_Win
for Life_
Napoli 1 ottobre 1956.
Cinque lire.
L’ultima moneta che le
rimaneva e poi niente. Tutto sarebbe svanito, come quelle piccole
nuvole all’orizzonte del Golfo della sua amata città.
Ora era seduta sul gradino
della scala di una palazzina, un po’ deteriorata dal tempo, situata in
un quartiere popolare napoletano dove la gente povera come lei viveva.
Era lì e faceva roteare tra
le mani quella moneta con la speranza che si moltiplicasse, ma era
impossibile. Era una stupida fantasia di una bimba.
Ma lei non era più una
bambina, era una donna. Anche se il suo corpo acerbo diceva il
contrario. Era ragazza cresciuta troppo in fretta, e non aveva goduto
la gioia di vivere a pieno la sua infanzia.
Aveva da poco compiuto
sedici anni, eppure questo non la rendeva di certo felice, anzi la
faceva in qualche modo infuriare.
“La
povertà e la fame non rendono di certo felici. Vorrei non essere così
povera”.
Si disse tristemente,
mentre una leggera brezza smuoveva la sua chioma corvina. Strinse forte
il suo ultimo sostentamento tra le mani. Lo strinse così forte tanto
sembrare che entrasse nelle carni. Era suo e di nessun altro. Abbassò
il viso e guardò le sue scarpe color marrone, logore e vecchie.
Erano usurate come i suoi
vestiti, una gonna grigia, con l’orlo rammentato in più parti. Una
camicetta bianca, con sopra un maglioncino aperto nero che apparteneva
sua madre, morta da qualche tempo. Era un suo unico ricordo.
“Mamma”.
Sospirò, mentre accarezzava
la manica sinistra. Avrebbe voluto piangere, ma non aveva più lacrime.
Era troppo stanca per farlo.
Era stanca di quella vita.
Di lottare.
Di combattere per un tozzo
di pane. Per poche lire.
Sospirò socchiudendo gli
occhi, alzò il viso al cielo e li riaprì. I suoi occhi color della
terra ammiravano il cielo azzurro. Il colore della vita.
Una vita che lei detestava,
ma che accettava. Sembra un vero contro senso, eppure lei era come un
parassita che continuava a vivere.
Ispirò l’aria carica di
profumi. Di carciofi arrostiti. Di pesce fresco. Di mare.
Intanto sentiva attorno a
sé le urla dei venditori ambulanti, come anche quella dei bimbi che si
rincorrevano, o delle loro madri che urlavano a squarcia gola. Le voci
della vita popolare quotidiana.
Le voci della sua gente.
Sospirò di nuovo e tornò a
guardare quella monetina, ora umida di sudore.
“E ora
che faccio?”.
Si domandò amaramente,
mentre scrollava le spalle avvilita, quando d’un tratto la voce di una
persona la fece voltare.
“Comprate
il biglietto! Comprate la felicità che io vi offro! Solo pochi
spiccioli per la fortuna!”.
Era un anziano signore con
qualche capello in testa, occhi sporgenti, malamente vestito e che
portava legata con uno spago, una cassetta di cartone un po’ macchiato
di unto. Sopra di esso vi era un foro e da dove, estraeva il bussolotto
della vincita.
Lei un po’ curiosa lo
fissava, mentre giungeva ballonzolante verso di lei, intanto continuava
a urlare questa frase:
“Comprate il biglietto! Comprate la
felicità che io vi offro! Solo pochi spiccioli per la fortuna!”.
La ragazza si trovò a
sorridere. Era un tipo piuttosto bizzarro.
“Chi
sarà mai?”.
Si domandò, mentre lo
vedeva vendere un bigliettino di carta a una donna corpulenta che,
teneva sotto il braccio un paniere ricolmo di verdura.
“Questo
biglietto, non tema mia bella signora, è vincente!”.
Cantilenò l’anziano, mentre
poneva la sua mano ossuta su quella donna.
La ragazza si sporse ancora
di più. Era davvero curiosa, quell’uomo bizzarro la stuzzicava, come
anche quella sorta di gioco. Infatti, l’anziano si rese conto che una
persona l’osservava con insistenza.
Si voltò e mostrando un
sorriso sdentato, si diresse verso di lei.
“Oh, mia bella fanciulla acquista il
biglietto della fortuna”.
Lei si alzò dal gradino di
fronte a quella proposta. Indietreggiò con il capo, mentre osservava il
foglietto di carta, leggermente stropicciato, che l’uomo le offriva.
“Veramente io…”.
Sussurrò, mentre deglutiva.
“Veramente
che cosa? Suvvia costa solo poche lire”.
Disse l’anziano, sempre
cantilenando, mostrando il biglietto alla ragazza. Lei osservava quel
cedolino, mentre sentiva dentro di sé una vocina che le diceva:
“Attenta
Kagome è una truffa non ci cascare”.
Però un’altra contrastante
le diceva:
“Prendilo
Kagome! Prendilo!”.
Senza rendersene conto la
sua mano destra si mosse, come spinta da qualcosa, mentre i suoi occhi
erano rapiti da quel foglio.
L’uomo si rese conto che la
ragazza stava per cedere, e anche senza alcuno sforzo. Veloce come un
lampo afferrò la monetina che, lei teneva in mano e sogghignando le
disse.
“Affare
concluso”.
Le consegnò il biglietto e
con un goffo inchino se ne andò, lasciando la ragazza basita da tutto
ciò. Lei osservò quel foglietto con il numerino scritto, con una
calligrafia malferma. Il numero assegnatele era il tredici.
“I
morti”.
Disse storcendo le labbra.
Era un numero che non portava molta fortuna, ma purtroppo l’affare era
concluso e non poteva di certo tornare indietro. Scrollò le spalle e
tornò a sedersi. Voltò il capo e osservò la signora di prima ferma a
parlare con un’altra donna.
“Speriamo
che il vecchio Totosai faccia subito l’estrazione. Sai mi andrebbero
comode qualche lira in più in casa”.
Lei ascoltò la
conversazione rapita.
“Qualche lira?”.
Sussurrò, intanto un
barlume di speranza cresceva in lei.
“Chissà?
Forse estrae il mio numero”.
Continuò, mentre cominciava
a fantasticare. Intanto il vecchio Totosai aveva terminato la sua
vendita e urlando disse.
“Ora
estraggo! Ora estraggo! Ora estraggo la fortuna! Chi sarà il fortunato
di oggi?”.
Alzò al cielo il braccio
destro mostrando la mano aperta. La ragazza si alzò, socchiuse gli
occhi e tenendo stretta al petto il foglietto, cominciò a pregare.
“Oh, Madonna Benedetta fa che sia il mio
numero. Te ne prego fa la grazia”.
Totosai abbassò il braccio
e mise la mano nella cassetta. Cominciò a roteare la mano nel suo
interno. Mescolava i bussolotti. Intanto la gente si era fermata di
colpo.
Attendeva. Aspettava
l’estrazione dei numeri fortunati. D’un tratto il vecchietto di fermò e
sorridendo tirò fuori un numero.
“Il
numero fortunato è…”.
Si fermò, mentre la gente
tratteneva il fiato, come anche lei.
“…è…”.
“Fa che
sia il tredici. Fa che sia il tredici”.
Si ripeteva, come una sorta
di litania.
“E’ il
dodici!”.
Gridò vittorioso. Lei aprì
di colpo gli occhi, non poteva crederci aveva perso. Era abilita.
Sconcertata.
Si sentì tradita, mentre
osservava la donna di prima correre verso il vecchio.
“Ho
perso”.
Sussurrò, intanto osservava
la scena.
“Ho
perso la mia moneta”.
Si disse, mentre la rabbia
cominciava a crescere dentro di lei.
“Ho
perso!”.
Si ripeté. Digrignò i
denti, appallottolò il foglietto e lo buttò di lato. Si sentiva offesa.
Credeva che il miracolo sarebbe accaduto e invece niente. Ora non aveva
davvero nulla.
“Ehi!
Guarda dove butti le cose!”.
Sentendo una voce,
lievemente alterata, accanto a sé si voltò di colpo e vide che a
parlare era stato un ragazzo. Un bel giovane, leggermente abbronzato,
con capelli color dei giochi di luce sulle onde del mare. Occhi di un
colore bizzarro, dorato, e vestito da pescatore squattrinato. Senza una
lira come lei.
“Perché?”.
Sibilò.
“E mi
chiedi anche il perché? Ah queste mocciose d’oggi”.
Disse il ragazzo di modo
melodrammatico, mentre osservava il viso furente della ragazza.
“Secondo
te io sono un secchio per la spazzatura?”.
Lei non rispose, si limitò
a fare una smorfia di stizza. Lui la guardò, si sentì offeso da
quell’atteggiamento infantile.
“Mocciosa”.
Pensò, ma poi prese il
foglietto, lo aprì e vide il numero. Era il tredici. Lì per lì non
mostrò nulla, ma poi scoppiò a ridere.
“Credevi
di vincere non è vero?”.
Disse tra le risa. La
ragazza abbassò il viso imbarazzata, mentre sentiva la gola stringerle.
Avvertiva le lacrime negli occhi. Stava per piangere.
“Sì”.
Biascicò, intanto una
lacrima scendeva prepotente sul suo viso.
Il ragazzo si accorse di
ciò, e con il dito indice della mano destra la raccolse.
“Ehi,
non c’è ragione per piangere. È solo un gioco. Uno stupido gioco”.
Lei furente rialzò il viso
e tra i singhiozzi disse.
“Era la
mia ultima moneta. Non ho più niente! Ho fame. Come camperò adesso?”.
Il ragazzo si scusò,
intanto la ragazza continuava piangere. A disperarsi per la sua sorte
avversa.
“Mannaggia adesso che faccio?”.
Pensò, mentre si grattava
il capo imbarazzato. Quando un’idea gli balenò.
“Tu
aspetta qua”.
“Eh?”.
Il ragazzo si voltò e si
diresse verso la bancarella della fruttivendola, intanto la ragazza
continuava a osservarlo senza comprendere. Intanto aveva smesso di
piangere. Lo vide parlottare con la donna. Perché?
Lo vide tornare da lei
sorridendo. Era sempre più confusa, quando le lanciò una bella mela
rossa. L’afferrò.
“Mangiala
è buona”.
Le disse, mentre dava un
poderoso morso al frutto. Lei l’osservava, ma poi abbassò il viso al
frutto. Aveva fame, ma poi un dubbio l’assalì.
“E’
rubata vero?”.
Lui si fermò e sorridendo
le disse.
“E con
questo? Tu hai fame e poi ti hanno fregata, no?”.
“Sì, ma
questo non si fa!”.
Disse, ma la fame era
davvero tanta e senza rendersene conto diede un morso al frutto. Era
buona e succosa, ma era consapevole che quello che stava facendo era un
reato.
“Mi
dannerò”.
Si disse, mentre masticava.
“No. Ci
danneremo”.
Puntualizzò lui, mentre le
faceva l’occhiolino. Lei sorrise. Un sorriso dolce e materno, cosa che
piacque al giovane.
“Qual è
il tuo nome?”.
Le domandò.
“Kagome
e il tuo?”.
“Inu
Yasha detto: il Ladruncolo”.
Lei rise di fronte a questo
appellativo.
“Mi
sembra un nomignolo azzeccato”.
Ridacchiò. Kagome fece un
leggero inchino e continuò.
“Il mio
nome completo messere è: Kagome la morta di fame”.
Fini la frase dando un
morso enorme al frutto. Inu Yasha cominciò a ridere. Quella ragazza
così strana le piaceva. Sorrise e la afferrò per mano.
“Allora mi cara signora Kagome detta la
morta di fame che, ne dice di andare a fare una passeggiata sulla
spiaggia?”.
Kagome lo guardò, buttò
dietro di sé il torsolo della mela e disse.
“E
perché no? Andiamo”.
E lentamente camminarono
tra la gente. La gente povera come loro.
Fine.
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Storiella nata da un racconto di un
mio cliente del lotto, partenopeo, che mi ha davvero incuriosito.
Esisteva davvero un personaggio
così. Nato nel periodo di fame, ma che ridava la speranza alla
popolazione ^^. Il titolo di sicuro l’avrete già sentito. Ebbene deriva
appunto di un giochino del lotto…mi correggo del superenalotto Vinci
per la vita.
Ah, dimenticavo! Il tredici nella
smorfia napoletana rappresenta davvero “I Morti”. Che iattura -.-‘
Non sono neanche certa se sia di
vostro gradimento. Pazienza XD. Il danno è fatto ^^.
Un bacio a tutti quelli che la
leggeranno.
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