa mai... potreste aver voglia di scrivere
un commentino! - ci tengo a ringraziare Roro, la mia beta, che dopo
avermi betato il racconto è stata rimproverata per aver scordato
qualche ripetizione (XD). E voglio anche precisare che un paio di
parole, virgole, e forse metà di una frase nel secondo o terzo
capitolo sono state modificate rispetto alla versione inviata al
contest, perché, come ama dire mia madre (e anche Mago Merlino
ne "La Spada nella Roccia"), non mi "sconfifferavano" appieno. XD
Ah, per la cronaca... Le altre storie che hanno partecipato al contest sono molto belle! Correte a leggerle appena potete! :-)
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