Quando
aveva accettato di vivere con lui, l'aveva fatto senza pensarci
troppo: non aveva un posto dove andare, non aveva una famiglia e,
soprattutto, doveva recuperare dieci anni di esistenza. Non sapeva
vivere e vedere gli impiegati della WRO ogni giorno non l'aiutava di
certo a farsi un'idea di cosa significasse realmente.
Per
questo non aveva dato molta importanza alla propria scelta. Ma si era
accorta presto del suo sguardo, triste, malinconico, così
simile al proprio. C'era una luce diversa in esso, quando lavorava e
tentava di ricostruire il mondo. Ma appena la vedeva, appena tornava
a casa, quel bagliore si spegneva, assorbito da una preoccupazione,
da qualcosa di celato, ma che non poteva nasconderle.
All'inizio
non le importava. Non le importava nulla, neppure sé stessa
era importante. Avrebbe voluto scivolare nel baratro su cui era
sospesa da tempo. Ma lui l'aveva aiutata e poi l'aveva accolta nella
sua casa.
Era una
casa isolata, di legno, nella periferia di Edge. Sembrava molto
antica e lui le aveva assicurato che si trattava della prima casa
costruita nella zona. Le ricordava la casa di campagna in cui aveva
trascorso la propria infanzia, ma non aveva fiori. Gliel'aveva detto,
una sera, a cena ed il giorno dopo, come per uno strano incantesimo,
il giardino era stato inondato da piante e fiori.
Aveva
scoperto di essere abbastanza brava con i fiori ed era passata a
seminare verdure in un orto che era diventato sempre più
grande e che occupava le sue mattine.
In
seguito fece un'altra scoperta: non riusciva a stare con le mani in
mano tutto il giorno, sentiva il dovere, il bisogno di fare qualcosa
per lui. L'aveva gradualmente sostituito nelle faccende domestiche,
ma anche questo non aveva riempito completamente le sue giornate. In
più, stava diventando sempre più rapida a svolgere le
proprie occupazioni. In due ore, al massimo, si occupava del giardino
e delle pulizie, poi cucinava e si sedeva a terra. Il più
delle volte guardava gli scaffali e cercava di ricordare.
Ma non
c'era altro che Lucrecia in lei. Ancora ed ancora riviveva la sua
vita, a volte con indifferenza, ma sempre più spesso con una
sofferenza profonda. Poi un giorno lui l'aveva trovata in quella
posizione ed aveva deciso di portarla con sé alla WRO.
All'inizio
le questioni del mondo non le erano interessate più di tanto.
Aveva tanto da recuperare, frammenti di memoria, frammenti di sanità
mentale, stralci di normalità. Che gli altri avessero problemi
le sembrava normale, ma non si sentiva in dovere di aiutarli.
Poi lui
aveva trovato dei documenti che la riguardavano ed era quasi morto
nel tentativo. E le aveva fatto capire che era importante provarci.
Non avrebbero mai costruito un mondo in pace ed armonia subito, ma
aiutando chi aveva bisogno di tornare alla normalità,
esattamente come era il proprio caso, avrebbero posato un piccolo
mattone.
A
questo rifletté al suo capezzale, a lungo, con la sua aria
indifferente. Dentro a lei cominciavano ad agitarsi sentimenti
diversi, ma tutti sembravano identici.
Si era
buttata a capofitto nel lavoro, ammalandosi ma portando a termine
missioni che a molti erano sembrate impossibili. Era, in qualche modo
contorto, felice di questo. Ma le mancava qualcosa. E poi si era
ammalata e lui l'aveva costretta a casa. Lui che non si fermava
neppure con la febbre alta.
Lui che
aveva cominciato a perdere la sua luce quando tornava a casa, lui che
aveva cominciato ad evitarla. Lui... Reeve.
Aveva
iniziato ad uscire di casa quando lui non c'era, da sola. Le strade
la spaventavano, la folla sembrava volesse inghiottirla. Ma lei
camminava, ogni giorno un metro in più. Finché non si
era ritrovata davanti a quella vetrina, incuriosita dai suoni che
provenivano dal suo interno. Era un negozio di pianoforti, le spiegò
il commesso, con aria gentile. Era cresciuta, ma non riusciva a
dimostrare più di tredici anni.
Era
rimasta ad osservare un signore burbero che provava un pianoforte a
coda e si lamentava del suono e di altro per un po', poi aveva
seriamente riflettuto ai sentimenti che quel suono così strano
provocava in lei. Un misto di angoscia e qualcosa che riusciva a
farla sorridere. Qualcos'altro l'aveva fatta già sentire così.
Ma non sapeva cosa. Forse era tra i ricordi di Lucrecia.
Quando
era tornata a casa si era seduta a terra ed aveva tentato di
ricordare il suo passato, come aveva ripreso a fare da quando non
lavorava. Dal fascicolo che lui aveva recuperato aveva estrapolato
molte notizie su di esso, ma ancora non riusciva a ricordare. Anche i
ricordi di Lucrecia erano scomparsi, a poco a poco.
Tornò
sempre più spesso al negozio ed a poco a poco le sembrò
di riuscire a comprendere quegli oggetti bizzarri. Forse anche lei
sarebbe stata capace di suonare, pensava. Ma non poteva parlare a
Reeve delle sue uscite segrete... non poteva chiedergli un
pianoforte.
Non
aveva il senso del denaro. Aveva sempre vissuto senza e non aveva
ancora compreso il vero senso di quei fogli di carta antiigienici.
Accadde
che un giorno rimase troppo al negozio e si accorse di essere in
ritardo. Si affrettò a tornare e trovò Reeve seduto al
tavolo della cucina. Fu sorpresa nel vedere che piangeva. Non aveva
fatto rumore entrando e forse non si era accorto di lei. Che cosa
poteva essere successo? Forse i suoi genitori...
-Reeve?-
In un
attimo si ritrovò tra le sue braccia, stretta fino a quasi
soffocare.
-Oh
Shiva grazie, credevo te ne fossi andata! Ero talmente preoccupato!-
Sentì
all'incirca quello che provava quando ascoltava il pianoforte e
questo la sorprese. Reeve non era un pianoforte e non suonava.
Percepì il bisogno di alzare le braccia e posarle sulla sua
schiena, perché era caldo e si sentiva... bene.
-Dove
sei stata?-
-Nel
negozio di pianoforti.-
-Negozio
di...?-
-Pianoforti.-
La
fissò, incredulo e fece un passo indietro. Poi sorrise: -Non
mi avevi detto che uscivi di casa da sola.-
Non
sembrava arrabbiato. Non aveva fatto nulla di male, allora. Sentì
il senso di colpa svanire e piegò le labbra in un fugace
sorriso. Si sorprese del proprio gesto, ma scoprì che era
stato... bello. Ed era stato Reeve a farla sorridere. Almeno le
sembrava. I due eventi si erano seguiti. Rifletté per qualche
secondo, per poi fare un passo avanti e cingere l'uomo con le
braccia. Lui rimase immobile, per cui si scostò
immediatamente. Non era una cosa da fare, se non quando qualcuno si
era perso, notò mentalmente.
Da quel
momento in poi lui era tornato dal lavoro sempre più tardi e
lei aveva scoperto tre cose: le soap opera, internet e qualcos'altro,
un sentimento che aveva identificato con la malinconia. Internet era
stato un valido aiuto in questa ricerca, anche se aveva impiegato
mesi a comprenderne il funzionamento. Di solito si collegava alla
macchina e la leggeva in codice binario e tutte quelle schermate
colorate l'avevano confusa.
Aveva
scoperto grazie alle soap opera il valore dei soldi. Erano
importanti. E le persone si uccidevano per averli in eredità.
Aveva consultato il suo conto in banca ed aveva avuto la sorpresa di
scoprire che in due anni di lavoro alla WRO aveva guadagnato
abbastanza da comprare un pianoforte. Molto di più di quello.
Per cui aveva fatto ciò che le sembrava normale e ne aveva
comprato uno. Ricordando gli insegnamenti di Beautiful, aveva
investito un terzo della sua fortuna e mandato il resto alla WRO, in
beneficenza. Non voleva che nessuno la uccidesse per l'eredità.
Sfortunatamente
per lei, la borsa le aveva fatto guadagnare il triplo di quello che
aveva investito, quindi, stizzita, aveva ripetuto la procedura, nelle
settimane che avevano preceduto l'arrivo del pianoforte che aveva
ordinato. Prima di arrendersi all'evidenza che forse il suo futuro
era nel gioco in borsa, ripeté la procedura per un totale di
tre volte. Poi, presa dalla rabbia, aveva rinunciato.
Ed,
intanto, il pianoforte era arrivato. Ancora una volta, aveva deciso
di nascondersi per studiarlo. Ma nascondersi era sempre più
semplice, perché raramente Reeve, ormai, tornava a casa. Le
aveva parlato di una crisi a Mideel e lei l'aveva ascoltato in
silenzio, suonando sul tavolo la Patetica di Beethoven. Era una
musica che aveva imparato in fretta, perché le ricordava la
malinconia che provava quando vedeva lui. E poi c'era stata la Sonata
al Chiaro di Luna ed altre ancora... Aveva imparato con una facilità
impressionante ed era stato altrettanto semplice riuscire a farsi
trasportare dalle note. Più volte si era ritrovata in lacrime,
senza sapere perché.
E poi,
a mano a mano che suonava, a mano a mano che si vedeva crescere,
aveva capito. Era stato come un fulmine a ciel sereno, una
folgorazione, la soluzione di tutto.
Aveva
trasportato il pianoforte nella sala, decisa a non nascondersi più
ed aveva aspettato. In realtà era salita nella propria camera
e si era preparata. Da tempo aveva comprato un abito come quello
delle pianiste che si esibivano in televisione: era verde, lungo e
leggermente scollato, di taffetà. Il tipo di abito che non
avrebbe mai indossato se non per andare ad un occasione mondana. Non
sapeva neppure perché aveva deciso di comprarlo, ma l'aveva
fatto ed in quel momento era contenta di averlo fatto. Mentre
spazzolava i capelli, ormai lunghi, tentò di scacciare dalla
memoria l'ultima immagine che aveva di sua sorella. Gli incubi le
bastavano.
Aveva
visto alcuni concerti ed aveva visto le acconciature delle musiciste,
ma non aveva nessuna idea di da dove partire. Per cui li lasciò
sciolti. Il trucco era già qualcosa di più semplice,
perché aveva imparato da tempo.
Erano
le dieci di sera, due ore prima del suo ventiquattresimo compleanno,
quando scese nella sala e si sedette al pianoforte. Non era neppure
sicura che sarebbe tornato, ma non aveva mai mancato un solo
compleanno, da quando la conosceva.
Non
l'aveva mai delusa, da quando si conoscevano.
Improvvisò
qualcosa, una musica triste, malinconica.
A
mezzanotte e mezza guardò il pendolo della cucina e si versò
un bicchiere d'acqua. Non sarebbe tornato.
Si
sedette nuovamente ed ricominciò a suonare. Le immagini dei
suoi giorni negli Zviet le passarono davanti agli occhi. Suonò
la Sonata Waldstein con rabbia, ricacciando indietro le lacrime e per
questo motivo non sentì la porta d'entrata aprirsi.
Vide
solo il pacchetto poggiarsi sul pianoforte e s'interruppe. Si voltò
verso di lui e gli saltò letteralmente in braccio.
-Hai
comprato un pianoforte. E lo sai anche suonare...-
Gli
sorrise, fiera del proprio lavoro. Aveva suonato fino a farsi male,
per riempire il silenzio intorno a lei ed era contenta che lui
apprezzasse i suoi sforzi.
-Hai
una richiesta?-
Lui
stette a fissarla per un po', senza parlare. Poi la lasciò
andare. -Mi dispiace, Shelke, ma forse sarebbe il caso che tu andassi
a dormire. E' molto tardi e sono esausto. Sarò contento di
ascoltarti domani.-
Abbassò
la testa e si concentrò sui pedali, ma non riuscì a
trattenere le lacrime. Aveva fatto tutto questo per lui e lui non
capiva. E lui ancora non voleva... Non voleva vederla.
-Shelke...
Se ci tieni così tanto ti ascolterò, ma non piangere...
Non riesco... Non riesco a sopportare il fatto che tu pianga.-
Tornò
a fissarlo. Di nuovo quella preoccupazione nel suo sguardo e le sue
mani non la smettevano di tormentarsi. Le afferrò e le
accarezzò con i pollici. Sentì uno strano calore alla
bocca dello stomaco, che aumentò quando lui copiò il
gesto.
-Non
fissarmi, è imbarazzante.- sussurrò lui, distogliendo
lo sguardo.
-Cosa è
imbarazzante?- chiese, sorpresa. In cosa fissarlo era imbarazzante?
Voleva solo capire cosa stesse pensando.
-Sai
almeno quanti anni ho?-
-Sessanta?-
-Come
sessanta?!-
-Vincent
Valentine comincia ad avere i primi capelli bianchi, come te e ne ha
sessanta.-
-Ho i
capelli bianchi?!-
Lei,
innocente com'era, glieli indicò con attenzione, evitando
accuratamente di dimenticarsene fosse solo uno. Cosa che,
sorprendentemente, lo mise di cattivo umore.
-Appunto,
sono un vecchio! Ho quarantatré anni, Shelke.-
-Sei
più giovane di Vincent Valentine.-
-Cosa
c'entra Vincent Valentine, ora?!-
-E' il
mio metro di riferimento per l'età.-
-Ma è
completamente sbagliato!-
-Ah sì?
In effetti mi sembrava strano fossi più giovane ed avessi i
capelli bianchi. Anche Sean Connery ha i capelli bianchi, sai?-
-Perché
devi elencare tutti questi uomini ora?!-
-Ma ne
ho elencati solo due, Reeve...-
-Sono
già troppi!-
-Troppi
per cosa?-
-Smettila
di essere così innocente!- sbottò improvvisamente il
capo della WRO, allontanandosi da lei. -Non ne posso più...-
Si
sedette sullo sgabello del pianoforte e deglutì a fatica. La
stava cacciando di casa, dicendole che non la sopportava più.
Non le sembrava di aver fatto nulla di male.
-Mi
dispiace...-
-No,
non è colpa tua... Sono io che sono terribilmente sbagliato...
Non dovrei provare quello che provo per te.-
-Invece
mi odi...-
-Ma chi
ha mai detto questo?! Shelke io non ti odio! Io... Ma tu sei una
bambina.-
-Ho 24
anni.-
-Ne
dimostri forse 16.-
-E
quindi? Perché non vuoi guardarmi?-
-Non
è...-
-Mi
eviti.-
Lui
abbassò la testa e sospirò. -Non riesco a guardarti.-
-Perché?-
gli chiese, avvicinandoglisi. Gli appoggiò le mani sulle
spalle e si appoggiò al suo petto. -Il pianoforte mi rende
felice, sai? Ma anche tu mi rendi felice. Hai un profumo particolare,
un profumo che mi manca quando non ci sei. Ed ultimamente non ci sei
mai... Perché?-
-Perché
da quando ti ho incontrata, non mai smesso di pensare che avrei
voluto fare questo...- sussurrò Reeve, chinandosi per poggiare
le labbra su quelle dell'ex Zviet. Un bacio. Un bacio era... qualcosa
di speciale, aveva letto, che si dava di solito quando si amava.
Reeve la amava? Che tipo di sentimento era quello?
Rimase
immobile, rigida, senza quasi respirare e quando lui fece un
ulteriore passo indietro, ricominciò a fissarlo negli occhi.
Stava cercando di capire. La gioia e la malinconia che aveva provato
durante quel bacio... Erano forse la prova che aveva cercato a lungo,
mentre suonava quella che era diventata presto la sua canzone?
-Posso
suonare qualcosa che mi fa pensare a te?- gli chiese. -Per favore.
Dopo ti lascerò andare a dormire.-
Lui si
accontentò di annuire e non si mosse. Suonò quella
composizione originale, cercando di essere perfetta, ma era
imbarazzata e sbagliò un paio di volte. Ma riuscì a
riordinare le idee e si ricordò dell'angoscia che provava
quando lui non c'era, della felicità di vederlo tornare, anche
se per poco, anche se non la guardava neppure. Verso la fine della
composizione lo sentì cingerle la vita e s'interruppe per
guardarlo. Era in ginocchio, accanto a lei e sembrava non volerla
lasciare andare.
-Penso
che sia la più bella dichiarazione d'amore che mi abbiano mai
fatto, ma è triste.-
Sorrise
e riprese a suonare, modificando la musica. Non doveva più
essere triste, dopotutto, lui... Accelerò il ritmo verso la
fine e terminò di nuovo lentamente.
-Va
meglio? E' sempre bella?-
Lui
annuì e si allontanò di poco, così che lei ne
approfittò per chinarsi e restituire il bacio.
-Non
voglio figli.-
-Cosa?!
Pensavi li volessi subito?!-
-Nono,
non li voglio proprio. Ridge lo dice sempre che vogliono solo
ucciderti per avere l'eredità.-
-Ridge
di Beautiful?-
-Sì,
lo conosci?-
-Ma che
razza di programmi guardi, Shelke?!-
Una
bella fan fiction su Shelke, è tanto che non ne scrivo! E'
sempre difficile scrivere dal suo punto di vista, perché,
dopotutto, è una ragazza che non ha idea di cosa significhi
vivere normalmente... e di Reeve, inoltre, non si capisce molto, dal
videogioco. Sì, è un pacifista, abbraccia gli alberi e
ricostruisce il mondo, ma quando arriva a casa che fa? Ce l'ha Sky?
(perché lui sì e io no?) Berrà anche lui il
caffè o preferisce il tè? Mi direte “meglio, se
non si sa niente, puoi caratterizzarlo come ti pare”, ma no, io
queste cose le devo sapere, se no non so da dove partire! E qui sono
partita dal fatto che sia perdutamente innamorato della hacker che
legge il codice binario come se fosse il giornale (entra nei pc come
se nulla fosse, quindi, dovrà pur saperlo leggere!) e che si
senta un po' imbarazzato dal fatto che lei dimostri molto meno
dell'età che ha realmente. Che poi non è che in DOC
Shelke somigli tanto ad una bambina... Marlene somiglia ad una
bambina, Shelke proprio per niente!
Dite di
dire qualcosa di utile? Bé, chiedo scusa per aver infilato
ovunque Beethoven, ma io amo quell'uomo e le sue composizioni sono
veramente belle. Avrei potuto semplicemente farle ascoltare della
musica pop, senza andarmi ad inoltrare nella musica classica (l'unico
strumento che suono è la chitarra di Guitar Hero), nei vari
cantabile, adagio, allegro, depresso (l'ultimo è messo a
caso)... Ma ovviamente la storia va come le pare e io sono solo una
povera scrittrice senza mezzi chiusa in una stanza di 9 m2 a 900
chilometri dal suo appuntamento giornaliero con Star Trek... Come?
Dopo questa scenata non volete farmi una donazione con Paypal?!
Sigh... Almeno commentate! ps: Un ringraziamento speciale và alla mia beta reader Kay, che ha amato la storia...
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