AIKO
Autrice: Soffio d’argento
Serie: nessuna, è un original.
Rating: non saprei... sono
proprio una frana ^^.
Capitolo: primo o forse unico.
Declaimers: i pg sono miei e
solo miei *_*! Naturalmente non ci guadagnano -///-.
Note: è la mia prima yuri in
assoluto. Non so perché l’abbia iniziata, so solo che ho seguito la scia di un
pensiero e l’ho immaginata passeggiando.
Note di versione: capitolo
betato! Ringrazio la mia carissima beta-rider e le porgo il mio più caro
benvenuto nel mio piccolo mondo!
Dediche: alla sis, sperando che
abbia il coraggio di leggerla ^^.
Dedica personale: alla mia beta
Shotokan. Grazie di tutto!
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<< Sai cosa significa il mio
nome nella mia lingua? >>
Alzai lo sguardo dalla rivista
che stavo leggendo distrattamente e la guardai perplessa. Aiko stava ancora
leggendo un manga in lingua originale. Era distesa accanto a me sul gran letto
matrimoniale e masticava un bastoncino di liquirizia.
Era la prima volta che mi
parlava apertamente di qualcosa che riguardava il suo passato.
Senza attendere una risposta e
senza neppure sollevare lo sguardo dal manga, mi disse:
<< Frutto dell’amore. Non credi
che sia un bel nome? >>
Mi sollevai sui gomiti per
guardarla meglio. Indossava degli short gialli, di quel giallo che nella luce
abbagliante del sole diventa quasi bianco, e una camicia di lino. Era supina e
le gambe, piegate sulle ginocchia, ciondolavano avanti e indietro come il collo
di un serpente.
<< E questo da dove ti esce? >>
<< L’ho letto su questo manga e
mi è venuto in mente. La protagonista si chiama come me. >>
Tornai a guardare la rivista che
avevo tra le mani. L’articolo che, svogliatamente, facevo finta di leggere,
parlava delle relazioni omosessuali. Soffocai uno sbadiglio con la mano destra,
mentre con la sinistra continuavo a sfogliare il giornale.
<< Non capisco perché compri
questi giornali se poi non ti piacciono. >>
<< Non ho detto che non mi
piacciono, è solo che mi annoiano dopo un po’. >>
<< Cioè dopo averli aperti. Ti
va del tè? >>
Quando conobbi Aiko, lei
lavorava in un bar con sala pub nelle ore notturne. Ero andata lì per
festeggiare il mio compleanno con alcuni amici e la notai subito. Sembrava
piccolissima dietro il bancone del bar. Agitava con estrema leggerezza lo shaker
e pareva avesse un discreto successo con i ragazzi che frequentavano
abitualmente quel locale. Vestiva una camicia bianca
e dei pantaloni neri. Niente d’eccezionale quindi, ma indosso a lei sembravano
d’oro.
La musica di sottofondo era
molto bassa e a volte veniva sovrastata dal vociare sommesso dei tavoli vicini.
Non so perché, ma in un primo tempo non riuscii a toglierle gli occhi di dosso.
Mi chiedo, adesso, se già non
fossi caduta nella ragnatela del fascino che riusciva ad emanare.
Aveva i capelli rossi, così
accesi da sembrare fuoco vivo, e un trucco forse un po’ troppo pesante, ma che
le conferiva l’aria di una bambola di porcellana. Quando, forse richiamata dal
mio sguardo incessante, sollevò gli occhi verso di me, per un attimo mi sentii
persa. Era come fossi stata attraversata da una leggera ma costante scarica
elettrica. Mi chiesi se fosse quello ciò che si provava ad innamorarsi di una
persona.
Quasi avesse capito il mio
smarrimento, mi sorrise come a volermi dire: non preoccuparti, non è successo
nulla. Eppure qualcosa era accaduto.
Quella sera bevvi davvero molto.
Ero così brilla da non capire chi fossi e dove mi trovassi. I miei compagni
ridevano di me, ma di questo ben poco m’importava. Era
la prima sbronza della mia vita e il mal di testa che ne sarebbe seguito lo
avrei ricordato ogni volta che avessi cercato di bere qualcosa d’alcolico.
Quella sera uscimmo dal locale
che era quasi mattino. Girovagammo in cerca d’aria per un’oretta, poi, quasi
fossi stata richiamata da qualcosa, mi
ritrovai davanti al pub.
In quel momento uscì lei, di
corsa, e mi venne vicino. Mi spostò con la sua mano sinuosa una ciocca di
capelli che mi ricadeva sul viso e mi sorrise. Disse solo che sapeva che sarei
tornata lì, per lei. Mi prese per mano e mi accompagnò a casa. Le auto che,
facendo rumore, ci passarono accanto nel silenzio della notte, sembrarono
lucciole ai margini del bosco.
<< Il tè è pronto. Ti ho portato
pure dei cioccolatini. >>
Aiko aveva, a mio avviso, un
fascino innato. Apparteneva a quella categoria di persone che possedevano dentro
di sé un po’ di magia. Non aveva il potere della telecinesi, non si spostava da
un luogo all’altro fluttuando nell’aria, ma ogni suoi gesto sembrava far
brillare mille luci colorate. Mi ricordava quei personaggi dei cartoni animati
che vedevo da bambina, dagli occhioni grandi e dalla vita incredibile.
Aveva un viso piccolo, ma con
lineamenti aggraziati e la sua pelle era così liscia che avrebbe benissimo
potuto fare la modella per una marca di cosmetici, invece di lavorare in quel
bar.
<< Stavi pensando a quel giorno,
vero? Al giorno in cui ci siamo incontrate. >>
Questo è ciò che io definisco
magia.
Sapeva leggere nel mio pensiero
in qualsiasi momento della giornata, persino durante la notte.
A
volte capitava facessi degli strani sogni che mi mettevano dentro un angoscia
così grande da forzarmi a svegliarmi. Allora mi alzavo silenziosamente
dal letto e aprivo la finestra lasciando che il rumore della città assonnata
entrasse prepotentemente nella piccola stanza. I pensieri delle persone che
dormivano nel nostro stesso palazzo fluttuavano come fantasmi fra le strade e mi
pareva di scorgere, in ogni sogno che assaporavo, una nota lontana di
malinconica tristezza.
In quelle notti rimanevo sveglia
fino all’alba, perché il riaddormentarsi risultava impossibile. La finestra
aperta lasciava entrare i pensieri di chi viveva o passava nelle vicinanze e
questi si intrufolavano nei miei, prendendone possesso. Così mi capitava di
pensare a cose stupide, come, per esempio, sarebbe stato il tempo il giorno
dopo, oppure se nel cioccolato mettessero davvero quelle sostanze pericolose,
gli OGM. Tutti pensieri a me estranei ma che, in quel momento, sembravano
appartenermi più del colore dei miei capelli.
Dopo aver lasciato che la mia
mente avesse assorbito tutta l’oscurità della notte, provavo ad alzarmi e la
osservavo. Aveva gli occhi aperti e mi guardava con dolcezza. Il chiarore del
lampione all’angolo le illuminava i fianchi avvolti dal lenzuolo e il suo
sorriso brillava come quello delle bambole di porcellana. Allora mi allungavo
verso di lei e mi sdraiavo di fronte. E restavamo così. A guardarci. Tutta la
notte. Finché i nostri occhi si chiudevano e ci riaddormentavamo, con le mani
strette.
Dormire assieme a lei mi
riempiva di serenità.
Era un’altra delle sue magie,
l’infondere serenità.
Era una sensazione talmente
forte da legarti a lei con un solo sguardo.
Amavo percepire il suo respiro
che si mescolava al mio, il profumo dei suoi capelli morbidi, le sue dita
piccole e affusolate che stringevano le mie, le sue labbra che sapevano di
fragola.
Mi piaceva tutto di lei. E
questo mi terrorizzava.
Ne ero quasi ossessionata, come
non potessi farne a meno. Non avevo mai provato stati di dipendenza in passato,
non avevo mai fumato, né fatto uso di droghe di alcun tipo, eppure provavo
qualcosa di simile quando stavamo insieme.
Dipendevo da lei quasi a livello
maniacale.
Mi capitava spesso di pensare ad
Aiko, anche quando lei era con me.
Chissà se le piacerà… chissà
cosa direbbe Aiko… chissà come le starebbe…. Aiko… Aiko… Aiko.
A volte la odiavo, tanto n’ero
presa. La odiavo perché mi faceva stare così, sospesa fra mondo reale e sogno.
Incerta, debole, vulnerabile. Tutte sensazioni che, fino ad allora, non avevo
provato, o almeno non nello stesso momento.
Era come un tifone che spazzava
via ogni mia certezza. Come un uragano che faceva strage di me e dei miei
sentimenti. E come il sole, che tornava dopo la tempesta delle mie emozioni.
Come il sole che splendeva e mi riscaldava. Il punto fermo attorno al quale
ruotava tutta la mia vita.
Aiko….
Quando era lei a pronunciarlo
assumeva un suono particolare, come il rumore di un campanellino.
Aiko…. Amore…. Due parole che,
inevitabilmente, mi riportavano alla stessa persona.
Un suono, tre sillabe, un
universo intero. Pieno di stelle e pianeti, luci e oscurità.
Aiko non mi parlava mai del suo
passato. Non sapevo cosa ci facesse qui, né chi fossero i suoi genitori. Sapevo
che ogni volta che provavo a farle qualche domanda, si mordeva le labbra e
capivo che non era ancora il momento. Lei allora si alzava e andava ad accendere
la tv. Sapevo che non guardava nulla, ma che, in quel momento, cercava di
respingere una parte di se stessa che avrebbe voluto dimenticare, una parte del
suo passato che avrebbe voluto cancellare. E io mi sentivo colpevole, perché
nonostante la sua sofferenza mi procurasse dolore, avrei voluto scoprire di più,
avrei voluto farle domande su domande. Avrei voluto scavare in quel pozzo
profondo nascosto dietro il suo sguardo sfuggente.
In quei momenti non sapevo che
fare.
A volte mi sedevo accanto a lei,
semplicemente, e la guardavo cambiare canale in continuazione.
Altre volte mi alzavo ed uscivo
e il rumore della città attutiva quello della mia coscienza. Dimenticavo le
domande che volevo farle e mi sentivo meglio.
Altre, invece, restavo a
guardarla.
Mi sentivo incapace di agire.
Avrei voluto che vi fosse un
manuale in proposito. Avrei voluto sapere cosa fare, cosa dire, ma finivo sempre
per agire nella maniera sbagliata.
Avrei voluto che fosse solo mia,
con ogni suo pensiero ed ogni tassello del suo passato. Ma mi accorgevo che non
si può possedere una persona. La si può amare, le si può stare vicino nei
momenti di sconforto, si può ridere con lei, ma non si può possederla. Per
quanta sincerità possa esserci in un legame, la persona che ami non si concederà
mai del tutto a te. Terrà sempre, in un luogo segreto, una parte di lei che non
vuole farti conoscere.
E Aiko mi nascondeva il suo
passato.
Ogni giorno mi imponevo di
aspettare, di darle il tempo. Ma il tempo per cosa? Cosa nascondeva? Da cosa
voleva tenermi lontana?
Aiko aveva conosciuto i miei
genitori l’estate prima, per caso.
Non mi aveva mai chiesto di
conoscerli, né mai io ne avevo sentito l’urgenza. Volevo che accadesse
spontaneamente.
Un giorno eravamo andate al
mare, sugli scogli.
Ricordo che, quel pomeriggio, il
cielo era grigio e non prometteva nulla di buono. Un temporale estivo,
probabilmente, ma la pioggia mi mette di cattivo umore e di uscire non avevo
proprio voglia. Lei aveva insistito così tanto che temevo si sarebbe messa
presto a piangere. Aiko non chiedeva mai nulla per sé, quindi le rare volte che
accadeva, e con tanta insistenza, non potevo che assecondare ogni suo capriccio.
Avevo preso le chiavi della
macchina e c’eravamo allontanate dalla città.
C’è un luogo, distante qualche
chilometro dalla periferia cittadina, che lei amava in maniera particolare. In
primavera ci andavamo spesso e anche in estate, quando il sole non picchiava
troppo forte. È un angolo di mare facilmente raggiungibile tramite un viottolo
scavato fra faraglioni.
La marea è sempre alta e gran
parte degli scogli è, spesso, immersa. In quei casi scendevamo finché era
possibile e restavamo a guardare il mare, forse un po’ deluse. Ma a volte
capitava che la marea si abbassasse e allora potevamo percorrere quella parte di
viottolo che prima le acque ostruivano, e ci allontanavamo dalla scogliera. Per
quanto fosse pericoloso, ci sedevamo sui massi prospicienti il mare e lasciavamo
che le sue acque, nella lenta carezza del vento, arrivassero a lambirci le
caviglie. Allora Aiko cantava una canzone che non capivo ma che mi metteva
dentro una tristezza sconosciuta.
Cantava nella sua lingua, sempre
la stessa canzone.
“E’ il mare” mi diceva sempre
sorridendo.
Il mare, allora sussurravo, ma
poco importava. In quei momenti mi veniva da piangere.
Non le ho mai chiesto il
significato di quella canzone. Forse se lo avessi fatto mi avrebbe risposto, ma
il terrore che reagisse come sempre mi faceva desistere.
Sono i momenti in cui la mia
incapacità di apparire una persona vera, mi fanno credere di essere inutile, e
forse lo sono davvero.
In fondo che cosa ero? Che cosa
avevo? Un lavoro che mi soddisfava poco, una famiglia che credeva fossi del
tutto impazzita, un pesce rosso che diventava più chiaro ogni giorno che
passava.
A pensarci bene, l’unica cosa
importante della mia vita era lei. Era l’equilibrio, la colla che teneva unite
tutte le mie stesse che, altrimenti, sarebbero fuggite lontano, lasciandomi
nell’oblio. Era il filo che non si spezzava, la sanità nella mia pazzia di
vivere.
Quel pomeriggio di metà estate
incontrai i miei genitori.
Eravamo appena tornate dalla
scogliera e stavamo cercando un parcheggio vicino al ristorante indiano in cui
andavamo spesso. Avevo appena finito di parcheggiare, quando vidi mia madre
venirmi incontro. Indossava un vestito di lino bianco, di quelli che avevo
sempre odiato e che la facevano assomigliare più ad una lampada che ad altro.
Indossava anche quel cappellino rosso che le avevo regalato l’estate prima e dei
sandali dello stesso colore.
Con lei, c’era mio padre.
È stato un momento strano.
Al principio non ci siamo
neppure parlati, limitandoci a guardarci.
Mio padre fissava ostinatamente
il suo sguardo su di me, con quel cipiglio severo che mi aveva sempre mostrato
da bambina, anche se adesso non lo ero più. Mi osservava e io lo sapevo, potevo
leggerglielo negli occhi, mi rimproverava. Ero la vergogna della famiglia, lo
sbaglio incomprensibile. Anche Ai lo aveva letto, mi aveva preso la mano e
l’aveva stretta forte.
Mia madre aveva gli occhi rossi.
Non li vedevo da quando, un
sabato mattina, durante la colazione, avevo rivelato alla mia famiglia che sarei
andata a vivere con Aiko, la mia compagna.
Quanto tempo era passato?
Mia madre mi aveva gettato le
braccia al collo e mi aveva abbracciata, senza dire nulla.
L’avvertivo piangere
sommessamente, non so se per gioia o per dolore, e avevo sentito mio padre
chiamarla con stupore. Io l’avevo abbracciata di rimando con la mano libera,
senza lasciare quella di Aiko. Poi l’avevo trascinata in una stradina secondaria
e lei si era staccata.
“Mi dispiace” aveva detto: “Sono
proprio una scocciatura le vecchie madri, eh?”
“Non sei poi così vecchia, ma
una scocciatura sì.”
E lei aveva riso e io avevo
sentito il mio cuore sciogliersi.
Perché eravamo
arrivati a questo punto? Sapevo e conoscevo la
causa scatenante, ma perché era accaduto, perché c’eravamo allontanati, perché i
miei fratelli e le mie sorelle rifiutassero anche solo di rivolgermi la parola,
per me restava ancora un mistero.
Un anno. Era trascorso un anno
da quella mattina in cui tutto il mio mondo fino a quel momento conosciuto era
andato in pezzi. Cinque minuti solamente.
“Lei è…?” mi aveva chiesto mia
madre imbarazzata, come se si fosse accorta solo in quel momento della sua
presenza.
Lo sai, mi dissi, sai chi è.
Perché fingi di non capire?
“E’ Aiko” risposi comunque.
Lei le sorrise e le porse la
mano. Mia madre l’accolse fra le sue, ma mio padre si rifiutò di accettare
persino il significato di quel gesto.
Del resto della conversazione
ricordo ogni singolo movimento, ogni parola e ogni espressione.
I miei fratelli e le mie sorelle
non mi parlano ancora. Anche loro, come nostro padre, si voltano dal lato
opposto, quando mi incontrano per strada.
Mia madre, invece, venne a
trovarci, qualche mese dopo. Fece un giro della casa, parlò con Aiko di
arredamento e si accomodò a prendere il tè.
Ai quel giorno aveva comprato
dei pasticcini deliziosi.
Ogni tanto mi telefonava e lo
stesso facevo io, al cellulare. Le prime volte si imbarazzava a parlare con Aiko
e, quando a casa trovava solo lei, le conversazioni si chiudevano in breve. Poi
invece mi capitò sempre più spesso di sentirle parlare al telefono del tempo,
della giornata trascorsa. E questo mi rese felice. Sapere che almeno mia madre
mi sosteneva, anche se non mi capiva, mi faceva sentire meno triste.
Avevo Aiko, è vero, ma avevo
avuto anche loro e la consapevolezza di non poterli avere più lasciava, dentro,
un vuoto incolmabile.
Delle volte mi capitava di
sognarli e incontrarli il giorno dopo. Quando li vedevo irrigidirsi e voltarsi
indignati dal lato opposto, non potevo fare a meno di pensare… è davvero con
loro che ho condiviso gran parte della mia vita? Sono stati loro il mio fulcro?
Non mi pensano? Non mi hanno
sognato mai neppure una volta?
Si può smettere di amare una
sorella?
Quel giorno lasciammo i miei
genitori presto. Sentivo l’impazienza di mio padre premere fra di noi e
soffocarmi. Sentivo l’imbarazzo di Aiko. E non potevo non ascoltarli.
Al ritorno dal ristorante Aiko
si andò a sdraiare sul letto.
“Hai una bella famiglia”
“Avevo.”
“La famiglia resta. Nel bene o
nel male è l’unico legame che non puoi scegliere e non puoi cancellare. Un
giorno capiranno e se non lo faranno ci sarò sempre io con te.”
“Sempre?”
“Sempre.”
“E’ una promessa?”
“E’ una promessa.”
Le sue dita affusolate
disegnarono cerchi immaginari sulla mia schiena. Nella camera in penombra,
illuminata solo dalle luci esterne, Aiko mi parve come un’apparizione, un sogno.
Chiusi gli occhi cullata dalle sue carezze e mi addormentai.
L’ultima cosa che ricordo è il
suo respiro sul mio collo e il suo corpo caldo accanto al mio.
“Dove ti ha portato la tua
mente? Lontano da me?” mi chiese sorseggiando il tè.
“Pensavo” le dissi allacciando
le sue dita alle mie.
“Quando pensi ti allontani e mi
lasci sola.”
“Sei la solita sciocca, Aiko.”
Lei mi sorrise, di un sorriso
triste, malinconico.
“Finché sarai con me, io sarò
felice.” mi disse appoggiando la testa sulla mia spalla: “Non lasciarmi andare.
Non gettarmi via.”
“Perché dovrei?”
“Ho sempre paura che tu possa
stancarti di me e…”
“Finché sarai con me non avrò
bisogno di nulla. Sei tu tutto ciò che cercavo.”
“Starai con me sempre?”
“Sempre.”
“E’ una promessa?”
“E’ una promessa.”
Le passai una mano fra i
capelli, nel gesto che riusciva sempre a rilassarla. La sentii tremare un attimo
e poi respirare profondamente.
Aiko era come me e come me lei
aveva paura. Paura di restare sola, paura di perdere tutto… paura di perdere me,
come io lei.
Il futuro… per quanto ci
pensassi costantemente mi limitavo a vivere il presente, eppure se chiudevo gli
occhi e cercavo di immaginarlo, nel buio totale della mia mente, solo una figura
brillava chiara, ed era Aiko.
Fine
Note finali: questa storia è
nata un anno fa, mentre passeggiavo per le vie di Siracusa, riscaldata dai raggi
del sole. Era primavera, credo, ma non ne sono sicura, la mia memoria è come una
barca che affonda. Solo adesso sono riuscita a completarla, ma anche questo
motivo mi è oscuro.
L’avevo pensata come una piccola
serie, ma non sono brava con le yuri, in effetti questa è la mia prima (e forse
ultima?), quindi non so che fare. Merita un continuo o pensate sia meglio
troncarla qui? Voi che ne dite? |