Norja aveva dormito poco e male.
Aveva passato la maggior
parte della notte rigirandosi nel letto a maledire il destino per aver
deciso
di trascinare Tom Kaulitz su quel tetto proprio quel giorno, a
quell’ora, in
quel preciso istante.
Aveva il serio terrore che non
sarebbe più riuscita a
prendere sonno per il resto della vita.
Aveva incontrato Tom Kaulitz. Sul
tetto del Ritz. Nel cuore
della notte.
Se le ricordava ancora le lunghe ore
che non molti anni
prima aveva passato a fissare i poster dei Tokio Hotel sui muri della
sua
stanza, soffermandosi spesso su quello che all’epoca era
stato il ragazzino con
i rasta e il sorriso ammiccante. Quello in cui lei si era imbattuta sul
tetto,
però, non era quella stessa persona. Quello che aveva visto,
sollevando gli occhi,
era un uomo fatto – ancora acerbo, ma pur sempre un uomo
– che non aveva quasi
più niente del ragazzo che lei si era abituata a conoscere
per vie indirette.
Aveva avuto paura,
d’istinto, perché si era vista crollare
davanti quella che forse era stata la barriera più spessa,
pesante e odiata
della sua vita, e vederla sparire così
all’improvviso l’aveva precipitata in un
indesiderato vortice di confusione.
Anche se dall’esterno il
suo shock doveva essere parso
brevissimo o addirittura inesistente, lei, in quel microsecondo, si era
sentita
spazzata via dal senso di smarrimento dovuto a quel surreale incontro.
Le era capitato di incontrare altre
celebrità, da quando era
diventata famosa, e se l’era brillantemente cavata con tutti.
Con Tom Kaulitz, tuttavia, la
faccenda era abissalmente
diversa.
Con un sospiro nervoso, Norja si
riempì una tazza di avena e
un’altra di gelatina di lamponi. Non aveva trovato dei
pancakes in tutto il
buffet. Si chiedeva come avrebbe fatto a sopravvivere alla giornata
senza una dose
massiccia di zuccheri e carboidrati. Alla fine le toccò
ripiegare su pane e
marmellata.
Un paio di signore la guardarono male
mentre passava loro
accanto, probabilmente a causa della tuta non esattamente chic che
indossava,
ma lei non si fece toccare. Il comfort prima di tutto, appena poteva.
Stava andando verso il tavolo dei
tostapane, quando avvertì
una presenza alle proprie spalle. Stava già per voltarsi e
propinare a Julian
qualche battutina sulle levatacce mattutine, quando si rese conto che
la persona
dietro di lei era decisamente più alta e ingombrante del suo
Julian.
Un terribile presentimento le
gelò la schiena.
“Buongiorno,
Norvegia!” esclamò una pimpante vivace voce
maschile. E si dava il caso che lei quella voce la conoscesse fin
troppo bene.
Dio, no!,
piagnucolò con se stessa, strizzando gli occhi. No, no, no, no! Chiunque, ma non lui!
“Non mi saluti?”
Che qualcuno
mi salvi!,
pregò Norja, mentre si costringeva a voltarsi. Salvatemi, per favore!
E invece nessuno la salvò,
perché lui era lì, Tom Kaulitz in
carne – tanta, succulenta, muscolosa carne – e
ossa, e le sorrideva in modo
molto perfidamente seducente.
Oh,
dio…
“Buongiorno a te, spina nel
fianco.” Lo salutò, con tutto il
contegno e l’indifferenza di cui era capace, cercando di
ignorare il fatto che
la gelatina di lamponi sembrava essersi trasferita immantinente dentro
alle sue
ginocchia. “Noto con piacere che porti una
maglietta.”
Tom allungò una mano oltre
lei, sfiorandole inavvertitamente
il fianco, per prendersi un piatto.
“E io noto con dispiacere che porti ancora lo stesso rossetto
di ieri sera.” Osservò,
servendosi di qualche fetta di pancarré. “Che
colore è, rosso meretrice?”
I delicatissimi nervi di Norja
fremettero pericolosamente
sotto alla sua pelle.
Brutto,
disgustoso, insolente
idiota!
“Rosso sangue di
rompipalle.” Gli rispose, tentando uno
scatto verso l’angolo più appartato del salone da
pranzo.
“Oh, carino!”
cinguettò Tom, tallonandola, raccogliendo cose
a caso dal buffet. “Te lo sei fatta fare su misura?”
Anni e anni di corsa dietro alle
gonnelle – e probabilmente anche
un bel po’ di palestra, a giudicare dalla mercanzia che
esibiva sotto a quei
tendoni canadesi che si ostinava a voler far passare per magliette
– dovevano
aver giovato alle sue capacità di velocista.
Norja posò il vassoio che
reggeva sul tavolo libero più
vicino e lo fulminò con un’occhiata omicida:
“No. Appena alzata, esco e
prendo a morsi il primo
rompipalle che trovo.”
“Molto
ecologico.” Approvò lui, appoggiando il vassoio
accanto a quello di lei. “Ma come la mettiamo con HIV e
AIDS?”
“Ho dei test istantanei
sempre in tasca.”
“Proprio organizzata!
L’antirabica ce l’hai?”
Norja scostò bruscamente
la sedia e si sedette, le mani che
le prudevano.
“No.”
Per niente scoraggiato dai segnali di
chiara ostilità che gli
venivano lanciati, Tom afferrò la sedia che stava di fronte
a lei.
Hey, hey,
che cosa
credi di fare?, protestò la mente di Norja, in
panico. Nessuno ti ha dato il permesso di
–
Ma Tom si era già seduto.
“E che succede se per sbaglio ti mordi la lingua?”
le chiese.
Lei sollevò un
sopracciglio.
“Sono sopravvissuta a
più di cinque minuti a stretto
contatto con te. Penso di essere diventata immune a malattie che ancora
non
sono state scoperte.”
“Ammiro la tua spiccata
vivacità linguistica. Dovresti fare
la scrittrice!”
“Oh, grazie! Sai,
anch’io quando ti vedo nei vostri video mi
dico: ‘Che bravo! Dovrebbe mettersi a
suonare!’.”
Pieno di dignità, Tom
infilzò una salsiccia con la forchetta
e ne tagliò un boccone.
“Me li dai un paio di
minuti per concentrarmi su una risata
spontanea?” le domandò, portandosi la forchetta
alla bocca.
“Te ne concedo
uno.”
Tom finse di concentrarsi per qualche
secondo, poi sbuffò.
“Mi arrendo.”
“Oh, che
bellezza!” gioì Norja, speranzosa. “Te
ne vai?”
“No che non me ne vado,” ribatté Tom, in
tono odiosamente rassicurante, come se
lei avesse temuto che lui la
lasciasse in pace. “Non vedi che ho preso la
colazione?”
“A proposito, da quando in
qua voi divinità olimpiche vi
mescolate ai comuni mortali per la colazione?”
Tom sollevò le spalle.
Norja si domandò come si
potesse trasudare sensualità anche
da un movimento casuale e svogliato come quello, ma si costrinse a
ritirare la
mandria di ormoni nell’ormonile prima che potessero
scavalcare il recinto della
decenza e dilagare incontrollatamente nelle sue vene.
“Così. Mi sono
svegliato presto e sono venuto a vedere cosa
offriva la mensa della plebe.”
“Ero convinta che per te
svegliarsi presto significasse
essere buttati giù dal letto alle quattro del
pomeriggio.”
“Voi fans la dovete
smettere di prendere per oro colato le
nostre interviste,” bofonchiò lui, masticando
grossolanamente una cucchiaiata
di cornflakes. “Soprattutto un’attempata come te
dovrebbe saperlo meglio delle
bambine.”
Norja, nel frattempo, si ingozzava di
pane e marmellata, cercando
di non guardarlo, o di farlo il meno possibile.
È
sexy anche quando
mastica cornflakes a bocca piena mentre parla. Questa me la devono
spiegare.
“Guarda che
l’epoca in cui mi bevevo ogni singola sillaba
che usciva dalle vostre bocche come ambrosia è passata da un
pezzo.”
“Per caso c’erano
ancora i dinosauri?”
Norja sentì una vena sulla
propria tempia pulsare di
irritazione. Poteva anche essere bello da far vomitare, ma di questo
passo le
avrebbe causato un esaurimento entro un minuto.
“Senti, ma perché non vai a importunare qualcun
altro?” gli suggerì
cordialmente. “Io ho un’intervista tra due ore e
una sessione di autografi più comparsata a RTL nel
pomeriggio, e onestamente iniziare la giornata con la tua presenza
importuna
non è la cosa più salutare per i miei
nervi.”
“Vieni a parlare a me di
interviste, sessioni di autografi,
nervi delicati e presenze importune?”
“Mica ti sono venuta a
cercare io.”
Tom tracannò il suo
bicchiere di spremuta d’arancia in un
fiato e le rivolse una spietata occhiatina angelica.
“Dai, Svezia, volevo solo
fare due chiacchiere!”
Qualche valvola del cuore di Norja
parve scoppiare. Era un
metro e novanta di sex appeal e libidine, ma in qualche oscura maniera
gli
riusciva bene anche la parte del cerbiatto dall’occhio tenero.
“Le due chiacchiere sono
finite
settemilacinquecentottantatré chiacchiere fa.”
Sbottò, inforcando una badilata
di pappa d’avena e ficcandosela in bocca con rabbia.
Perché
a me? Perché a
me, schiere celesti?
“Lo vedi che mi
odi?” protestò Tom.
Norja si sarebbe premurata di
strozzarlo personalmente, se
solo il suo collo non fosse stato così delittuosamente
armonioso e mascolino.
Le sue mani erano troppo piccole per quel tipo di omicidio.
“Ti ho detto che non ti
odio!”
“E allora perché
mi tratti male?”
“Ti tratto come tratto chiunque minacci la mia
tranquillità!” sbraitò lei,
accorgendosi troppo tardi di quanto avesse alzato la voce. I
fortunatamente
pochi commensali si erano voltati tutti nella sua direzione e la
fissavano
ammutoliti.
Tom, d’altro canto, non
dava cenni di sentirsi in imbarazzo
o infastidito. Si sporse in avanti, poggiò i gomiti al
tavolo e il mento sulle
mani giunte, sfarfallando le ciglia in direzione di Norja:
“Cosa devo fare per starti
simpatico?”
Lo chiedeva come se davvero si
aspettasse delle istruzioni
in risposta. E sembrava assolutamente serio.
Decise di accontentarlo.
“Lasciarmi in pace.”
Tom imbronciò
capricciosamente le labbra.
“Ma che senso ha starti
simpatico se poi non posso parlare
con te?”
Maschio, tedesco, ventuno anni,
professione rockstar.
Diagnosi: pazzo da legare. Non era così che, a suo tempo,
Norja se l’era
immaginato.
“Senti,” Si chinò in avanti, incrociando
le braccia. “So che ti potrà sembrare
indelicato, ma… Che cosa vuoi da me?”
Imperturbabile, Tom la
imitò:
“Come cosa voglio? Ci siamo divertiti così tanto,
ieri sera!”
Il suo modo di fare turbava
profondamente Norja, che già di
suo aveva da sempre avuto qualche problema di concentrazione.
Probabilmente lui
non era nemmeno consapevole dell’ingombranza della propria
presenza.
“Credo che tu mi stia
scambiando per un’altra.” Sottolineò,
sottraendo il bricco del latte alle grinfie di Tom appena prima che
potesse
impossessarsene. “Io ero quella del tetto. Ti ricordi? Quella
a cui hai
rovinato gli anfibi e che volevi buttare giù dal
cornicione.”
“Ok, parentesi omicida a
parte.” Sdrammatizzò Tom,
infilandosi in bocca l’ennesima cucchiaiata di cereali, gli
occhi che
studiavano il contenuto del vassoio di Norja. “Posso
assaggiare la tua marmellata?”
“No.”
“Grazie.”
Logicamente, Tom allungò
la mano e intinse un dito nella
ciotolina di marmellata, portandoselo poi alla bocca per succhiarlo con
gusto.
Norja era basita, e non tanto per il
deliberato affronto.
Ignora il lato erotico del gesto. Ignora
il lato erotico del gesto. Ignora il lato erotico del gesto,
si ripeteva
disperatamente, concentrandosi con zelo eccessivo sulla raffinata
metodologia
di stesura del burro su una fetta biscottata.
“Credo che le tue sinapsi abbiano qualche
difficoltà ad associare la parola
‘no’ al concetto di negazione.” Gli
disse, senza osare guardarlo, in caso il
suo dito si fosse trovato ancora in prossimità delle labbra
o in quei
pericolosi dintorni.
Era umiliante essere di dieci anni al
di sopra dell’età
media delle fan più svitate ed essere notevolmente
più malmessa di loro.
“Le mie che?”
biascicò Tom, masticando.
“Ecco, appunto.”
“Ma mangi sempre
così poco?”
“Non è poco,
è una normalissima colazione.”
“Mi fai assaggiare quella specie di gelatina rosa?”
Norja indugiò un istante,
riflettendo.
“Sì.” Rispose poi.
“Grazie!”
Tom fece per avventarsi sulla
gelatina di lamponi, ma Norja
gliela portò via appena in tempo. Lui la guardò
deluso, il cucchiaio ancora
fermo a mezz’aria.
“Ho detto di sì nella speranza che ti facesse
l’effetto contrario di un ‘no’, ma
evidentemente è solo con le proibizioni che hai dei problemi
recettivi.”
“Mamma mia, che termini
aulici… Si chiama ostentazione, lo
sai?”
“Anche quel tuo sorrisino spavaldo.”
Tom si sciolse in una risata
rilassata.
“Anziché
‘Divieto di accesso’, su quel cartello ci dovevano
mettere ‘Lasciate ogni speranza voi
ch’entrate’.”
“E magari anche
‘Per me si va nell’eterno dolore, per me si
va tra la perduta gente’…”
“Non male come
idea.” Convenne lui, annuendo. “Sicuramente
più efficace del ‘Divieto
d’accesso’. Devo ricordarmi di accennarla al
direttore dell’hotel.”
“Buona fortuna.”
“Quelle cosine bianche che
galleggiano nel tuo latte cosa
sono?”
“Avena.”
“Ha un aspetto
disgustoso.”
Norja represse un sospiro.
Di tutte le
calamità
che mi si potevano scagliare contro, perché proprio lui? Le
cavallette sono
passate di moda?
“Ti ho forse chiesto di analizzarmi la colazione?”
“No, è che sto
cercando di capire cosa può spingere una
persona sana di mente a ingoiare quella roba, ma suppongo che tu sia il
soggetto sbagliato a cui chiedere.”
“Hai una parlantina degna
di un Kaulitz, devo dire. Al
confronto tuo fratello rischia di sembrare un pesce rosso.”
“Vedi?” Tom
sollevò sfacciatamente un sopracciglio. “Certe
cose sui DVD non le trovi. Bisogna conoscermi per scoprire il meglio di
me.”
“E quando ti deciderai a mostrarmelo?”
“Indignitoso colpo
basso.”
Norja lo studiava a tratti, un
dettaglio per volta. La prima
cosa che aveva notato erano stati i vestiti un po’ sciupati,
poi i piccoli
difetti cutanei del viso, lasciati scoperti dall’assenza di
ritocchi di trucco;
poi ancora si era lasciata fugacemente distrarre dalla stanchezza dei
suoi
occhi, opachi e gonfi di sonno arretrato o disturbato. Ora, invece, era
il
turno delle labbra, morbide e carnose, ma rovinate da una serie di
minuscoli
taglietti tipici dell’aggressivo freddo invernale.
“Devo pur difendermi dalle
tue molestie.” Gli disse,
strappando a forza la propria attenzione dall’oggetto delle
sue considerazioni.
Pensò che Tom avrebbe dovuto indossare per legge un cartello
con un chiaro
avvertimento stampato sopra: ‘Attenzione: la prolungata
visione di questo
soggetto causa dipendenza. In caso di deficit cardio-respiratori,
consultare il
medico con urgenza’.
Nel frattempo Tom, che era riuscito a
spazzolare tutto
quello di cui si era servito nella metà del tempo in cui lei
aveva vuotato la
tazza di avena, aveva messo su un faccino tutto occhi languidi e
ammiccamenti:
“Ti sto molestando?”
Occhiata di fuoco.
“Tu che dici?”
“Ti risulterei meno molesto
se tu ti dimostrassi un po’ meno
indisponente nei miei confronti.” Sostenne lui, compunto.
“Mi dà fastidio
averti intorno!” protestò Norja con fervore
forse eccessivo. Non lo voleva offendere, ma la stava esasperando.
“Ma
perché?” le chiese lui, non meno esasperato di
lei, e
altrettanto dispiaciuto.
“Perché sì, accidenti!”
“Mamma mia, come sei
complicata! Quasi preferisco quelle che
mi comunicano sconcezze tramite ultrasuoni isterici.” La
osservò in tralice per
qualche secondo, pensoso. “Perché non sortisco
questo tipo di effetto, su di
te?” ebbe poi la delicatezza di domandarle.
“Ego ferito?” tentò di svicolare lei,
che iniziava a mal tollerare quella
domanda insistente.
“No, sul serio.” Tom si era impuntato e non voleva
mollare. “Non ti piaccio,
fisicamente?”
Non c’era fair play, in
quel gioco: era tremendamente
sleale, da parte di Tom, tirare fuori tutti quei tiri mancini
consecutivi,
senza darle nemmeno modo di riprendersi tra l’uno e
l’altro. I suoi occhi erano
destabilizzanti. Le sue labbra erano destabilizzanti. I lineamenti del
suo viso
erano destabilizzanti. I suoi sorrisi erano destabilizzanti. Le sue
mani erano
destabilizzanti. Perfino il suo respiro era destabilizzante.
Non c’era nulla di
più sciocco che chiederle se lui non le
piacesse fisicamente.
“Tom, siamo obiettivi: sei
così disgustosamente, irritantemente,
sfacciatamente bello che ogni volta che ho la malaugurata e
masochistica
avventatezza di guardarti ho paura che l’imbarazzante fangirl
che è relativamente
assopita in me se ne torni alla carica e io finisca per sembrarti solo
un’altra
stupida, patetica ragazzina decerebrata.”
Aveva sciorinato quella risposta
così rapidamente e
nervosamente che perfino lei aveva dubbi sulla
comprensibilità di quanto aveva
appena detto. E infatti Tom la stava guardando con la faccia di uno che
aveva
tutt’altro che afferrato anche solo metà discorso.
Per fortuna,
si
disse Norja.
“Wow…”
Tom batteva le ciglia in modo mortalmente,
adorabilmente smarrito. “Non ho capito niente, ma
è stato un gran bel discorso.
Mi sono commosso.”
Come
volevasi
dimostrare, si rincuorò lei. Il suo inglese
stretto doveva essere non
proprio immediato per uno come lui, abituato a un impastatissimo
americano.
“Te lo rifaccio in olandese?” gli propose.
Tom negò con una mano.
“No, grazie. Sei già abbastanza inquietante in una
lingua che conosco.” Si
riempì la bocca dell’ultima badilata di cereali,
masticò grossolanamente e
deglutì, pulendosi poi la bocca con il tovagliolo.
“Allora,” riprese subito
dopo. “Dove ce l’hai questa intervista?”
“Alexanderplatz.” Disse, senza interesse.
“Classica intervista superspontanea
all’aperto, al freddo, al gelo e alle intemperie. Uno spasso
stratosferico,
insomma.”
“Posso venire
anch’io?”
Il boccone di pane che Norja stava
ingoiando le si bloccò a
metà gola, causandole un violento accesso di tosse.
“Scherzi?” biascicò, non appena ebbe
riacquisito un minimo di regolarità
respiratoria. Le lacrimavano gli occhi.
Tom non finse nemmeno di aiutarla con
qualche pacca sulla
schiena. Sorrise, semplicemente.
“Sì.”
Nonostante il rischio di asfissia
appena scampato per
miracolo, e non certo grazie al gentiluomo che la accompagnava, Norja
si sentì
molto risollevata.
“Sia ringraziato il cielo. È la prima buona
notizia di stamattina.” Sospirò.
Aveva seriamente creduto che lui volesse andare con lei
all’intervista. Si
passò velocemente il tovagliolo sulle labbra e lo
posò sul tavolo, poi prese la
borsa e si alzò in piedi, sotto allo sguardo interrogativo
di Tom. “Ora, se mi
vuoi scusare, vado a prepararmi.”
“Ci vediamo per pranzo?”
“Preferirei che almeno il pranzo non mi restasse sullo
stomaco.”
Tom rise, scuotendo la testa.
“Che simpatica che
sei!”
“Ma tu lavorare no? Ti pagano solo per essere
bello?”
“Oggi siamo
liberi.” Le comunicò lui. “Non sei
contenta?”
Oh,
sì, potrei morire…
“Come un condannato che imbocca il Miglio Verde.”
Affatto impressionato, Tom
afferrò la brocca del latte, se
ne versò un po’ nella tazza del caffè,
e prese a sorseggiarlo.
“Allora ci vediamo più tardi?”
Lei stiracchiò rigidamente
gli angoli della bocca.
“Se dio vuole, no.” Mormorò tra i denti.
“Addio.”
Mentre si affrettava a lunghe falcate
verso l’uscita della
sala da pranzo, Norja udì distintamente la voce di Tom alle
proprie spalle che
esclamava:
“A dopo!”
Lei imprecò tra
sé e sé.
Se fosse sopravvissuta a quella breve
permanenza a Berlino, non
si sarebbe mai più lamentata di niente.
***
Il Ritz-Carlton era sempre stato una
garanzia per i Tokio
Hotel: lussuoso, personale educato che sapeva stare al suo posto, spazi
ampi e
comodi e, soprattutto, clientela rara e molto esclusiva. Era bello
potersi
sedere tranquillamente al tavolo ed essere serviti senza avere sguardi
inopportuni ad indagare ogni loro singolo movimento.
“Tom, aspetti
qualcuno?”
Tom ripiombò nella
realtà dopo aver fissato, e senza nemmeno
rendersene conto, l’ingresso della sala per dieci minuti
buoni.
“Come?” Dovette
impegnarsi non poco per andare a ripescare
nella memoria inconscia a breve termine quello che aveva sentito dire
dalla
voce di Gustav, senza però elaborarlo. “Oh,
be’, no, è che…”
Stava farfugliando. Grandioso. Gli ci
voleva un altro po’ di
arrosto per carburare meglio.
“Lasciamolo stare,” Intervenne Bill, misericordioso
come non mai. “Dev’essere
il trauma della levataccia all’alba di stamattina.”
“Non era l’alba,
erano le nove!” puntualizzò Tom,
sbadigliando di riflesso.
“Ah, giusto,” rettificò Bill.
“Volevo dire notte fonda.”
“Sai, Tom, la forchetta
funziona meglio se la usi sul cibo.”
Gli consigliò Georg. Tom abbassò lo sguardo:
erano almeno due minuti che stava
tentando di infilzare la nuda ceramica del piatto.
“Io lo dico sempre che
questo qui non è a posto con la
testa,” disse Bill in tono di sufficienza, servendosi con
grazia una porzione di purè di patate. “Ma, no, non diamo retta a Bill,
lui è troppo bello
per dire qualcosa di intelligente.”
Tom non raccolse la provocazione, non
per mancanza di
spirito di confronto, ma perché era di nuovo intento a
fissare l’enorme doppia
porta dell’ingresso, da cui però non era entrato
altro che una coppia di
anziani signori eleganti. Non esattamente quello che si aspettava lui.
“Tom,” intervenne
Georg. “Non sono sicuro se te lo abbiamo
già chiesto, ma… Aspetti qualcuno?”
“Perché dovrei?” ribatté Tom,
senza muovere la testa di un millimetro.
“Non so,” disse
Georg. “Non fai che continuare a voltarti
verso l’ingresso della sala, e dubito – spero
– che non sia la maitresse ad attirarti, perché
sinceramente la trovo un
tantino al di sotto della media generale, e almeno un milione di
chilometri al
di sotto della tua.”
“Eh?”
“Lasciamo stare.”
“Hey, guardate un
po’ quella!” trillò Bill ad un tratto,
puntando maleducatamente il dito nella direzione in cui Tom aveva
guardato fino
a un attimo prima. Si girò speranzoso, e non fu una speranza
vana: in fondo
alla sala c’era una ragazza con vistosi capelli rossi e
vestita in modo
decisamente anonimo, almeno rispetto a quanto aveva visto Tom la sera
precedente. Niente tinte strane tipo viola o fucsia, niente gonne ampie
e lunghe,
niente felpe da adolescente: Norja portava un tailleur pantalone nero
sopra una
semplicissima camicia bianca, un paio di decolleté nere ai
piedi. Era anche
truccata in modo abbastanza cupo, rispetto alla volta prima, anche se
il
rossetto color sangue di rompipalle era sempre lo stesso.
Bill la radiografò da capo
a piedi con un’aria
drammaticamente critica:
“Ho le traveggole o ha
proprio i capelli raccolti in una
treccia? Fa così trasandato… E sta malissimo con
i vestiti che porta!”
“Hey, sta guardando da
questa parte.” Notò Gustav.
Gli occhi di Norja, in effetti,
puntavano dalla loro parte,
e la sua espressione non poteva dirsi proprio entusiasta. Anzi.
“Sembra
terrorizzata.” Osservò infatti Georg.
Ma Tom, incurante del puro orrore
comparso sul viso pallido
di Norja, si alzò in piedi e sventolò una mano in
aria per richiamare la sua
attenzione:
“Hey, Finlandia!”
Bill sollevò gli occhi
sgranati su di lui:
“La conosci?”
“Più o
meno.” Rispose Tom, mentre Norja faceva una
piccolissima smorfia di panico. “Non vieni a
salutare?” la esortò.
Dall’espressione che lei
assunse, sembrava quasi che Tom le
avesse chiesto di ingoiare un rospo vivo (e forse addirittura le
sarebbe stato
preferibile a quell’invito), ma non aveva molta scelta:
tutti, membri dello
staff compresi, la stavano ormai fissando dai rispettivi tavoli, in
attesa.
Con una rigidità degna di
una trave d’acciaio, Norja prese
un lungo respiro e si incamminò verso di loro a passo
tutt’altro che
entusiasta. Quando arrivò a un metro dal loro tavolo, si
fermò e gettò a Tom
un’occhiatina tagliente.
“Ehm…
Buongiorno.” Salutò timidamente, passando in
rassegna
non solo Bill, Gustav e Georg, ma anche le facce curiose di David,
Benjamin,
Dunja, Natalie e suo figlio.
“Ciao.” Fu la perplessa risposta semicorale.
“Ragazzi,” Tom le
prese un polso e la attirò vicino al posto
vuoto che c’era a capotavola, proprio accanto a lui.
“Questa è Norja Schwartz.”
“Norja Schwartz?”
si stupì Dunja. “La scrittrice?”
“Già.”
“Non ti avrei mai
riconosciuta senza la mascherina.” Disse
Georg, studiandola attentamente.
“Già.”
“Sei una di molte parole,
vero?” commentò Bill
sarcasticamente, squadrandola con occhio critico.
“Già.”
“Ciao, Norja,”
Gustav le sorrise e le allungò amichevolmente
la mano. “Io sono –”
Norja si ritrasse come
un’anguilla minacciata da una
fiocina.
“So chi siete.”
Disse rapidamente. “È stato un piacere.
Arrivederci.”
Fece per girare sui tacchi e sparire,
proprio come aveva
fatto la mattina stessa, ma Tom fu abbastanza svelto da riuscire a
riacciuffarla appena in tempo.
“Aspetta, dove te ne
vai?”
“A mangiare, spina nel
fianco.”
“Puoi mangiare con
noi.”
Per un nanosecondo l’orrore
iniziale tornò a lampeggiare negli
sgomenti occhi di Norja.
Perché
un’offerta che
farebbe collassare dalla gioia qualsiasi altra ragazza, a lei fa
quest’effetto minatorio?
“Ricordi quando ti dicevo che non volevo che anche il pranzo
mi restasse sullo
stomaco?” sbottò Norja, le guance rosse come
ciliegie. Tutti la fissavano a
bocca aperta, e questo la rendeva platealmente nervosa.
“Tom, che cosa le hai fatto
per meritare tanto astio?”
domandò Benjamin, mentre due fossette deliziate gli
apparivano nelle guance.
Tom fece spallucce.
“Non ne ho idea. Be’, a parte rovinarle le scarpe,
ma è stato un incidente.”
“E volevi che mi suicidassi
buttandomi sulla terrazza della
suite di Georg.” Puntualizzò lei.
Georg emerse dal suo bicchiere di
spremuta d’arancia con
un’espressione confusa:
“Cosa c’entra la mia terrazza?”
“Siete voi che vivete con
questo squinternato da una vita,”
replicò lei. “Speravo che le aveste voi, delle
risposte.”
“Devi scusare mio fratello,
Norja.” Intervenne Bill,
tamponandosi delicatamente le labbra con il tovagliolo. “Non
so spiegarmi come
un essere così rozzo possa essere uscito dal mio stesso
embrione.”
“Su, siediti.”
Gustav scostò una sedia e fece cenno a Norja
di accomodarsi. “Tom lo curiamo noi.”
Lei arretrò di un passo,
sempre più a disagio.
“Non è davvero
il caso.”
“Non mi dirai che sei una
di quelli che ci detestano!” si
indignò subito Bill.
Norja perse di colpo colore.
“Tutt’altro,”
pigolò, disperata. “È
che…”
È
che… Cosa?, si
chiese Tom, divertito, intercettando il suo sguardo ansioso.
“Non ti mangiamo,
promesso!” le assicurò Georg.
“No, eh?” fece
lei, quasi delusa. Lanciò uno sguardo
apprensivo ai tavoli vicini, occupati dai membri dello staff del
gruppo, che la
occhieggiavano incuriositi, e alla fine si decise a sedersi.
Era un fascio di nervi.
Tom fermò una cameriere e
le fece ordinare qualcosa. Gustav
le versò addirittura un po’ d’acqua per
aiutarla a rilassarsi; Norja lo
tracannò in un sorso, ma non sortì alcun effetto.
“Allora,
com’è che vi conoscete, voi due?” volle
sapere
Georg, mentre si tagliava un pezzo di bistecca.
“Ieri sera le ho impedito di buttarsi dal tetto.”
Affermò Tom, orgoglioso.
Gustav si accigliò:
“Sbaglio o la sua versione
era diversa?”
“Veramente è
stato a causa sua che stavo per farlo, ma penso
sia questione di punti di vista.” Soggiunse Norja, gettando a
Tom uno sguardo
obliquo.
“Che cosa ci facevate sul tetto?”
“Io c’ero andata per godermi un po’ di
sano relax. Poi purtroppo è arrivato
lui.”
“E tu sei stata scortese
fin da subito.” La rimproverò scherzosamente
Tom, con una gomitata.
“Vorrei vedere se fossi
stata io a rovinarti le scarpe!”
“Senti, te li pago quei
maledetti anfibi, va bene?”
“Nonostante la vita degli
scrittori sia ben misera, ti posso
assicurare che non sono così malmessa da ridurmi ad
accettare la carità.”
“Ce la regali qualche copia
autografata dei tuoi libri?” si
intromise Bill, senza quasi sollevare lo sguardo dal proprio piatto. La
proposta gelò letteralmente Norja sul posto.
“Scherzi?”
Bill la guardò con
un’espressione di sorpresa mista a
perplessità:
“No. Mi piace la tua
saga.”
Il rossore iniziale delle gote di
Norja sembrava essere
diventato solo un vago ricordo, completamente obliato dal crescente
pallore che
stava calandole sul viso.
“Tu hai letto i miei
libri?”
“Tu hai letto i suoi libri?” le fecero eco Tom,
Gustav e Georg, in coro.
Bill si strinse nelle spalle con
assoluta indifferenza.
“Sì.
È brava.”
“Lo posso far scrivere
sulle copertine?” lo pregò lei.
“‘Consigliato
da Bill Kaulitz’. Potrei diventare ricca.”
Bill si strinse di nuovo nelle spalle.
“Per me non
c’è problema.”
“Allora, Norja,”
Gustav la interpellò proprio mentre lei si
infilava in bocca un grissino. “Come mai sei a
Berlino?”
“La mia casa editrice mi ha minacciata di crocefiggermi se
non me ne fossi
andata un po’ in giro a promuovere l’ultimo
libro,” borbottò Norja, deglutendo.
Alzava gli occhi solo per brevissimi istanti, e mai due volte di
seguito sulla
stessa persona. “Quindi sono a zonzo per l’Europa a
massacrarmi il polso per
migliaia di autografi, augurandomi che non mi venga un esaurimento
prima di
iniziare il round in Nord America. Dopo anni di perplessità,
finalmente ho
capito perché quando firmate voi sembra sempre che non
abbiate mai preso in
mano una biro in vita vostra.”
“Oh, no, loro firmavano
così anche prima di consumarsi i
polsi con gli autografi.” Le rivelò Georg, con una
risata.
“A proposito,”
intervenne Tom. “Quasi non ti riconoscevo,
vestita così. Ti avevo quasi scambiata per una persona
normale.”
“Vorrei poter dire lo
stesso di te.”
Bill, Gustav e Georg scoppiarono a
ridere, e con loro anche
il resto della tavolata, che aveva inevitabilmente origliato.
“Hey, Tom, hai trovato pane
per i tuoi denti, eh?”
sghignazzò David, dal lato opposto del tavolo.
“Più che pane,
cemento armato.” Borbottò Tom, anche se,
intimamente, era consapevole del fatto di trovare Norja così
interessante
proprio per via di quella verve che la contraddistingueva. Lo
divertiva
punzecchiarsi con lei. Quello che ancora non gli era ben chiaro era se
per lei
fosse lo stesso, o se effettivamente non lo sopportasse. Una discreta
parte di
lui aveva il timore che si trattasse della seconda opzione.
“Certo che per conoscervi
da poche ore avete una certa
confidenza…” commentò Georg, spostando
lo sguardo da Tom a lei.
Norja agitò la mano con
indifferenza.
“A vedere
com’è cominciata ieri sera, credevo che a
quest’ora almeno uno dei due sarebbe già stato tre
metri sottoterra.”
“Possibilmente
tu.” Disse Tom.
“Perché proprio
io?”
“Perché se tu crepi, non ci va di mezzo nessuno.
Se crepo io, lascio un gruppo
che senza di me non varrebbe niente e venti povere chitarre che
starebbero
malissimo senza il loro papino.”
“Non
so…” rifletté Georg, serio.
“Quel tizio che suonava qua
fuori l’altro giorno era piuttosto bravo.”
“Fottiti!”
“Non essere volgare,
SNF!” lo sgridò Norja, allungandogli un
pugno sul braccio.
“SNF sta per Stupido
Ninfomane Fallocrate?” si informò
Gustav, mentre Tom si prodigava in un gemito di dolore esagerato,
reggendosi il
punto in cui Norja lo aveva colpito.
“Per Spina Nel Fianco,
veramente, ma ora che mi ci fai
pensare Stupido Ninfomane Fallocrate suona meglio!”
“Non è che
adesso vi dovete alleare tutti con lei!” protestò
Tom, iniziando a stancarsi del cambio di punto di vista: di solito era
lui a
prendere in giro.
“Ma guarda
com’è carina!” chiocciò Bill,
carezzando amorevolmente
la testa di Norja. “Potremmo adottarla!”
Lei era visibilmente spaesata,
così circondata di interesse
e attenzioni. Appena Bill la aveva toccata era arrossita, ma almeno non
lo
aveva verbalmente aggredito. Tom avrebbe tanto voluto sapere
perché si comportasse
in modo così diverso, con gli altri.
“Al massimo è
lei che adotta noi, visto che è quasi in età
da prepensionamento.”
“Ma smettila!” lo
rimbrottò Bill. “Quanti anni hai, Norja?
Diciannove? Venti?”
“Venticinque tra qualche mese.”
“Sembri molto più piccola! Hai un visetto da
bambina.”
“Un serio problema, se sei
adulta e vaccinata e ogni volta
che devi entrare in qualche locale sospettano che tu abbia falsificato
la carta
di identità.”
Tom schioccò la lingua.
“Non so come funzioni in
Olanda, ma qui nei locali pubblici
gli animali potenzialmente pericolosi non sono ammessi. La prossima
volta prova
a presentarti con la museruola.”
“È quello che
dicono di solito a te?” ribatté lei, soave.
I ragazzi scoppiarono a ridere in
faccia a Tom.
“Tom, devi impegnati di
più.” Lo ammonì Georg, gli occhi
umidi dalle risate. “È una spanna sopra di te, la
fanciulla.”
“Questo solo
perché lei con la retorica ci campa.”
Grugnì
lui. “Scommetto che se le pianto in mano una chitarra, vinco
a occhi chiusi.”
“Quanto vogliamo
scommettere?”
Tom si voltò
interrogativamente verso Norja:
“Come?”
“Quanto vogliamo scommettere su una sfida tra noi due a colpi
di chitarra?” rispose
lei. “Facciamo mille?”
“Mille?” Tom non
capiva, diceva sul serio?
“Duemila?”
Tom boccheggiò, interdetto
e attonito:
“Tu suoni la chitarra?”
“Sì.” Norja sollevò
fieramente il mento. “Mio padre è
nell’ambiente
discografico, ho preso lezioni da Brian Jones in persona.”
“E chi
è?”
“Il chitarrista dei Rolling Stones.” Rispose Gustav
prontamente.
Tom assunse un’espressione
scioccata e molto preoccupata.
“Ah.”
Georg scoppiò a ridere.
“Che
c’è?”
“Tom, dovresti vedere la tua faccia!”
“Be’, sono impressionato!”
“Sono sicuro che lo saresti ancora di più se
sapessi che Brian Jones è morto
nel ‘69.”
La realizzazione ci mise qualche
secondo ad arrivare, ma
finalmente Tom comprese: era stato di nuovo platealmente gabbato.
“Hai mentito!”
accusò Norja, puntandole contro un dito.
“Ti prendevo solo in
giro.”
“Quindi non sai suonare la chitarra?”
“A meno che non si tratti di una partita a Guitar Hero, no. E
anche in quel
caso faccio abbastanza pena.”
“Meno male.” Tom
trasse un sospiro di sollievo. “Iniziavi a
farmi paura.”
Il cameriere arrivò con
l’ordinazione di Norja e lei si
buttò sul piatto con eccessivo entusiasmo, come se non
vedesse l’ora di
sottrarsi alla conversazione. La lasciarono mangiare per un paio di
minuti, ma
poi, dopo un po’ che la studiava, Georg le chiese:
“Arrivi da un impegno
mondano?”
“Una cavolo di intervista
per RTL.” Biascicò lei, masticando
una forchettata di insalata.
“Com’è
andata?”
Un’espressione di
sofferente rimembranza affiorò sul viso di
lei:
“È durata il
doppio di quello che doveva, quell’idiota del
veejay continuava a sbagliare la pronuncia del mio nome, quella cima
della sua
collega non sapeva dire niente in inglese se non
‘È fantastico!’, e un
telespettatore ha chiamato da casa per farmi una pretenziosa e alquanto
volgare
proposta di matrimonio. Ma, a parte questo, splendidamente.”
Tom si riscoprì a
sorridere. Anche se non aveva mai letto
nulla di suo, capì perché Norja era una
scrittrice così famosa: aveva carattere
nel raccontare le cose, nel scegliere toni e termini, nel comunicare.
“E dove hai imparato
così bene l’inglese?” le stava
domandando Gustav, intanto.
“Sui libri.”
“Beata te. I nostri
facevano schifo, e gli insegnanti erano
anche peggio.”
“Non sui libri di scuola. Sui libri che ho letto.”
“Che noia!”
sbuffò Bill. “A questo punto tanto vale parlare
del tempo!”
“Bill, non essere
scortese!”
“Scusate, ma era di gran
lunga più interessante guardare lei
e Tom che si prendono a legnate verbali.”
“Vorrei dargli torto, ma
non posso.” Sorrise Gustav.
“È proprio
graziosa, vero?” affermò Bill, voltandosi verso
Norja con un’espressione deliziata. “Le metterei un
guinzaglio rosa e la
porterei a zompettare in un parco.”
Tom spalancò gli occhi,
sconvolto. Tutto poteva capire,
tranne che quel ‘graziosa’. Come si faceva a
ritenere ‘graziosa’ una così
sboccata e maleducata?
“Graziosa? Lei?”
“Dovrei avere l’aspetto di una tenebrosa donna del
mistero, non di un cucciolo
di Labrador!” si lamentò lei.
“Io pensavo a un Cocker,
visti i tuoi capelli.” Rifletté
Bill, pensoso, squadrandola di sotto in su. “Non puoi fare il
Cocker?” la
pregò, implorante.
“Ma quale
Cocker!” esclamò Tom, sghignazzando. “Al
massimo
può fare il Mastino.”
“Ti chiamerò
Lilli!” decise Bill, ormai partito per la
tangente. “Poi con calma ti troviamo il tuo Vagabondo,
ok?”
“Sì, ti ci
vedrei con un barbone!” approvò Tom.
Norja lo trafisse con uno sguardo
ammonitivo:
“Buono, SNF. Non vorrei che
ti venisse qualche ruga a fare
tutte quelle smorfie. Ti conviene stare attento, perché se
perdi il tuo appeal
non vali un soldo bucato.”
Lui stavolta non riuscì a
trattenersi: o lei gli confessava
quale problemi avesse con lui, o la piantava.
“Mi vuoi spiegare cosa ti
ho fatto, una volta per tutte?”
Norja si portò una mano
alla fronte, chinando pazientemente
la testa.
“Oh, no,
ricomincia…”
“Tu mi detesti!”
“Come ho già
detto le prime mille volte, Stupido Ninfomane
Fallocrate: io non ti
detesto!”
“Mi tartassi
così per puro diletto, allora?”
“Sì.”
“Venticinque anni di
stagionatura proprio ben riuscita, devo
dire.”
Norja inspirò a fondo, gli
occhi chiusi, e quando li riaprì
gli parve stranamente arrendevole.
“Ti lamenti tanto di come
ti tratto, ma non è che tu sia
tanto più bendisposto di me.”
“Ma ho una reputazione da difendere, io!” si
giustificò Tom, sfoderando un
lieve sorriso sfrontato. “Guai se qualcuno sospettasse che ti
trovo così
adorabile!”
“La faccia prima di
tutto.” Convenne Georg solennemente.
Ma Norja si era irrigidita e fissava
il proprio piatto con
insistenza senza fiatare.
“Groenlandia?”
Tom si chinò in avanti, cercando di guardarla
in faccia. “Va tutto –?”
“Scusatemi.”
Mormorò rapidamente lei, scattando in piedi
come se avesse preso qualche scossa, lo sguardo sempre basso, nascosto
sotto
alla frangetta. “Grazie della compagnia, ma ora devo
andare.”
“Ma…”
“Scusatemi.”
Ripeté Norja, in un tono strano che sembrava
quasi sconvolto, e si volatilizzò in cinque secondi netti.
“Ha dimenticato la
giacca.” Notò Gustav.
Tom guardò la sedia che
aveva occupato Norja solo pochi
istanti prima: la sua giacca di velluto nero, in effetti, era ancora
lì.
“Tom, ma che cosa le hai
detto?” gli chiese Bill, in tono
accusatorio.
Tom non avrebbe saputo cosa
rispondere: era perplesso quanto
lui. Guardava ora la giacca sullo schienale della sedia, ora
l’uscita della
sala da pranzo, incapace di mettere insieme i pezzi in modo logico e
comprensibile.
Una ragazza
normale e
sana di mente non la posso incontrare?
“Ma io…
Niente... Credo.”
***
Quando Norja arrivò di
fronte alla porta della propria
stanza, le mani le tremavano così tanto che a malapena
riuscì a reggere la
tessera per infilarla correttamente nella serratura. Entrò
in fretta e si
richiuse la porta alle spalle, appoggiandovisi contro con la schiena
mentre il
suo cuore pompava così rapidamente da farla respirare a
fatica.
Malediva il momento in cui il destino
le aveva piazzato Tom
Kaulitz davanti con quell’inaccettabile e perfida nonchalance.
Una passava la vita a perdersi in
scintillanti
fantasticherie utopistiche, sentendosi sicura all’interno dei
solidi ed
invalicabili confini dell’immaginazione, e poi un bel giorno,
all’improvviso,
illusione e realtà si scontravano nell’improbabile
scenario del tetto di un
hotel.
Era tutto dannatamente sbagliato.
Buttò la borsa a terra e
quasi si strappò di dosso la
sciarpa. Sperò che la sensazione di freddo che avvertiva non
fosse dovuto a un
principio di influenza, perché la sua agenda era
così fitta di impegni che se
solo avesse avuto bisogno un solo giorno di riposo, qualcuno ai piani
alti
avrebbe chiesto la sua testa su un vassoio d’argento.
Doveva riuscire a darsi una calmata
entro un’ora, o
rischiava un collasso nervoso nel bel mezzo della signing session, e la
solita
dose di valeriana, stavolta, non sarebbe di certo bastata.
***
La hall dell’hotel era
deserta, per fortuna, e non si
vedevano ficcanaso in giro. Con sollievo, Tom si avvicinò
alla reception, la
giacca di Norja sul braccio, e fu accolto da un uomo cordiale sulla
quarantina
che aveva un aspetto piuttosto altero.
“Mi scusi,” gli
disse. “Sono Tom Kaulitz, alloggio qui. Mi
saprebbe dire in che stanza alloggia la signorina Norja
Schwartz?”
L’uomo scosse la testa
senza scomporsi.
“Mi dispiace, signore, ma
non posso fornirle questo tipo di
informazioni.”
Calma, Tom,
calma…
“Le spiego: abbiamo pranzato insieme qui in hotel, solo che
quando lei se n'é
andata ha dimenticato la giacca e ora gliela vorrei
restituire.”
“Se vuole lasciarla a me,
gliela posso far avere io.”
“No, vorrei dargliela di
persona.”
“Allora non posso
aiutarla.”
Tom trattenne a stento un gemito
frustrato.
Dio, che
palle che
sei, vecchio!
“Non la può
nemmeno chiamare?” insisté, supplichevole.
“Solo
per avvertirla che la sua giacca ce l’ho io.”
L’uomo parve ammorbidirsi
impercettibilmente. Si spostò di
qualche centimetro e si mise davanti a uno schermo ultrapiatto, le dita
posizionate sulla tastiera.
“Che nome aveva detto?”
“Norja Schwartz. Schwartz come nero, ma con la T.”
Tom attese che lui digitasse e
controllasse, ma la faccia
che fece alla fine non promise nulla di buono.
“Sono spiacente, ma non mi
risulta nessuna Norja Schwartz
tra le prenotazioni.”
Tom si diede dell’idiota.
Era ovvio che non ci fosse nessuna
Norja Schwartz: il check in negli hotel richiedeva dei documenti di
identità,
quindi non poteva essersi registrata con il nome d’arte, ma
solo con quello di
battesimo.
Già, se solo lui lo avesse
conosciuto, il suo nome di
battesimo…
“Non può fare
una ricerca? È una ragazza giovane,
stravagante, non è qui da molto…”
L’uomo esibì un
sorriso plastico e tirato.
“Signore, la prego, non insista.”
“Non mi costringa ad andare
a bussare a tutte le dannate
porte di questo dannato albergo!” sbottò Tom,
esasperato. Non era abituato a
non ottenere quel che voleva, e per di più questa volta ci
teneva davvero. Era
solo una stupida giacca, in fondo, eppure, sì, ci teneva.
“Signor Kaulitz,”
gli intimò l’uomo, con falsa cortesia.
“In
qualità di direttore del suddetto dannato albergo, la devo
pregare di non
creare problemi ai miei clienti, altrimenti sarò costretto a
prendere
provvedimenti.”
“Va bene, va
bene!” ringhiò lui, sollevando le mani in segno
di resa. “Grazie tante dell’aiuto!” Poi
gli voltò le spalle e se ne andò,
fumante di rabbia.
Vaffanculo,
Norja, o
come cazzo ti chiami!, imprecò fra sé,
infilando l’ascensore.
Aveva la sua giacca, erano nello
stesso hotel, si
conoscevano, e nemmeno sapeva come arrivare a lei. Non sapeva nemmeno
se
sarebbe riuscito a rivederla prima che entrambi se ne andassero.
Forse avrebbe voluto salutarla.
Forse gli sarebbe mancata.
Forse avrebbe voluto chiederle almeno
un contatto.
Invece no.
Forse non era destino.
Vaffanculo,
sì.
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Note:
phew, dopo mille mila anni, ce l’ho fatta! ^^ Vi avevo detto
che questa storia
sarebbe stata subordinata in importanza alle altre, quindi
comprenderete il
ritardo. Insomma, ecco il secondo capitolo! Spero tanto che, anche se
è
dichiaratamente molto meno curata nella forma e nelle descrizioni,
anche questa
ff vi piaccia. Il titolo di questo capitolo è lo stesso di
una bellissima
canzone dei Massive Attack, che consiglio di ascoltare.
Ringrazio tutte voi che avete letto,
commentato e aggiunto
la storia tra le preferite e seguite, e mi auguro, come al solito, che
continuerete così! :)
Nel prossimo capitolo vedremo Norja
che cerca di godersi una
delle sue poche giornate normali con la peggior zecca del mondo alle
calcagna,
aka Tom Kaulitz. Stay tuned! ;)
Alla prossima!
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