Ghost of Freedom
-Ellis Island-
A Shura.
Prologo:
Agognata
America.
Era il 25 Giugno del 1943. Un
piovoso mercoledì
pomeriggio alla foce dell’Hudson. La nave stipata di uomini e
di donne avanzava
lenta attraverso il mare nero e il cielo gonfio di pioggia.
Faceva freddo, era sola, ma era viva. Viva dopo la fuga,
dopo il terrore, dopo la guerra, dopo la fame, dopo le purghe. Era sola
e
malata. Ma viva. Viva.
Svetlana L'vovna
Zarkovskaja, quel pomeriggio del
1943, attraverso il minuscolo oblò al quale era vicina,
sotto una pioggia
fitta, davanti ad un mondo del tutto nuovo, con il sangue alle labbra e
le dita
irrigidite dal freddo, scorse la Statua della Libertà.
Così alta e così
maestosa, un simbolo di speranza e di nuove occasioni per tutte le
persone che
giungevano nel nuovo continente. Erano tutti lì a fissare la
grande donna,
sguardi consapevoli e sguardi spaventati di chi non aveva idea di cosa
fosse
quell’ammasso di ferro.
Nessuno aveva gli aveva mai spiegato cosa fosse. La paura e la
libertà
erano una cosa sola in quel momento.
Svetlana era giunta al capolinea e all’inizio della sua nuova
vita. Ma come
poteva esserci una nuova vita dopo quello che aveva lasciato? Dopo
quella che
era stata la sua vita?
La nave attraccò con un sobbalzo. Trascorse un’ora
prima che la grande
nave aprisse la poppa.
Davanti a loro apparve Ellis Island. Il lasciapassare
dell’America.
Tutti i cinquecento
rifugiati furono ammassati davanti alla banchina in
attesa che le infermiere di Ellis radunassero le attrezzature e
aprissero i
cancelli di Ellis Uno. Svetlana non ce la faceva più. Non
sapeva niente di
quello che sarebbe venuto nel suo futuro, aveva paura, dopo tutte le
sue azioni
aveva una paura folle del futuro. Una paura così profonda
che la immobilizzava.
Alzò al viso al cielo che continuava a gettarle addosso la
sua acqua, come a
purificarla da tutti mali che aveva su di se.
Dio, se ci sei, ti
prego fa’
che posso vivere in America e trovare pace.
Chiese questo e, mentre i medici e le
infermiere di Ellis aprivano i
cancelli, perse i sensi.
Si risvegliò in
una stanza azzurra, su un letto, un letto!
Era sola nella stanza e questo la stupì. Tossì e
sputò
sangue, ma si sentiva meglio rispetto a poco prima. Più in
forze. Com’era
possibile? Lentamente, con un peso sul petto, che non era dovuto al
fatto che
tossisse sangue, avanzò verso la finestra e
guardò fuori. Il tempo era ancora
peggiore di prima, ma la sorprese l’ingente numero di uomini
e donne, almeno
duecento, che venivano caricati a forza sulla nave con cui era arrivata.
Svetlana era basita. Lui, non
riusciva a nemmeno a pensare il suo nome, le aveva detto che in
tantissimi
venivano rispediti indietro, perché non c’era
posto per loro in America, perché
erano malati, o perché non erano d’aiuto allo
sforzo economico e bellico di
quel paese. Lei aveva pianto, chiedendosi come si potesse rimandare i
profughi
dall’inferno dal quale venivano, avevano un po’ di
cuore? Ma l’America era
anche quello. Ogni mese in migliaia venivano rispediti a casa. Era la
legge.
Lei sapeva che con lui non sarebbe successo, l’America era il
suo
paese, come potevano rimandarlo indietro? Anche lei si sarebbe salvata.
Ma quando era partita da sola, non aveva molte speranze di restare.
Ancora
di meno quando si accorse, con orrore, di avere la TBC. Non
l’avrebbero mai
accettata, malata e senza un diritto all’America. Mai.
Eppure…eppure Svetlana era in quella stanza, e vedeva sotto
di se le
persone che venivano mandate indietro. Non sapeva come, non sapeva bene
il
perché. Le era stato concesso di restare. Per ora.
La porta si aprì con uno scatto e un medico fece capolino,
il volto
coperto da una mascherina.
“Mi capisci?”, chiese in inglese.
Svetlana lo guardò e tacque, incapace di dire una parola.
Il medico ripetè la domanda in francese, in tedesco e in
italiano. Lei
continuò a tacere.
Le si avvicinò con cautela cominciando a segnare qualcosa
sulla sua
cartella. La richiuse e fece per uscire.
“Aspetta!”, disse Svetlana con impeto in un
perfetto inglese. Temeva che
il dottore dicesse che non sapeva nessuna lingua e che quindi era da
rimandare
indietro.
“Allora mi capisci”, le sorrise tornando indietro.
“Non aver paura, è
tutto a posto. Sono il dottor Thomas Leighton.
Sai dire Leighton?”
“Leighton”, ripetè sempre con perfetto
inglese.
“Ottimo! Allora come ti senti?”, le
domandò gentilmente.
Svetlana aveva le lacrime agli occhi e non riuscì a
trattenerle. Il medico era così gentile, pulito,
affabile…così americano.
“No, no. Non devi piangere. Starai bene, è una
promessa.”
“A voi americani piace fare promesse”,
replicò tra le
lacrime.
“E le manteniamo sempre. Avanti, asciugati gli occhi e
dimmi come ti senti”, le disse facendola sedere sulla branda
con delicatezza e sedendole
accanto.
“Grazie. Sto meglio. Meglio di quando sono
arrivata.”
“Sono contento, ti abbiamo dato dei sulfamidici, per
fortuna la TBC non è che al primo stadio. Guarirai. Ci
vorrà un po’ ma guarirai”,
disse soddisfatto sorridendo.
Svetlana guardò in quegli occhi verdi così
sinceri.
Aveva perso la fede. Aveva perso la speranza. Aveva visto
tutte le persone che amava morire sotto i suoi occhi.
Sua sorella le
teneva la mano ghiacciata sul capo.
“Ti voglio bene
Sveta. Vivi, vivi per noi. Vivi e diventa grande, vivi e ama e
ricordati di noi.
Ti amo sorella mia. Sei stata la migliore sorella del mondo”.
La mano di Lena
cade dolcemente sulla guancia della sorella, priva di lacrime, priva di
qualsiasi emozione. Anche lei l’ha lasciata.
Ma
quegli occhi le diedero un barlume di fiducia. Decise di
fidarsi.
“Perché sono ancora qui? Tutti sono stati mandati
via, ho
visto da finestra metterli su nave e…”
Il dottore la interruppe.
“Abbiamo trovato un certificato della Croce Rossa
Internazionale tra i tuoi vestiti, un passaporto con un nome
americano…sappiamo
che non è il tuo nome vero, molti inventano dei nomi diversi
quando vengono
qui. Ma c’era il certificato della Croce Rossa e siamo sicuri
che non è un
falso. Hai il diritto di rimanere, vuol dire che hai un lavoro, poi
parli la
lingua e guarirai. Sei stata ammessa nel paese. Sei
un’infermiera vero?”
Svetlana aveva ripreso a piangere.
“Si, lo sono. Dal posto da cui vengo ho lavorato con
dottore americano che mi ha dato certificato per uscire da paese con
lui.”
Il dottore la scrutò, fissandola intensamente.
“E’ tutto a posto allora. Quando ti rimetterai
potrai
renderti utile. E’ una buona notizia, perché
piangi?”, le chiese ridendo
sommessamente.
Lei alzò lo sguardo triste sul dottore.
“E’ notizia troppo bella per me. Non credevo di
riuscire
ad arrivare fin qui. Dio è sempre stato contro me e mia
famiglia. Mai avuto
conforto e pace”.
“Ma adesso sei salva. Da dove vieni?”
“Unione Sovietica.”
Il dottore fischiò sorpreso.
“Accidenti, come diavolo sei riuscita a fuggire da
quell’inferno?”
“Se glielo raccontassi non mi crederebbe, dottore”,
ribadì
calma.
“Sei stata davvero coraggiosa. Un’ultima cosa,
Clare Callaghan…è
il suo vero nome?”
Sentire quel cognome fu come una pugnalata. Si ritrasse
automaticamente ma non abbassò lo sguardo dal dottor
Leighton.
“Era nome madre di mio marito…”, disse
in un sussurro.
“Vede? Un vantaggio in più, suo marito..era
americano”,
disse spostando lo sguardo da quello penetrante della ragazza.
Così doloroso.
“Avrà più diritto di rimanere in
America”, aggiunse
poiché lei taceva. “Qual è il tuo vero
nome?”
“Puoi chiamarmi Sveta, se tu vuoi”, disse
leggermente
impaurita.
“D’accordo Sveta. Tra poco verrà un
impiegato dell’ufficio
registrazioni per farti un passaporto e un certificato. Sarai
americana. Ora
devo proprio scappare, ci vediamo più tardi”,
disse e raggiunse la porta. Si scostò
la mascherina e le sorrise.
Lei rispose al saluto tirando le labbra.
Svetlana, guarda, guarda dalla finestra. La vedi l’America?
Vedi la Statua della Libertà che ti chiama a sé?
La vedi? Per quanto tempo hai
desiderato raggiungere questo posto, con quanto trasporto pensavi
all’Oceano e
al fiume Hudson, con quanta passione amavi tuo marito sperando in un
futuro a Manhattan
insieme.
Ora guarda la tanto agognata America dalla tua finestra. Guardala
e ammira la tua fortuna.
Ma lui non c’è.
Guarda il mare gonfio e nero che si schianta sulla base
della Statua della tua libertà. Ti piacerebbe prendere un
traghetto per
visitarla vero? Ti piacerebbe visitare New York, dall’altra
parte del porto? L’hai
sempre sognato, fin da quando scopristi le sue origini.
Ma lui non c’è.
L’America….ti piacerebbe vederla, Svetlana?
A mio marito
piacerebbe.
[ L’uomo annuì.
“Si che ce la fai. Ce la puoi fare. Lo vedo…
in te adesso è inverno.” Sorrise.
“Non preoccuperti. Fra
poco arriva l’estate. Il ghiaccio
si scioglierà.”
Tatiana si alzò a fatica
dalla panchina. Mentre si
allontanava disse in russo:
“Non è
più il ghiaccio, caro il mio filosofo di mare. E’
un rogo”. ]
Citazione finale:
“Il cavaliere d’inverno”, Paullina
Simons.
|