Who’s my
son’s father?
1.The escape of freedom
Non
mi ero mai chiesto cosa le fosse successo dopo averla lasciata ed
essermene andato via. E i vari messaggi a cui non avevo risposto erano
stati decisamente fatali. Chissà cosa sarei ora se invece
avessi risposto.
Dana mi aveva mandato quei messaggi poco dopo che mi fui trasferito a
Londra, ma io non le avevo risposto semplicemente perché
avevo paura. L’avevo appena lasciata, dopo due anni che
stavamo assieme, perché ero dovuto trasferirmi con i miei e
le mie sorelle. E dopo appena un mese non avevo la forza di risentirla.
Se a quel tempo avessi saputo perché mi voleva contattare
probabilmente avrei risposto. O forse sarei stato così
terrorizzato che sarei fuggito in un altro stato pur di non vedere
cos’era successo.
Per fortuna sono ancora qui. Se fossi fuggito non l’avrei mai
conosciuto.
Quando, improvviso come una fitta intercostale, piombò nella
mia vita, io ero placidamente steso sul divano a leggere un libro,
lanciando di tanto in tanto qualche occhiata all’orologio
perché dovevo andare in palestra. Ad un tratto qualcuno
suonò alla porta. Non mi piace mai alzarmi dal divano per
aprire a qualcuno, mi aspetto sempre che siano testimoni di Geova o
venditori porta a porta. Quando aprii, invece, ebbi una sorpresa.
“Ciao!” esclamò una ragazza nel vedermi.
Aveva i capelli corti sparati in tutte le direzioni di un colore rosso
acceso e dei piccoli rasta che le sbucavano da dietro il collo. Portava
un giubbotto blu e dei larghi jeans che ricadevano flosci sulle gambe.
“Dana?” chiesi incredulo. Lei annuì. Non
era cambiata quasi per niente. “Cosa … che ci fai
qui? E’ passato un sacco di tempo … mio Dio. Ma
chi ti ha dato il mio indirizzo?” chiesi leggermente
traumatizzato. La gente non poteva venire a sapere così
facilmente il mio indirizzo, pensavo: qualcuno avrebbe mandato un
kamikaze ad uccidermi!
“Gerome, l’ho incontrato lo scorso sabato e abbiamo
fatto una specie di … rimpatriata fra ex compagni di classe.
Ma scusa, dopo tutto questo tempo nemmeno mi saluti?” chiese.
“Scusa” dissi abbracciandola.
“Meglio?” chiesi, mentre ci dondolavamo goffi sulla
soglia.
“Abbastanza” rispose lei. Ci sciogliemmo e la
invitai ad entrare. “Sai, ti ho visto al cinema”
disse guardandosi attorno.
“Ah, che schifo” dissi io.
“Non lo definirei uno schifo, più che altro
strano” disse guardandosi attorno all’ingresso, con
le mani in tasca. L’accompagnai in salotto e le offrii un
caffè, che accettò volentieri. “Allora
…” disse dondolandosi sul posto come
un’autistica e guardando ovunque tranne che nella mia
direzione.
“Dana c’è qualcosa che non
va?” chiesi sospettoso.
“Perché me lo chiedi?” chiese lei, colta
in fallo.
“Perché mi ricordo come sei. Hai fatto la stessa
espressione e gli stessi identici gesti quando hai distrutto la
macchina di tuo padre, quando avevi perso i biglietti del concerto che
aspettavamo da tre mesi e …” ci pensai un secondo,
“quando siamo finiti davanti al preside per quella storia
della scritta in palestra”.
“Cavolo … non mi aspettavo che ti ricordassi tutte
queste cose” disse stupita.
“Ho una memoria di ferro” dissi compiaciuto.
“Comunque, parla. Mi metti in ansia se fai così,
dì qualcosa”.
“Posso … chiederti una cosa prima?”.
“Si”.
“Perché quando ho cercato di chiamarti, un sacco
di tempo fa, tu non c’eri? Voglio dire … per quale
motivo hai deciso di ignorarmi, forse io dovevo dirti qualcosa
d’importate. Sai, ho passato due mesi interi a cercare di
chiamarti. Ma tu niente, nemmeno una minuscola risposta” la
sua voce era andata in crescendo. Stava cominciando ad incazzarsi di
brutto e la cosa era davvero preoccupante. “Alla fine ho
lasciato perdere, ho perso le speranze perché, sai, tutto
quello che avevo voglia di fare era buttarmi sotto un camion, ma alla
fine avevo paura anche di quello!”.
“Dana ma che cosa dici?” chiesi allarmato. Non
potevo credere che fosse tornata dopo degli anni per dirmi che non
avevo risposto alle sue chiamate.
Dana riprese fiato, sembrava sull’orlo di un collasso
nervoso. “Devo fare un viaggio, ci metterò un paio
di settimane, non di più. Io non vedo più i miei
genitori per … diversi motivi e non posso permettermi di
pagare una persona che gli stia dietro. Sono disperata, e tu sei la mia
ultima possibilità. In più abitiamo relativamente
vicini, a qualche kilometro c’è la scuola, e
…”.
“Aspetta. Tu mi stai scaricando un bambino?” chiesi
incredulo. Mi stavo arrabbiando. Ma era diventata pazza?!
Cioè, questa qui arriva tutta tranquilla dopo anni che non
ci vediamo e vuole che badi a un bambino?! A parte il fatto che ho
mille cose da fare, ma poi non si può fare così!
E’ eticamente scorretto.
Dana sospirò. “Ok, hai ragione. E’ stata
… una cosa stupida” borbottò a testa
bassa alzandosi e stringendosi nel giubbotto. “Devo andare.
Io … mi dispiace per essere venuta a casa tua in questo
modo” disse con voce tremante.
Capii che il vero problema non era quello, così mi alzai e
l’abbracciai. Era sull’orlo delle lacrime e quando
si strinse a me scoppiò a piangere. Credevo di capire la
situazione: Dana aveva un figlio e, a quanto pare, nessuno con cui
lasciarlo. Mi chiesi che cosa avesse fatto della sua vita dopo che me
n’ero andato. Evidentemente si era cacciata nei guai.
Chissà, forse, se fossi rimasto, a quest’ora non
sarebbe successo niente, pensai al momento.
Feci sedere Dana sul divano e la strinsi ancora più forte.
Mi dispiaceva in modo incredibile vederla in quello stato. Da quel che
mi ricordavo lei aveva una personalità forte, non
l’avevo quasi mai vista piangere, al massimo arrabbiarsi. Era
una persona speciale, per questo mi piaceva quando andavamo alle
superiori. Ci avevo messo dei mesi a dirle anche solo che la trovavo
carina, poi alla fine la dichiarazione me l’aveva fatta lei.
Questo si chiama essere veri uomini!
“Robert” biascicò lei. “Tu non
rispondevi, e io avevo paura che non t’importasse
più niente di me, quindi che senso aveva cercare ancora di
incontrati?” disse fra le lacrime. Si sciolse dal mio
abbraccio e si asciugò il viso, prendendo larghi respiri.
Quando si fu calmata disse: “Non prendertela con me. Quando
ho smesso di chiamarti ho pensato che probabilmente, anche se te lo
avessi detto, non ti sarebbe importato. Poi non ci siamo più
sentiti e io non ho avuto l’occasione, ne il tempo per
cercarti e …” aveva iniziato a parlare
più velocemente così cercai di calmarla.
“Dana, aspetta, con calma. Ormai è passato tanto
tempo, non è più un problema” dissi,
senza nemmeno capire bene di che cosa parlasse.
“Robert io non avrei mai voluto chiamarti, tutti e due
avevamo preso una via diversa. Non avrei mai voluto una relazione a
distanza, non era per quello che ti cercavo”, prese a
tormentarsi le mani con lo sguardo basso. “Dopo circa un mese
dalla tua partenza … ho fatto un test di gravidanza che
è risultato positivo”.
“Come?” chiesi alzando le sopracciglia.
Non appena Dana pronunciò quelle parole mi crollò
il mondo addosso. Sentivo talmente tante cose che non sapevo quale
fosse la peggiore, o la più importante. Ero incredulo, dopo
tutti questi anni ti si presenta la tua ex e ti dice che hai un figlio,
insomma, è strano. Poi avevo paura, no anzi, ero
terrorizzato a morte! Io avevo un figlio? Già non sapevo
badare a me stesso, figuriamoci a qualcun altro che dipendeva del tutto
e per tutto da me! Infine ero curioso, e provavo una certa pena per il
bambino, anche se ancora non lo conoscevo. Nella mia mente non aveva
ancora né un volto né un nome, ma la sua sola
esistenza era per me motivo di preoccupazione. Forse, pensai,
è così che si sente sempre un padre, poi scacciai
quel pensiero: se la mia vita doveva essere un’ansia continua
sarebbe stato terribile. Era un po’ come quando ti rendi
conto di aver dimenticato qualcosa di importante e, improvvisamente, ti
ricordi che cos’è ma non hai la
possibilità di tornare a casa a prenderlo: era esattamente
così che mi sentivo.
“Dana …” dissi preoccupato, siccome
nessuno dei due diceva nulla.
Forse quello era tutto uno scherzo di cattivo gusto, un brutto sogno.
Ma certo! Fra poco mi sarei svegliato, avrei guardato
l’orologio, avrei detto cazzo!,
perché ero in ritardo, e sarei uscito di corsa. Ora rimaneva
solo la parte più difficile, e cioè svegliarsi.
“Scusami” disse Dana.
Questo sogno insisteva …
“So che avrei dovuto dirtelo prima, ma davvero, ero
spaventata, non sapevo nemmeno se … se sarei riuscita a
prendermi cura di lui, o se mi sarei buttata da una finestra prima che
nascesse. Io …” le scappò uno sbuffo,
“io andavo al liceo, non avevo idea di come crescere un
bambino. Poi tu non c’eri, chissà
cos’avresti fatto tu, mi chiedevo sempre. Ero sicura che
avresti avuto una risposta”.
“Io?” chiesi scettico. “L’unica
cosa di cui so prendermi cura è un cane” dissi con
orrore crescente. Cazzo, davvero! Non ero capace di fare niente!
“Può anche darsi” disse lei con un
leggero sorriso, “ma mi piaceva pensare che fossi
più preparato di me. O mio Dio” disse sospirando.
“E’ stata la peggiore idea che ho mai
avuto” disse massaggiandosi gli occhi. Dana si
alzò e fece per andarsene.
“Aspetta!” dissi alzandomi. Non volevo che andasse
via. Sembrava che, se se ne fosse andata, con lei sarebbe sparita
persino l’idea di un figlio. “Come si
chiama?” chiesi con voce strozzata.
Dana sorrise. “Si chiama Jonathan, ma tutti lo chiamano
sempre, solo Johnny” disse. “Vuoi …
vedere una sua foto? Ne ho una nel portafoglio, sembra una tradizione
che i genitori si portino una foto del loro bambino sempre
appresso” disse frugandosi in tasca. Prese una piccola
fotografia e me la passò. Con mano leggermente tremante la
presi e la voltai. Non si vedeva bene, era molto piccola.
C’era un bambino dai capelli rossastri, come quelli di Dana,
ma leggermente sul marrone, era chino su un tavolo a disegnare e aveva
un espressione concentrata. “Qui non si vede bene”
cominciò Dana, “ma avete gli stessi occhi. Vi
somigliate in un modo allucinante”.
“Quanti anni ha?” chiesi fissando la foto, ancora
in trans.
“Ne farà sette fra un po’ di giorni. Mi
dispiace un sacco non poter passare il suo compleanno con
lui”. Rimasi in silenzio a guardare la fotografia.
“E’ meglio che vada” disse Dana
allontanandosi, “Quella la puoi tenere se vuoi, magari un
giorno mi chiami, Gerome ha il mio numero. Magari vieni a trovarmi dopo
che sono tornata. A trovarci … a noi” disse.
“Che cosa farai?” chiesi con voce greve, dopo aver
finalmente alzato al testa da quella fotografia.
“Non lo so, vedremo” disse stringendosi nelle
spalle.
Stava andando via. Forse non l’avrei più rivista,
perché di sicuro non avrei avuto il coraggio di chiamarla.
In un impeto di pazzia raggiunsi la porta e la presi per un braccio.
“Dana aspetta”.
“Si?” chiese lei voltandosi.
Deglutii. “Posso tenerlo io” dissi in un sussurro
appena udibile.
Il volto di Dana s’illuminò
d’incredulità e felicità. Mi
gettò le braccia al collo e mi strinse, mentre io me ne
stavo come un perfetto imbecille fermo impalato, e reggevo la foto di mio figlio fra due
dita, come se sgualcirla o strapparla avrebbe significato fare del male
a lui. A quel bambino della foto che nemmeno conoscevo.
“Grazie Robert” disse Dana. “Grazie
mille!”.
“Non è niente” dissi. Poi ci ripensai:
“Cioè, non è vero, è proprio
un casino”.
Dana si slacciò da me e sorrise. “Io parto
Lunedì prossimo, dimmi quando posso portartelo, quando va
bene a te. Ti devo spiegare un po’ di cose”.
Guardai l’orologio. Al diavolo la ginnastica! “Hai
ancora un po’ di tempo? Magari puoi raccontarmi un
po’ … un po’ di quelle cose che mi devi
dire” dissi appoggiandomi con il braccio alla porta.
“Si, è prestissimo. La scuola finisce al
pomeriggio”.
“D’accordo entra”.
Così rientrò. E, al posto suo, sentivo che una
buona parte della mia libertà stava uscendo dalla porta di
casa mia, anzi stava letteralmente scappando, spaventata a morte, per
non tornare mai più. Sarei stato capace di lasciarla andare
così facilmente?
E salve! Eccomi di ritorno con
un'altra storia sul prode Robert Pattinson. Mamma mia, ogni volta che
leggo store su di lui non posso fare a meno di pensare che, se le
leggesse, o si rotolerebbe a terra dalle risate, o ci farebbe causa.
Robert, semmai leggessi questo (anche se non credo) non fami causa.
Bene, dopo questo sclero, qualcosa sulla fic.
Allora, era già pronta da un bel po' questa storia, tanto
che l'ho pubblicata anche su un'altro sito, ma fra tutte le cose che ho
da fare ho deciso di pubblicarla qui su EFP solo oggi. Ma questo
probabilmente non v'interessa. La cosa che v'interessa è:
ero stufa di tutte le storie in cui Robert trova una singolare ragazza,
che fa i mestieri più elementari (fotografa, ballerina,
truccatrice) e si scopre pazzamente innamorato di lei alla prima
occhiata. E lei non appena lo vede si scioglie, le luccicano gli occhi
e roba del genere. E già dal primo capitolo Robert ci prova,
e lei fa una simbolica resistenza, mentre invece lo trova un figo, e...
vabè, avete capito, no? Ovviamente dicendo questo non voglio
sminuire le fic su Robert, le leggo io stessa (anche se mi trovo a
selezionarle con cura), voglio solo dire che molte si possono
facilmente riassumere con la stessa frase.
E dunque, dopo questa tiritera vi lascio, spero di non avervi annoiati.
Ma se siete giunti fino alla fine del capitolo, meritate un premio. XD
Mi raccomando, lasciate un piccola recensione! Anche per dirmi che la
storia vi fa schifo! :) B'è, comunque sia, un saluto by...
Patty.
|