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destinazioni
(storia di
un’ora)
Al di là di
St. Stephen’s Green, pensava, non esisteva più nulla. Al di là della cartolina
in un parziale e argenteo bianco e nero che si rigirava tra le dita da più di
un’ora, non viveva più. Smettere di respirare sarebbe stato semplice, molto meno
faticoso e doloroso dell’indecisione che le accarezzava i capelli come la lama
di una spada sospesa sulla sua testa. Le curve dolci, tondeggianti ed esili della panchina su cui sedeva, allungavano le proprie ombre sulle maniche
del cappotto verde scuro: sembrava l’unico accenno di primavera lì, in quel
parco, in pieno autunno. Un fiore sbagliato nato troppo presto. Un fiore
sconosciuto.
Dieci mesi
fa, quando aveva chiuso la porta della propria stanza in Italia si era detta che
avrebbe preso a piene mani tutta la pioggia e tutto il sole che il cielo di
Dublino avesse deciso di regalarle: che poi la pioggia le fosse penetrata nel
cuore, più che nelle ossa, era una cosa che non aveva messo in preventivo, ma
aveva fatto in fretta ad abituarsi a quel tempo così variabile – pioggia, vento,
sole, arcobaleno, temporale, vento, il
cielo terso di nuovo la pioggia -, le era venuto naturale come il camminare
per ore, come il vivere per anni.
Nella
cartolina una bambina con un cappotto rosa antico sostava di fronte al lago
innaturalmente azzurro del Parco (gli unici due colori di quella costosissima
stampa) e tendeva la mano verso la testa di un cigno: era decisamente una
bellissima immagine, di gran classe e gusto. L’aveva scelta perché era sicura
che lui avrebbe apprezzato, gradito, forse anche capito. Se quella bambina poi avesse
potuto viaggiare fino a lui (che ora era così lontano, così lontano) e parlare
al suo posto, e spiegargli tutto, e portargli il suo abbraccio più caloroso
sarebbe stato magnifico. Ma i miracoli non accadono mai alle persone normali, e
non c’è salvezza al mondo per gli indecisi.
St.
Stephen’s Green era una grande oasi verde e fresca in estate. In primavera un
tesoro di fiori. In inverno un grigio luogo misterioso pieno di infreddoliti
tipi umani. In autunno una visione infuocata. E lei lo preferiva in quei mesi
freddi, quando non c’erano due foglie dal colore uguale e spogliandosi, a casa
davanti allo specchio, ne ritrovava frammenti tra i capelli e sul corpo. Dentro
di lei scintillavano le ustioni che i rami lasciavano sfiorandola: quei segni,
dentro la sua anima, erano come guide luminose nel mare di notte quando una
cappa di tenebra immensa scende e il suono delle onde è terrificante quanto
quello di un carillon rotto.
Rigirò di
nuovo la cartolina, abbandonando per un momento la bambina e la sua mano tesa
verso quel cigno dal collo ritto, regale, maestoso, non bianco ma grigio e
ripercorse le volute della sua grafia sulla carta smagliante. “…e al di là di tutto, tu sai che…”
Soffiò una risata e poi grattò via una macchia di cioccolato dal suo
cappotto, con il risultato di sporcarlo ancora di più. E se invece avesse
buttato in quell’acqua nera quelle parole? Perché non mangiarsele? O farle in
mille pezzettini e seppellirle insieme alle altre foglie, con il fango e il
vischio finché un’amabile scopa di saggina non le avesse fatte sparire per
sempre.
Una bella
stampa. Una bella stampa. La bambina si sporgeva fino a toccare l’acqua, la mano
sospesa sul grigiore lunare del cielo e il forte azzurro del lago artificiale;
il cigno restava immobile inarcando il collo. Niente da fare, non riuscivano a
toccarsi. Le ali erano due ombre ripiegate sul suo corpo. La curva ad esse
incombente ed irraggiungibile come un ordine.
Andar via
non era stato difficile. Anzi, era stato liberatorio e tranquillo come saltare
un fosso. Esaltante come il fuggire: la vigliaccheria non era poi un modo di
essere così banale, aveva scoperto. Era solo un dire arrivederci in maniera
diversa e meno conclusiva.
Non l’aveva
salutato prima di andarsene; avevano entrambi addotto scuse plausibili quanto
false, in egual misura. Avevano cercato una complicata semplicità, si erano
ritrovati con le mani vuote di artifizi. Partire era l’unica soluzione, e poi
ormai lei era grande, no? Era grande, grande, più grande della bambina in rosa
(ecco perché la cartolina sembra così
antica, pensò all’improvviso, perché
appartiene ad una me bambina che ora non esiste più più più) quel giorno
compiva ventiquattro anni e lui, che era così lontano da lei ne compiva
quarantadue. Buon compleanno, questo è il
mio biglietto d’auguri! Se solo la bambina riuscisse a sporgersi ancora un
po’ di più, ancora un po’…
Uscita da
St. Stephen’s Green, la costruzione vittoriana del centro commerciale del parco
l’aveva salutata con immensi sorrisi di vetro. Il tempo andava scurendosi di
nuovo: imboccò Grafton Street rallentando il passo, pensando che si sarebbe
bagnata comunque, che non ci sarebbe stato riparo per lei questa volta, perché
l’ombra possente di quella nuvola presagiva un temporale contro cui nessun
fragile ombrello avrebbe potuto opporsi. E ad un tratto tutta la strada diventò
nera, nera d’ombra di mille ombre e tutti correvano a destra e a manca per
ripararsi nei negozi, nei pub, pochi mantenevano un’andatura più lenta, dieci
minuti e si ritrovò sola sotto la pioggia d’ombra che la bagnava, sola sotto
quell’ombra di tenebra immensa, quella nuvola soffice e ruvida e pesante, grande, grande, e vecchia, tanto
vecchia, tanto grande.
Pochi passi
e arrivò alla buca delle lettere, verde come il suo cappotto. La doppia scritta
in inglese e in gaelico si distingueva appena sotto la cortina di pioggia: la
cartolina, poi, si era tutta irrimediabilmente bagnata. Chissà cosa sarebbe mai
riuscito a leggere lui, a questo punto. Alzò le spalle, guardò di nuovo tutta
quella ombra, poi spinse la cartolina (la
bambina, la sua mano tesa nel buio verso il cigno grigio e bianchissimo, il suo
collo sottile e distante, così distante) nella buca contrassegnata come ALL
OTHER PLACES e poi se ne andò
via.
~
All’Anima
mia. A te, Livia, che sei esattamente metà di me stessa. Se mai avrò una figlia
vorrei poterla crescere come, in qualche modo, ho la presunzione di pensare di
aver fatto con te. Se in qualche modo sono stata davvero la tua maestra, se in qualche lontano modo e in
qualche tempo ancora più lontano, sono riuscita ad essere qualcosa di più che di
un’amica di internet, allora posso
dirti di essere felice. Felice, tanto felice, perché tu sei l’anima mia, e sei
Livia sempre, e ci sono cose che solo
tu potresti capire e che sono orgogliosa di te, orgogliosa e piena di amore. Ti
voglio bene, buon compleanno. <3