Una
giovane fanciulla stava camminando a passo lesto e deciso lungo le
vie più popolate di Konoha; le rivolgevano occhiate languide
e
fischi di ammirazione, probabilmente per la gonna osé che le
copriva
a malapena il bacino.
Alla
veneranda età di diciotto anni, Sakura Haruno
realizzò una cosa:
bastava un pezzo di stoffa a far girar la testa agli uomini, quindi
si convinse del fatto che la razza maschile non fosse altro che
un'insieme di ormoni impazziti.
Fin
quando il suo corpo sarebbe stato giovane e vigoroso, non avrebbe
avuto problemi. Ma un giorno anche la bellezza sarebbe appassita, si
sarebbe tramutata in polvere e sarebbe perita... Oh sì, le
rughe
d'espressione si farebbero fatte più marcate, delineando
delle
ragnatele ai lati degli occhi, così come le labbra, che si
sarebbero
incurvate pigramente verso il basso.
Preferì
negare col capo, ammirandosi davanti il riflesso di un piccolo
negozio: la pelle candida, le curve perfette, i capelli di un
insolito color pastello ma, dopotutto, era proprio quella
tonalità
che la rendeva una perla più unica che rara nella monotona
Konoha di
fine primavera.
Sarò
bella per Sasuke-kun – si
diceva alcuni anni prima, davanti quello stesso riflesso.
Sarò
bella perché lui un giorno mi amerà –
e continuava a sorridere inebetita, compiendo un'euforica piroetta
attorno a se stessa.
Sarò
bella. Sarò una donna stupenda, un dì.
Hai
mai pensato di essere bella per te stessa, Sakura? – non
si
diede risposta stavolta.
D'altronde,
chi conosce la verità tace sempre,
ha
paura di crederci davvero.
Aveva
paura di chiudere gli occhi, perché aveva paura di vedere.
A
Domi, una carissima amica.
Un
regalo pre-natale e pre-compleanno, spero
sia
gradito <3
Ti
voglio bene, **.
Quando
Sakura rientrò nella modesta abitazione, le
sfuggì dalle labbra un
sospiro laconico. Lanciò le chiavi sul mobiletto d'ingresso,
non
avrebbe mai pensato che perfino lo shopping potesse risultare
faticoso. I numerosi pacchi sulla soglia della porta stavano a
confermare la quantità di oggetti che avevano attirato la
sua
attenzione finché non avevano supplicato, con occhi lucidi,
di
essere comprati.
E
poi, con una Ino Yamanaka al proprio fianco, gli acquisti non
potevano che essere dispendiosi ed inutili. Sorrise tra sé e
sé,
canticchiando un assurdo motivetto.
Chiamò
a voce alta i genitori, ma ottenne solo un religioso silenzio, che
quasi la intimoriva. Si batté una mano sulla fronte quando
ricordò
che i due coniugi erano andati a mangiare fuori, insieme ai vecchi
compagni di gioventù, per una sana rimpatriata tra amici.
Gettò
il bigliettino di carta, sopra vi era impressa una calligrafia blu
oltremodo illeggibile – la solita fretta di sua madre,
evidentemente. Sul tavolo la cena era scaldata, i piatti coprivano
altre scodelle, il bicchiere all'ingiù, un modesto
mucchietto di
tovaglioli ornati da astrusi ghirigori, il pane già
tagliato.
Sua
madre era sempre perfetta, impeccabile, quasi surreale. Ciononostante
decise che quella sera si sarebbe dedicata ad una lettura, magari
avrebbe approfondito gli studi di Medicina, raccogliendo appunti
sulle nuove tecniche curative. Ligia come sempre alle regole di
Tsunade-Sama, alunna modello ed eletta dell'Hokage; se solo si fosse
ricomposto un ultimo tassello, diavolo... Se solo...
No
– fece un cenno di diniego col capo – non le
sembrava proprio il
caso di pensare al passato, doveva concentrarsi sul radioso futuro
che le spettava.
Credi
forse che perderò la mia giovinezza pensando a te, Uchiha? -
pensò
tra sé e sé, quando tentò di spazzare
via dalle guance l'ultimo
briciolo di sofferenza.
Si
liberò dei vertiginosi tacchi, massaggiandosi indolenzita le
caviglie. Avvertì l'essenza di lavanda che sua madre
spruzzava
settimanalmente nell'abitazione; quell'effluvio aveva il potere di
avvolgerla in spire violacee, imprimendo sopra la sua epidermide quel
delizioso profumo. Quando riuscì a superare la rampa di
scale
annaspò, era decisamente stanca quella sera. Forse si
sarebbe
concessa un bagno caldo e poi sarebbe filata dritta a letto,
abbandonandosi al richiamo di Morfeo.
Un
ultimo scalino, prima di mollare la presa dal corrimano di mogano.
Distinse un paio di porte di legno ma si limitò ad aprire la
propria, girando la chiave nella serratura. Un piccolo barlume di
luce – l'ultimo di una lunga giornata –
guizzò diretto nei suoi
occhi; Sakura si buttò di peso sul materasso in lattice,
sprofondando con la testa nel guanciale. Tutto quel silenzio sembrava
inghiottirla, la intimoriva a tratti. Forse perché era
abituata al
caos giornaliero, alla routine quotidiana – tutte queste cose
la
infastidivano alcune volte – eppure ora che non c'erano ne
sentiva
la mancanza, per qualche astruso motivo.
Aveva
paura di chiudere gli occhi, perché aveva paura di vedere.
Il
suo fantasma galleggiava nei suoi occhi, in ogni momento. Era solo
prima che il sonno giungesse, ovvero quando i primi raggi solari
–
un'alba ipocrita, fatta di
cartapesta – sarebbero
subentrati nuovamente nella sua camera dando vita a forme insicure
sul pavimento piastrellato, che la sua sagoma sarebbe sparita,
dissolta, putrefatta in un nonnulla. Non sapeva come definire la
dipendenza morbosa che mostrava verso di lui, era una sorta di
nicotina di cui non riusciva proprio a fare a meno.
«Faresti
meglio ad andartene.»
Sentiva
perfino la sua presenza, vedeva nell'oscurità le linee
immaginarie
di un corpo, ne distingueva la solida mascella, le braccia lunghe e
mascoline, lo sterno ampio.
«Faresti
meglio a cacciarmi via.»
Ecco,
aveva sempre la battuta pronta. Sakura sfregò i suoi occhi
contro il
dorso della mano, spazzando via un segno di debolezza; erano diversi
mesi, parecchie settimane, più di trecentosessanta giorni
che il suo
spettro la raggiungeva in sonno ogni notte, accendendo in lei la
speranza, l'illusione di un
attimo.
E
poi scompariva, come in una nuvola di fumo. Uno stupido e
insignificante alone grigiastro, che prima si mostrava in tutta la
sua eleganza, prendendosi lo spazio necessario... E poi lasciava solo
una scia del suo segno, una sola traccia del suo passaggio. Ma Sakura
sapeva, era cosciente: conosceva l'illusione – tanto ch'era
diventata una delle sue più fidate amiche – ed era
pronta a
pagarne il prezzo.
«Vattene»
Mormorò,
stringendo le dita al lenzuolo di lino, digrignando a denti stretti.
Stavolta non le rispose, troppo occupato a sospirare.
A
volte crediamo nell'impossibile, pur sapendo che per definizione non
è realtà... Ci aggrappiamo saldamente ad un
ricordo, una persona o
un'ancora – a dir si voglia – promettendo a noi
stessi che presto
o tardi ce ne libereremo. C'è un oceano davanti a noi, un
oceano in
cui specchiarsi. Dobbiamo solo decidere se farlo da soli o essere
accompagnati – eppure il riflesso nella laguna blu ci
mostrerà
solo il nostro volto, l'altro sarà oscurato, proprio
perché non
esiste.
Ed
è così che ci convinciamo della nostra forma di
pazzia, acuta
follia che si manifesta sotto vari aspetti, volti più o meno
noti.
Ma è una pazzia piacevole, ci riscalda l'animo, ci fa
sorridere, ci
informa che, dopotutto, quel ricordo frutto della fantasia ci rende
felici.
Allora
continuiamo a credervi, stavolta coscienziosi.
“E
nego il negabile
Vivo il possibile
Curo il ricordo
E mi
scordo di me” (*)
«Vattene!»
Era
un grido, pura angoscia e straziante dolore. In un attimo, non
riuscì
più ad udire il suono mellifluo della sua voce, il timbro
roco e
affascinante che l'aveva ammaliata anni prima.
Se
n'era andato davvero, l'aveva presa in parola. «Ti
preferivo quando mi contraddicevi»
E
adesso, sola, sfogava la sua sofferenza in modo assai atroce,
spegnendo ogni grammo della sua felicità, riducendo il suo
orgoglio
in poltiglia, rotolandosi nelle coperte e ballando la danza
dell'Inferno – quella che riduceva ogni essere umano in uno
stato
pietoso.
Piangeva,
soffriva, si lamentava, gemeva di dolore... L'avrebbe fatto chiunque,
sì, ma la consapevolezza che non sarebbe stata l'ultima
volta –
così come non lo era la prima – l'avrebbe
accompagnata sempre,
riempiendola d'angoscia e infarcendo il suo cuore di un'acuta
depressione.
Sopraggiunse
il sonno, il dolore si era riposato per un momento, se tutto andava
bene anche alcune ore, assopendo l'ira funesta e il rancore malcelato
verso quell'essere ribelle, che tanto si beffava di lei. Dormire,
sembrava l'unica maniera di scacciare il dolore. Dormire, era
sinonimo di stare bene... Sì, l'attimo in cui il cuore
pompava di
meno, diveniva meno ligio al suo dovere, l'attimo in cui ci si
lascia addomesticare. Ogni nostra cellula, osso, tendine si prostra
alla sacra volontà mentale, inchinandosi come uno schiavo al
suo
potere.
Vattene...
E rimani.
Cosicché
la notte sembri un po' più radiosa.
Diversi
anni dopo.
“Così
mi scordai di me stessa, del fatto che stavo invecchiando e che avevo
sprecato la mia gioventù amando un relitto, un essere
senz'anima,
uno spettro”
Il
suo fantasma, vive e vivrà per sempre dentro lei. Solo il
taglio dei
suoi occhi, solo una ciocca dei suoi capelli, solo le sue dita
affusolate provocano in lei un brivido di terrore –
e piacere.
E
solo ricordare le dita che adesso rinnega con la stessa
intensità
con cui le adorava è un fardello troppo pesante da portarsi
in
groppa.
Il
suo fantasma non si scaccerà mai dalla sua mente, ma deve
quanto
meno farlo dal suo cuore, non può sprecare la sua
gioventù amando
un essere senz'anima, senza corpo materiale.
Quale
donna sprecherebbe la sua vita così?
Mentre
sta bagnando il pavimento ligneo con le sue sciocche lacrime, si
chiede perché non riesca ad amare nessun altro,
perché ogni volta
che quei baldi giovani si prostrano ai suoi piedi – disposti
anche
ad aspettare – li fa dileguare in men che non si dica con
stupide
giustificazioni.
Amerà
ancora, dirà ti amo
mille volte, lo
griderà forte, lo
piangerà piano, si donerà corpo e anima a colui
che lo meriterà
veramente, magari un giorno riderà di quella cotta che si
era presa.
Non
hai mai saputo dire le bugie.
Vuoi
vivere tutta la vita invano, amando un fantasma? Questa è la
tua
vita, fa' pure, sfida il destino, le leggi della fisica, il confine
tra realtà e fantasia, la sottile linea tra vero e falso.
Giostra a
tuo piacimento la tua vita, ma ricorda: arriverà un momento
in cui
rimpiangerai di non esserti più innamorata, l'istante in cui
ti
renderai conto di non poter procreare più, perché
hai rifiutato
quella stessa maternità che, anni prima, ti era stata
offerta su un
vassoio d'argento, anche da buoni partiti.
Poi
sarai anziana, la tua pelle diventerà rugosa, si
rovinerà, i segni
del tempo scalfiranno le tue adorate gote di un rosa tenue, appena
accentuato, e ti renderai conto che la vita è passata
davanti a te
come una carrellata di diapositive... ma tu non le hai guardate bene.
Il tuo occhio è stato attento, sì, ma non ha
voluto vedere oltre.
Ha preferito fermarsi, in sospeso tra un'immagine e l'altra, e hai
continuato a far correre le suddette diapositive, magari lanciando un
occhio, incuriosita, a quelle degli altri, e forse le hai invidiate
anche un po' – dì la verità, vorresti
essere tu quella Ino
Yamanaka che adesso abbraccia quel nerd asociale di Shikamaru Nara...
o magari quel Kiba Inuzuka che mostra segni d'affetto verso un Hinata
Hyuga che capisce di aver sempre avuto accanto a sé il vero
amore e
non se ne era mai resa conto.
Ma
la tua vita è fuggita così – come un
soffio d'erba – e ora, una
vecchia quarantenne, stanca, visibilmente frustrata, ti accingi ad
entrare in casa, accendendo distrattamente la luce e trovandovi un
buffo quadretto familiare, quando eri ancora una ragazzina e
sorridevi felice della vita – avevi sogni, speranze... Illusioni?
Posa
la pila di libri sopra il tavolo, ha impartito una lezione ai suoi
allievi, così come aveva fatto Tsunade-Sama con lei.
È la più
brava medic-ninja, tutti la elogiano, si sente soddisfatta del suo
operato ogni giorno salva vite umane... Ma non ha mai pensato di
salvare la propria.
«Cosa
diamine ci fai qui?»
Le
urta i nervi, si presenta sempre a quell'ora di notte, facendole
qualche assurda proposta.
«Sakura-chan...
Sei tornata tardi»
Sfiora
la spallina della sua veste. Si ritrae, irritata, spingendolo pochi
centimetri più in là.
«E
non sono affari tuoi», si denuda dei tacchi, si massaggia
indolenzita le caviglie pesanti, lanciando le scarpe sul tappeto,
distrattamente. Accende tante luci, è pronta a gettarsi tra
le
coperte, magari digiunando per l'ennesimo giorno; d'altronde il
frigorifero è vuoto, la sua vita gira tutta intorno al
lavoro.
«E
se lo fossero... Invece?»
E
le sfiora con le dita vellutate il viso, blocca i suoi fianchi con le
braccia, respira sulla sua schiena. Non gli importa di parer
ridicolo, non gli interessa di suonar mieloso, se non addirittura
romanzesco.
«Diamine,
Naruto! Fatti una famiglia, trovati una donna... lasciami in
pace!»
Lo
dice davvero. Sa di averlo offeso, molla la presa, si libera dai suoi
tentacoli. Annaspa, sa di aver gridato troppo... l'età
inizia a
farsi sentire e i primi acciacchi della vecchiaia non sono da meno;
Naruto si appoggia all'intonaco bianco della parete, spingendo un
gomito verso di essa, in un impeto di rabbia.
«Che
senso ha... Se non ci sei
tu?»
Proferisce
quelle parole piano, lentamente, come se le avesse trascinate. Sakura
capisce che, dopo tanti anni, ancora non l'ha dimenticata... E magari
in gioventù ha accontentato i suoi desideri carnali, ma ora
non più.
Ora, ragionando da donna matura, capisce che non può
più, non può
amarlo come merita di essere amato un uomo.
Sarebbe
un amore a senso unico, un'unica via. «Dammi una sola,
valida,
ragione Sakura»
I
suoi occhi sono fari nella notte e la stanno sfidando. Annaspa ancora
Sakura, stavolta un po' in ansia, visibilmente provata; comincia a
piangere, iniziano a scendere lacrime – ancora? –
dai suoi occhi
smeraldo e le rigano il volto, crudeli.
«Amo
ancora... Sasuke»
Quanti
anni sono che non pronunciava il suo nome? Ora sembra un
tabù, ma
non sa che ogni giorno lo pensa, ogni attimo della sua vita il suo
pensiero volge a quel ragazzino arrogante, ogni volta che osserva il
cielo, fissando un puntino nella volta celeste, comprende che non
è
casuale quel gesto.
«Sasuke
è morto», dice con freddezza l'amico –
amico, sì – di
fronte a lei, scrollandole le spalle minute e indolenzite.
«Sasuke
è vivo!»
Grida,
rispondendo con un urlo.
«È
morto... morto Sakura!»
Le
scrolla le spalle magre con maggior potenza.
«I
morti sono morti solo quando lo decidiamo noi, Naruto»
Arcigna,
scosta le sue mani dalle sue braccia. Con un sol sguardo gli intima
di voltarsi e andarsene, e farsi una vita, magari. Lui che ancora
può. Solo dopo pochi minuti se ne va, non distingue
più i suoi
passi, non sente più la suola delle sue scarpe sul pavimento
ligneo,
non vede più la sua ombra aggirarsi tra le pareti.
Tuffa
la testa nel guanciale, Sakura. Vorrebbe
che i morti fossero vivi
sempre... Vorrebbe che a tutti fosse concessa una seconda
possibilità – chissà,
anche lui sarebbe potuto cambiare, se
solo... Se solo avesse avuto qualcuno accanto ad indicargli la retta
via – e vorrebbe
essergli accanto, anche da sola, anche contro
il mondo, anche se per entrare nel suo mondo avrebbe dovuto
affrontare l'Inferno – sarebbe
disposta a rimanerci.
Si
culla nella speranza di un indomani felice. Ma domani è oggi
e oggi
sarà ieri e ieri sarà un pallido ricordo, insieme
a tanti altri,
finché essi non comporranno un puzzle e costruiranno l'album
della
vita.
È
già mattino, sai?
Il
mattino di un altro giorno, di un altro anno, di un'altra piaga al
corpo ormai segnato dal dolore.
«Buongiorno
Sasuke-kun»
Le
sembra di vederlo accanto a sé, mentre col solito ghigno
sghembo non
manca di ricordarle quanto è noiosa.
Addio
Sakura...
Non
distingue più il suo riflesso nello specchio, è
sparito. Piega le
labbra in un'espressione dolorosa, se le morde con veemenza,
inchinandosi solamente di fronte al dolore... E urla il suo nome,
ancora, ma non le risponde.
Lo
sapevo che mi avresti abbandonata
– proprio come facesti anni fa.
Tu
hai avuto sempre il coraggio di lasciare, io
no.
Non
ti dirò addio, Sasuke-kun.
~
Fine.
(*)
Il sole esiste per tutti, T. Ferro.
Nd/A:
beh, come dire... ci ho messo un po' a scriverla, mi sono
immedesimata così tanto nel personaggio principale che
sentivo la
sua stessa sofferenza. C'è da dire anche che questa shot
è stata
scritta in un momento non proprio positivo della mia vita, quindi
c'è
più me stessa in questa storia che nelle altre. Sakura
è una donna
che non si piega a niente, nemmeno di fronte alla morte che dovrebbe
essere la conclusione di tutto. Sasuke è con lei, dentro di
lei,
sempre lì per lei... E non riesce a liberarsene. Credo di
non essere
andata OOC, se così fosse mi scuso anticipatamente e
aggiungerò
l'avviso una volta postata la fic.
Alla fine ho scelto la seconda
canzone “Il sole esiste per tutti”, ci sono un paio
di versi che
calzano a pennello per la mia storia. Sebbene non mi piaccia proprio
il cantante, spero di aver reso l'atmosfera mediante pochi versi.
Kiki.
EDIT:
mi è stato detto nel commento che Sakura pecca un po' di
ooc,
quindi inserisco l'avviso come avevo allegato nelle note quando
inviai la storia.
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