IL
FUOCO BIANCO
Mi chiamo Lucas Kane, e sono un
assassino. Se vivete a New
York forse avete sentito già parlare di me, ovviamente non
con il mio vero
nome. Mi chiamano “The Kill”. Non
“The Killer”, ma “The Kill”. Le
persone riconoscono in me l’essenza stessa
dell’uccisione. Sono un mostro. Gode nel sentire gemere le
sue vittime. Le
uccide con un coltello da macellaio Ne beve il sangue. Riesce ad
essere in più
posti contemporaneamente. Le pallottole non lo fermano. Non
è umano. Sono
queste le voci che girano su di me. Non sono notizie ufficiali, sono le
leggende metropolitane che strisciano tra la gente comune come tanti
viscidi
vermi. Io sono una leggenda metropolitana. Ma io, a differenza degli
ufo e dei
fantasmi sono vero. E sono vere quasi tutte le voci che circolano su di
me.
Questa è la mia storia, leggetela se ne avete voglia,
leggetela e tremate.
New York era una città
caotica e disordinata. Non esistevano
regole al di fuori di quelle non scritte. Le regole non scritte sono
molto più
potenti di quelle scritte, perché sono reali. Si trovavano
tanti di quei
neonati nella spazzatura che non si capiva dove metterli, ormai tutti
gli
orfanotrofi erano pieni. Fu così che il governo
approvò una legge che prevedeva
un assegno mensile di trecento dollari alle famiglie per ogni bambino
che
accettavano di tenere con loro. È così che comincia
la mia storia. Io sono nato
dai rifiuti di questa società capitalista e consumista. Io e
mia sorella Wendy
fummo trovati tra un televisore rotto e un sacco
dell’immondizia e fummo affidati
alla famiglia Kane. George Kane faceva il macellaio e viveva grazie ai
sei
assegni mensili che gli mandava il governo. Oltre a me e a Wendy
c’erano un
ragazzo di colore, Carlos, Due ragazzi di nove e dieci anni, Michol e
Tommy, e
una bambina di appena un anno, Mary Rose. La nostra
“mamma”, Lois Kane era un
donnone robusto, una di quelle matrone che vedi sempre intente a
stirare o a
cucinare. Io e Wendy eravamo gemelli, e quando accadde avevamo entrambi
quindici anni. Mia sorella è sempre stata bellissima.
Già a undici anni era
diventata donna, e a tredici i suoi seni si erano gonfiati oltre
misura. Aveva
due lucenti occhi castani, i capelli ramati leggermente mossi che
incorniciavano un viso perfetto, labbra carnose e ben disegnate e un
sorriso
tonificante che ti lasciava una sensazione di fiducia e speranza ogni
volta che
era diretto verso di te. Amavo mia sorella. Nonostante fossimo molto
poveri
riuscivamo a tirare avanti. Nemmeno le frequenti litigate dei signori
Kane riuscivano a
turbare la pace che ci eravamo
costruiti. Eravamo felici.
Un giorno, stavamo andando a fare la
spesa insieme, un
gruppo di ragazzi ci circondò. Erano di qualche anno
più grandi, forse sui
diciotto o vent’anni. Iniziarono a fare apprezzamenti su
Wendy, anche qualche
battuta pesante. Li ignorammo e tirammo dritto ma loro continuarono a
seguirci.
Alla fine uno di loro, i capelli di un disgustoso giallo paglia, ci si
parò
davanti. Sorrise
beffardo. E toccò il
seno di mia sorella. Un montante. Sul mento. Il ragazzo
barcollò indietro
stordito e mi guardò stupefatto. Io ero ancora
lì, con il pugno alzato. Mi
furono subito addosso, in tre. Gancio. Diretto. Di nuovo gancio. Erano
a terra.
Mi gettai sugli altri in preda alla collera. «Lucas
no!». Non ascoltai Wendy,
volevo solo punire chi aveva osato tanto. Ricevetti molti colpi, ma li
incassai
e tornai alla carica. Alla fine rimasi solo io in piedi. Wendy mi
fissava
sbalordita, e spaventata. «Lucas… ma
cosa…». Io mi asciugai un rivolo di sangue
sulla guancia con il dorso della mano. «Torniamo a
casa». «Ma…
Lucas…».
«Torniamo a casa» ordinai furioso.
Lois si arrabbiò molto,
non avevamo fatto la spesa. Wendy controllò se aveva i soldi
in tasca e venne a
chiamarmi. «Io non vengo».
«Ma…». «Io non
vengo». Ero troppo sconvolto da
quello che era successo. Mi era piaciuto picchiare quei ragazzi, avevo
provato
un piacere intenso nel sentire i gemiti di dolore e il suono di ossa
rotte
sotto le mie nocche. Dovevo riflettere. «Quindi…
vado da sola?» chiese Wendy
titubante. «Fa un po’ come ti pare» le
urlai in faccia sbattendo la porta.
Fa
un po’ come ti pare
Ormai era calata la sera, erano
passate più di tre ore da
quando Wendy era uscita di casa. Alla fine arrivò la
telefonata. George e Lois
uscirono subito, io li seguii. Il corpo di Wendy era riverso a terra,
il sangue
ormai rappreso sulla faccia insozzava i suoi morbidi capelli color
rame.
Stuprata e poi uccisa con due colpi di pistola, negli occhi. Il
vestitino rosa
giaceva strappato poco lontano, in un angolo del capannone.
Fa un po’ come ti
pare
Non riuscivo a capacitarmi di quello
che era successo.
Sperai intensamente che i poliziotti si rivelassero gli improbabili
attori di
uno di quegli idioti show televisivi dove si prendeva in giro la gente.
Ma non
era così. Tutto quanto era vero, maledettamente vero.
Fa un po’ come ti
pare
Rimasi a vegliare sul cadavere di
Wendy fino a quando due
uomini non lo avvolsero in un sacco di plastica nero. Ironico. Un sacco
dell’immondizia gli aveva fatto da culla, e ora quello stesso
sacco le faceva
da tomba.
Fa un po’ come ti
pare
Wendy…
George e Lois mi riportarono a casa
discutendo se dovessero
adottare un maschio o una femmina. Mi venne da vomitare. Mentre fuori
infuriava
il temporale io riflettevo, scavavo nella mia memoria. Avevo
già visto da
qualche parte il biondino. Peter Newton! Il ragazzo che ci aveva
infastiditi
quel pomeriggio, l’assassino di Wendy. Saltai giù
dal letto e mi vestii
rapidamente. Scesi fino al piano di sotto, dove George teneva i suoi
attrezzi
da macellaio e presi quello più vicino a me: un grosso
coltellaccio da cucina
con l’impugnatura in legno. Dopo di che uscii nella pioggia
battente diretto al
magazzino dove sapevo che si ritrovava la banda di Newton. Fu in quel
momento
che scoprii il mio primo potere, la velocità. Le mie gambe
presero a muoversi
ad una velocità sovraumana e mi ritrovai a gareggiare con i
lampi che
squarciavano il cielo notturno. Era una sensazione inebriante. Sentivo
i colpi
dei piedi sull’asfalto in ritardo tanto andavo veloce. Il
vento gelido e
pungente mi feriva la faccia e l’attrito mi procurava una
sensazione di
oppressione al petto. Determinato a fare giustizia arrivai al magazzino
abbandonato in meno di un minuto. Prima di entrare un oggetto nero
gettato per
terra attirò la mia attenzione. Era un passamontagna di
lana, completamente
nero fatta eccezione per la K rossa che troneggiava sulla fronte,
probabilmente
disegnata dal precedente proprietario. Credo sia stato quello il
momento in cui
il destino mi diede per la prima volta un segno. Il mio fato, il mio
karma, in
qualunque modo vogliate chiamarlo bussò violentemente alla
porta e mi prese
come un fiume di fango e di rifiuti prende i barboni quando esonda la
fogna.
Forse in quello stesso secondo dall’altra parte del mondo una
farfalla stava
sbattendo le ali provocando quella tromba d’aria che mi
sconvolse l’esistenza.
Senza sapere bene il perché mi infilai il passamontagna.
Strinsi la ruvida
impugnatura di legno del coltello nella mano ed entrai nel magazzino.
In fondo
a questo, illuminati dalla luce di alcune candele e di un paio di torce
elettriche una decina di ragazzi stava ridendo e scherzando. Numerose
bottiglie
di birra vuote erano sul pavimento e si vedeva anche numerosi mozziconi
di
sigarette e di canne rollate male. Osservai meglio quei ragazzi. Newton
stringeva in mano qualcosa e gli altri facevano a gara per toccarla.
Socchiusi
gli occhi per vedere di cosa si trattava. Quando la capii la mia bocca
si
spalancò in un muto grido di orrore. Erano mutandine da
donna, le mutande di
Wendy. Fu allora che vidi per la prima volta il fuoco bianco. Apparve
davanti
al mio occhio interiore tanto vivido e tangibili che ebbi quasi paura
di
scottarmi. Fu come il getto del vulcano quando è arrabbiato
ma bianco come le
nuvole quando il cielo è limpido. Era bellissimo, come solo
le catastrofi
naturali e i mostri ancestrali possono esserlo. Senza paura attraversai
quelle
fiamme candide, e tutto divenne sangue. Mi lanciai contro i ragazzi con
il
coltello sguainato e ne sgozzai due. Gli altri urlarono di terrore. Io
mi avventai
su un terzo e gli squarciai la pancia con un taglio netto mettendo in
mostra
gli organi. Uno schizzo di sangue mi colpì in faccia, caldo
e vivo. L’odore mi
inebriò e mi lasciai invadere completamente dal fuoco
bianco. Fu un massacro.
Mi guardai intorno, cadaveri ovunque. Ma mancava qualcuno, mancava
Newton. Mi
lanciai al suo inseguimento fuori dal magazzino. Lo vidi correre
dall’altro
lato della strada. Con un rapido scatto mi parai di fronte a lui, e lui
sparò.
Fu così che scoprii il mio secondo potere:
l’invulnerabilità. Il colpo mi
rimbalzò addosso lasciandomi solo un leggero fastidio, come
se mi avessero dato
un pizzicotto. Newton cadde all’indietro terrorizzato.
«Ma chi cazzo sei?». Io
mi inginocchiai accanto a lui e mi tolsi il passamontagna. Appena mi
riconobbe
il ragazzo sgranò gli occhi. «Cosa
sei?». «Non credo che l’informazione ti
sarà
utile dove sto per mandarti». Poi mi chinai su di lui e lo
sgozzai, con un
morso.
Quella notte ci fu un sopravvissuto,
un certo Matt Banner,
che raccontò del misterioso assassino con la K sulla fronte.
È così che è nata
la leggenda di “The Kill”, la mia leggenda.
Note
dell’autore: So
che probabilmente molti di voi mi uccideranno visto che ho
già aperta
un’altra long-fic ma dico subito che “Figlia della
Volpe” non sarà lasciata
incompiuta. Volevo solo provare a scrivere un’idea che mi
turbina in testa da
luglio. In questa storia ho cambiato completamente il carattere che di
solito do
al personaggio principale e anche all’ambientazione creando
una specie di
incrocio tra “Sin City” e “Metal Gear
Solid”. Commentate per favore.
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