Fuori cadeva la Pioggia
Fuori cadeva la pioggia, e lei, Sarah,
osservava il paesaggio scorrere silenzioso, la testa appoggiata
all’umido vetro del finestrino, le braccia abbandonate dolcemente lungo i
fianchi.
Case, strade, persone senza un nome, si alternavano sotto i
suoi occhi in quella atmosfera surreale, come una
lunga serie di diapositive sbiadite dal tempo e i suoi sguardi si posavano
sugli oggetti, accarezzavano lentamente i loro contorni, ne catturavano i
colori, le sensazioni.
Uomini e donne chiusi nelle loro giacche a vento, come fiori
non ancora sbocciati in un prato di cemento, danzavano, inconsapevoli attori di
un cupo teatrino, si scambiavano parole che andavano ad infrangersi in candide
nuvolette nel freddo mattino d’inverno.
Al centro della scena si ergeva una donna, stretta nei suoi
abiti mossi dal vento. Osservava immobile l’orizzonte,
aspettava. Le sue labbra erano schiuse, i suoi occhi, così grandi e
profondi, parevano fissare al di là dell’infinito e le
sue mani erano strette intorno al manico del suo ombrello, rosso come un
papavero in estate. Così vivido e leggero, sembrava volteggiare nell’aria.
E la mente di Sarah volò via e tornò alle calde sere di fine
luglio, quando la luna e l’odore dell’erba e del grano erano taciti testimoni di infiniti momenti ed intense emozioni, quando gli
innocenti abbracci d’infanzia volgevano in baci, in carezze proibite. E
d’improvviso si trovò a correre tra i campi vestita di
bianco, serena e spensierata, e sentiva dietro di sé il fruscio delle spighe e
le risate di un bambino ormai grande, e d’un tratto le sue mani le cingevano la
vita, scorrevano lungo i suoi fianchi. Rivide i suoi occhi, Sarah. Sentì di
nuovo quel bacio e poteva quasi avvertire la carezza del grano sulla pelle e la
sconvolgente emozione dell’essere donna, mentre i loro vestiti giacevano
abbandonati sull’erba, bagnati dalla luce della luna, come demoni sconfitti in un epica battaglia.
Fuori cadeva la pioggia, e gli occhi di Sarah parevano
ancora osservare il paesaggio, che continuava a scorrere silenzioso. Ma in lei qualcosa era cambiato. I pensieri galleggiavano nella sua mente, come fiori di loto in un lago, come
foglie in una pozzanghera nel freddo mattino d’inverno.
Pulì il vetro con il dorso della mano, Sarah. Il freddo
dell’acqua le penetrò nell’anima, fino a farle gelare le vene.
Era di nuovo là, gettata in
ginocchio, le mani affondate nell’umida terra.
Attorno a lei si ergevano sagome di uomini
dai contorni sfocati, informi giganti avvolti in abiti neri, come oscuri
presentimenti di morte. Indistinte voci tornarono a
infestargli la mente, funeste, gonfie di dolore, riecheggianti di disperazione.
Tentava di parlare, Sarah, ma tutto ciò che riusciva ad
urlare era solo il nudo silenzio, freddo come quella pietra che nascondeva un’amara
verità.
“MAMMA!”
Di colpo le parole proruppero dalle sue umide labbra, perse
in un fiume di angoscia, a rompere gli argini di quell’ostinato pianto.
Fuori cadeva la pioggia, ma quell’urlo carico di disperazione, aveva coperto ogni altro
rumore.
Il paesaggio continuava a scorrere
silenzioso, e gli occhi di Sarah, imperlati di lacrime, le rimandavano
una visione ancor più surreale dell’atmosfera grigia e umida di quel mattino
d’inverno. Donne e uomini, chiusi nelle loro giacche a vento, continuavano a
recitare in quel cupo teatrino, ma lo sguardo di Sarah si posava al di là del confine del visibile.
Si alzò di scatto, Sarah. Si fece largo tra la folla e scese
di fretta i tre scalini del bus, quasi inciampando. E
in un attimo era là fuori, dove cadeva la pioggia.
E non poté fare a meno di pensare che, ora, anche lei era un fiore non ancora sbocciato, chiusa nella sua giacca
azzurra, inconsapevole attrice che calcava le scene di quel palco di cemento.
Mentre ormai, su di lei, cadeva la
pioggia.