Le notti a Las Noches erano terribilmente vuote.
E così erano i giorni, mai illuminati dal sole o bagnati
dalla pioggia.
Erano morti da così tanto tempo che non ne sentivano la
mancanza, da così tanto tempo che vivere - vivere? - nel
deserto delle notti eterne non sembrava pesante o triste, non
più, ormai.
Eppure erano certi che nel Seireitei sbocciassero i ciliegi in
primavera e fioccasse la neve in inverno, anche se erano solo
illusioni, anche se non se ne potevano comunque accarezzare i petali o
stringere tra le mani i cristalli ghiacciati - ma che importava, quando
non c'era il calore del sangue a far sciogliere l'acqua tra le dita?
Tutto ciò che avevano, in quella grigia fortezza nel centro
esatto di un deserto d'anime, erano loro stessi.
E non era una buona compagnia, se si considerava cosa fossero
gli Espada in realtà, sotto gli atteggiamenti regali e un numero marchiato indelebilmente in qualche luogo nascosto, lontano dagli occhi.
Devo essere stato
qualcuno, un giorno, in un tempo lontano
considerò Nnoitra. Prima di divorare migliaia dei suoi
compagni, prima ancora di diventare un mostro animato dal rancore,
addirittura prima ancora di conoscere la morte stessa.
Un tempo così lontano da fargli pensare che forse non era
mai esistito.
Un giorno forse anche lui aveva accarezzato i petali di ciliegio e
stretto tra le mani la neve gelida, tremando per il freddo. Doveva
essere successo, in un qualche tempo sperduto nell'immensità.
-Sei ancora un bambino.
Certo che lo era. Rinato tra le mani di un burattinaio perennemente
adagiato sulla cima di una scalinata - era sempre in alto, lui,
più in alto di loro, sempre in cima a qualche cosa - e poi
gettato in una torre spoglia, senz'altra ragion d'essere che eseguire
ordini di cui non conosceva il fine.
C'era stato qualcosa, prima di questo, non poteva essere diversamente.
Doveva aver lottato molto, prima di venire trascinato per i capelli
sopra un piedistallo che si era conquistato, inconsapevolmente, vagando
tra sangue e lacrime - anche i suoi.
Ma non lo ricordava più, quel qualcosa.
E non voleva tornare con la mente ai giorni in cui vagava tra la sabbia
dell'Hueco Mundo, solo davanti alle dune cariche di un silenzio pesante
come pietra, quando strappava teste a morsi e le ingoiava soddisfatto
per sfuggire a una sorte che l'aveva imprigionato senza via di scampo;
per svettare su quei turbolenti conglomerati d'anime rapprese che si
lasciavano masticare e digerire da qualcuno più forte per
non dover morire. Anche se, in fin dei conti, quello era il momento
della loro morte definitiva, del loro annullamento. E non voleva
ricordare, no, non voleva ricordare, perché gli sembravano
troppo vicini, i giorni in cui aveva dovuto combattere fino a che le
forze non sembravano esaurite, e ancora avanti, per non dover regredire
per sempre, per non rinunciare alla speranza di ritornare uno solo,
unico, pur consapevole che, per quanto potesse cambiare, sarebbe rimaso
soltanto un agglomerato putrescente di tartaglie che nulla aveva di
glorioso o élitario, per tutta l'eternità che
Aizensama gli aveva regalato.
L'aveva presentato loro come un dono. La promessa di non morire, la
promessa di tornare quantunque fossero stati feriti, abbattuti,
sconfitti.
Non gli aveva mai chiesto l'eternità. Non aveva mai chiesto
l'eternità a nessuno.
-Combatto perché voglio morire.
E in parte combatteva perché, se non avesse combattuto,
allora cos'altro avrebbe fatto?
Las Noches era come un piccolo insediamento sulla Luna, un luogo dove
la solitudine era una garanzia, dove l'uomo con cui si incrociava il
passo poteva divenire il proprio potenziale assassino; e questo
senz'altro motivo che il capriccio di un capitano del quale nessuno
aveva ancora intuito la vera indole, tranne forse Ulquiorra, che, non a
caso, aveva il volto marchiato da due scure lacrime indelebili.
Vivere lontani da una qualsiasi concezione di mondo, totalmente
dimentichi delle emozioni, privati di qualsiasi legame, poteva condurre
a diventare ciò che sentiva di essere divenuto lui. Ma
riteneva di potersi giustificare. Perché avrebbe dovuto
risparmiare ad altri la sorte che era toccata a lui? E se tutto gli era
proibito, fuorché l'omicidio, se ogni libertà gli
era stata sottratta, tranne quella di provare un vago ricordo di
brivido nell'ascoltare le urla di agonia, allora perché
avrebbe dovuto fermarsi?
-In te non vedo ragioni per combattere.
E quella sensazione evanescente, qualcosa che forse poteva chiamare vita, quella
lontana replica dell'adrenalina, le cariche con la spada e le
dichiarazioni di vittoria, allora cos'erano? Se tutto quello non era
una ragione per combattere, se avesse dovuto riporre la spada, allora
non gli sarebbe rimasto più nulla, lassù. Sarebbe
stato un'altra delle anime che vagavano in quella distesa
apparentemente infinita, cercando di difendersi dai più
forti e di prendere il sopravvento sui più deboli.
Lui non era Gin Ichimaru e Aizen non era Yamamoto. Lui non poteva
tradire. Lui era lo sporco escremento germogliato nel lordume della
feccia della Soul Society. Il suo non sarebbe stato un tradimento,
perché non poteva esserci un tradimento ove dall'inizio era
mancato il più solido dei compromessi: la fiducia. Sarebbe
stato un buco lasciato vuoto e l'ennesimo nome sulle liste nere di
qualcuno che un tempo era stato un gradino sotto di lui.
Non gl'importava di quante anime fossero state mietute dalla sua spada,
non quando la sua esistenza s'era ridotta all'isolamento in quel mondo
governato dal nulla.
-Aizen taichou non ci aveva ordinato di ucciderli tutti!
Neliel però aveva riacquistato quel guizzo di ragione, quel
residuo di coscienza umana che a lui la rinascita aveva negato. Ed era
questa la ragione per cui la odiava. Non perché ritenesse
che dicesse il falso sul suo conto, ma proprio perché
stilava dinanzi a lui una lista di verità incontestabili,
guardandolo con quegli occhi pieni di dolcezza e pieni di disprezzo.
Non poteva sopportare quella sua dolorosa esclusiva, e non
poteva sopportare quello sguardo.
-Non sopporto che una donna stia ad un livello superiore rispetto a un
uomo!
Così aveva gridato, il volto ancor più deformato
dal ribollire di sentimenti odiosi che si agitava da qualche parte
dentro di sé; qualche parte che non sapeva identificare ma
che, lo sapeva con certezza, non era il cuore, dato che gliel'avevano
strappato dal petto quando era stato chiaro che non intendeva
abbandonare il mondo, non così, non senza aver scalciato e
gridato e rincorso ciò che era suo, afferrandolo per un
braccio e chiedendo indietro tutto l'amore che aveva dato.
Ma a chi aveva deciso di darlo, quell'amore...? Non lo ricordava. Un
tempo, evidentemente, era stato capace di provarne tanto da non
riuscire a staccarsi dal mondo terreno, da lasciarsi consumare l'anima
per poter strappare e portare con sé quella di una persona
alla quale non era riuscito a rinunciare. Quando ancora aveva un cuore,
appunto. Prima che la catena del fato glielo corrodesse tanto in
profondità da renderglielo inutilizzabile.
Non riusciva, per quanto si sforzasse, a dare un nome a ciò
che gli accadeva dentro, se esisteva un 'dentro', se il diventare
'Hollow' non l'aveva privato anche di quello.
Ma quel giorno era stanco di cercare quel nome e così,
cedendo all'abitudine, incapace di interpretare il torrente di parole
odiose che gli percorrevano il cervello, aveva deciso di mettere a
tacere quella voce che gli parlava di umanità; proprio a
lui, che l'aveva rinnegata, perché era esausto dopo averla
così a lungo cercata, e non aver mai trovato null'altro che
lotta.
E quando Neliel s'era accasciata a terra, gli occhi fissi sul niente
che li circondava e che avrebbe continuato a circondarlo, quando i suoi
morbidi capelli color pino avevano galleggiato attorno al suo volto -
davvero ancora ricordava le foglie degli alberi...? - si era accorto
che non era cambiato nulla. Tutto l'odio che gli sgorgava da dentro,
sgocciolando sempre più velocemente come un fiume in piena,
anziché quietarsi era cresciuto fino a renderlo folle, e non
ci sarebbe stato più nessuno a frenarlo, a prendersene
carico affinché lui non lo rivolgesse su quell'intero
piccolo mondo, e, quando avesse esaurito gli Arrancar solitari che
vagavano in preda al terrore, su se stesso.
E scoprì che l'aveva ammirata, ma che l'aveva ammirata
troppo. E l'ammirazione, essendo il sentimento più lontano
dalla comprensione, come gli aveva insegnato il capitano Aizen*, unita
al fatto che l'ammirarla non l'aveva avvicinato di un passo al
raggiungere quel che aveva ottenuto lei, alla fine era diventata mera
invidia, e l'invidia era capace di uccidere.
Era troppo abituato al massacro perché l'invidia trovasse
nella sua coscienza un ostacolo. Funse da scusante anziché
da tentazione. Da troppo tempo aspettava una scusa per rendere tutto
più facile, per non dover mai più affrontarla,
dato che aveva accertato di non esserne in grado, di non poter nulla
contro quella donna.
Mentre moriva incontrò il suo sguardo e si chiese se non
fosse stata lei quella per cui aveva rinunciato a un'anima, in passato.
Perché ancora in quel momento avrebbe voluto pararlesi
davanti e dirle di non voltargli le spalle, di combatterlo ancora, di
spiegargli ancora una volta le ragioni per cui non doveva uccidere,
perché lui voleva sentirle. Voleva che lei gliele ripetesse
fino a quando non se ne fosse convinto. E forse, a quel punto, le notti
di Las Noches sarebbero state un po' meno vuote.
-Nnoitra.
Gli occhi di quella bambina lo guardavano attraverso un velo di
incoscienza. Sembrava immersa in un dormiveglia stanco, abbandonata
contro una roccia e privata dei ricordi, ma aveva pronunciato il suo
nome.
Aveva odiato in passato il fatto che il nome di Neliel risuonasse
infinite volte nella sua testa, mentre probabilmente il suo ricorreva
in quella di lei solamente nei momenti in cui assisteva all'ennesima
mattanza, silenziosa e piena di disgusto verso di lui, che ne era
immancabilmente l'autore. Non era riuscito a ricordare cosa
significasse quella ripetizione infinita del suo volto nella mente, e
vi aveva dato l'unico significato che aveva imparato ad associare a
un'ossessione.
La odiava, e voleva che fosse morta.
La mancanza di un ricordo gli aveva impedito di riconoscere quello che
gli si agitava dentro da fin troppo tempo, e alla fine aveva rinunciato
all'ultimo filo che lo teneva aggrappato a sé stesso. Ed ora
era forte, ma rimaneva pur sempre quell'agglomerato putrescente di
tartaglie che era stato da quando aveva perso il cuore a quando lei
aveva puntato per la prima volta nei suoi quegli occhi color... non
ricordava che cosa fosse quel colore, non ora che da troppo tempo
bighellonava senza scopo tra le pareti spoglie di un palazzo che era
lentamente affogato in un silenzio mortuario, ma era il colore di
qualcosa che in vita doveva aver amato.
Il silenzio dominava anche ora che era morto, nonostante si fosse
aspettato quel momento come un'esplosione di fragore e di sensazioni in
quell'involucro vuoto che avevano fatto di lui, di quel simulacro di
corpo che a cui si era ridotto già da secoli. Fu deluso da
quell'improvvisa quiete, che anziché accendere i lumi della
gloria aveva spento le grida della battaglia, ponendo fine a tutto
nella più assoluta assenza di rumori. Aveva atteso a lungo
quel momento, che nelle sue fantasie sarebbe stato sia la fine di una
prigionia che gli era parsa eterna, sia l'applauso finale che
riconosceva la grandezza conquistata a forza di rinunce, a forza di
serrare gli occhi davanti a quello che lo circondava e a quello che gli si insediava dentro, posto che esistesse un 'dentro'.
Forse, pensò in quel momento, era stato proprio
perché aveva sempre sbarrato gli occhi di fronte a tutto, e
in particolare a Lei, che quelli di Neliel si erano spalancati
davanti alla sua morte proprio come s'erano spalancati davanti alla
propria. E mentre le palpebre gli si abbassavano languidamente,
dolcemente, mentre l'aria si faceva rarefatta e sentiva l'anima
abbandonarlo per sempre, pezzo dopo pezzo, e stavolta senza ritorno,
sentì che se avesse avuto voce per un'ultima parola quella
non sarebbe stata una vana dichiarazione di vittoria.
Avrebbe dichiarato la sua sconfitta, la sua definitiva e consapevole
sconfitta davanti agli occhi di quella donna per la quale aveva
definitivamente rinunciato a sé stesso.
* In realtà lo ha detto a Hitsugaya parlando di Hinamori, ma
Aizen mi dà l'idea di uno che ama dispensare in giro le sue
perle di saggezza -_-.
(Nda: ... boh O___o oggi pomeriggio dicevo al mio ragazzo che Nnoitra
è "cattivo,
cattivo, cattivo, più cattivo ancora di Aizen
>o<!", ma poi è successo che,
nell'anime, ho visto come si guardano i due quando lui muore e a
momenti ci rimanevo secca *_*''.
Mai e poi mai avrei pensato di poter approfondire un personaggio come
Jilga, ripeto MAI, eppure mi sembra di avergli dato anche una certa
profondità, nonostante tutto, se vogliamo usare paroloni O_o.
Ma coi personaggi di Bleach è sempre così: parto
che voglio dire una cosa, poi finisce che fanno quel che vogliono loro.
Mi arrendo T___T.
Un 'grazie' ai Muse che mi hanno fatto da colonna sonora durante la
stesura... <3 beh, fatemi sapere se vi è piaciuta
^_^! E anche se non vi è piaciuta è.é!
^_^)
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