Titolo: Wash away my
sin
Pairing: James/Snape
Rating: PG
Conteggio Parole:
1446
Warnings:
Slash, Angst, nomi e nomignoli originali, Angst, un po' di botte e
parolacce. Ho già detto Angst?
Spoiler:
Nessuno.
Note: Sono
più di tre
anni che non scrivo una parola su questo Fandom e, in particolare, su
questa coppia. Onestamente non so che effetto mi faccia, questa cosa.
E, onestamente, non so nemmeno da dove mi sia uscito di scrivere questa
One Shot. Sul serio, non so che dire.
Solo che spero che vi piaccia.
Disclaimer:
Harry Potter e i suoi personaggi appartengono agli aventi diritto.
Questa fanfiction non
è scritta a scopo di lucro.
Dedica:
Karyon, buon Natale!
So esattamente che questa fanfic non è proprio
impregnata di gioia festiva e di clima natalizio ma sono abbastanza
fiduciosa che possa, se non piacerti, quantomeno andarti a genio.
Dopotutto tu lo sai meglio di chiunque altro che il vero regalo, qui,
oltre che la fic in sé, è proprio il Fandom su
cui
è scritta, vero?
Scriverti questa fanfic è stato doloroso, me la sono
strappata
dal cuore, insieme a tutta l'amarezza che mi porto ancora dentro. Non
l'ho estirpata, ma ho trovato una forza (quella di far finta di niente,
quella di andare avanti) che non credevo di possedere.
Scrivere questa fanfic, alla fine, è stato bello.
Perchè è un regalo, perché spero che
possa esserti
gradita e perché, forse, sto diventando molto più
forte e
molto più consapevole che c'è sempre una via
d'uscita
Ti voglio bene, e non è tanto per dire.
Ancora buon Natale.
-:-:-
Non lo guardò in viso mentre lui lo strattonava per le
spalle,
stringendogli le braccia ossute fino a fargli male, parlandogli
–
urlandogli dritto nelle orecchie fino a stordirlo. Gli riversava
addosso tutti quei fiumi di parole che aveva già sentito in
troppi sospiri e troppi sguardi, che aveva già visto dipinte
sulla sua stupida faccia quando, improvvisamente, se lo era trovato
davanti in maniche di camicia e calzoni leggeri, se lo era trovato
addosso con quelle mani bollenti e quegli occhi che sembravano volergli
uscire dalle orbite.
E c’era pure quella cazzo di pioggia. Digrignò i
denti,
sotto i capelli che gli si appiccicavano sulla faccia, la fronte, le
guance, schifato oltre misura mentre l’acqua si intrufolava
sotto
i suoi capelli e il mantello, inzuppandolo da capo a piedi. Fottuta,
fottuta pioggia.
«Mi stai ascoltando?!»
Ritirò la testa tra le spalle, distolse lo sguardo, chiuse
gli occhi. Falla finita.
Vattene e falla finita.
Prima sentì le ossa del braccio quasi scricchiolare e poi si
trovò in bilico sulle sue gambe malferme, quando venne meno
il
suo sostegno. Sentì un freddo lancinante, dove prima
c’era
stata quella morsa di ferro – bollente – e si
ritrovò sulla terra, nel fango umido, le mani sulla faccia
che
bruciava.
Per la prima volta, alzò gli occhi.
Lo troneggiava, immerso nella luce fioca e tremolante di un lampione,
le braccia distese lungo il corpo con i pugni serrati. Non lo
guardò in viso, tanto sapeva già cosa ci avrebbe
trovato.
Orrore, disgusto,
disprezzo.
Odio.
Si girò su un fianco e si passò un polso sulla
faccia,
sul naso sanguinante. Dentro di sé provava quasi una
perversa
soddisfazione nell’averlo spinto a tanto. Appoggiò
il
palmo della mano per terra, tra i rigagnoli e cercò di
tirarsi a
sedere, schiacciato dal peso della pioggia che gli gravava addosso.
Rise.
Una risata roca, esausta, folle. Gli occhi spalancati sul niente, la
testa vuota, il corpo scosso da un fremito che sembrava troppo simile
ad un conato di vomito. Sentì il sangue bagnargli le labbra
e si
pulì, macchiandosi la faccia, continuando a ridere in
silenzio,
sotto un cielo opprimente e uno sguardo che gli toglieva il respiro.
Girò la testa e sollevò il mento. «Sei
contento,
adesso?» Lo guardava di sottecchi, sotto le sopracciglia e i
capelli unti, quasi felice di vederlo esitare un attimo mentre sulla
sua – fottuta
– faccia si dipingeva un’espressione quasi alienata.
«Contento?» Biascicò, sollevando e
appassendo il
mento lentamente mentre un ghigno si dipingeva sui suoi lineamenti. Gli
donava. «Tu pensi che io sia contento?»
Incredulità,
lenta e serpeggiante, mentre la sua bocca si deformava e lui si
lasciava andare ad una risata latrante, troppo dannatamente simile a
quella di quel maledetto cane. «Ma certo che sono contento!
Non
potrei essere più
contento!»
Ora ringhiava quasi, come un cane.
Lui si ritrasse, senza distogliere lo sguardo. «Allora
vattene! Hai detto quello che avevi da dire, no? Vattene!»
Gli sembrò che stesse per cadergli addosso. Se lo
trovò a
pochi centimetri dal suo naso, inginocchiato sopra le sue gambe e non
vide il pugno che si infranse di nuovo sulla sua faccia, facendolo
rantolare per terra.
«Certo che sono contento! Contentissimo! Al settimo
cielo!»
Uno, un altro, un altro ancora, lo zigomo, la tempia, in naso, la
bocca, le sue mani che cercavano inutilmente di fermarlo.
«Non
vedevo l’ora di avere una buona ragione per spaccarti la
faccia!»
Un rantolo e l’ennesimo pugno si fermò a
mezz’aria.
Alzò il viso zuppo di acqua e sangue e incontrò i
suoi
occhi dietro il vetro appannato degli occhiali.
«Contentissimo…» Lo vide fremere e
tirare un
cazzotto alla terra. Strisciò via, come un rettile, andando
ad
acquattarsi poco più in là senza smettere di
scrutarlo
mentre lui non faceva altro che ridere.
Stava sicuramente
ridendo. Di lui.
Sicuramente.
Sicuramente.
Cercò di alzarsi in piedi e scivolò sulla rena
fradicia,
inciampando, ritrovandosi a faccia in giù. Si fece forza
sulle
braccia e le ginocchia traballanti e si mise dritto, sentendo le forze
venir meno.
Ora era lui in piedi, ora era lui a troneggiare ma, con quella poca
luce che gli sbatteva negli occhi continuava a sentirsi piccolo e
meschino, sotto quell’acqua scrosciante.
Perché pioveva sempre? A che cosa serviva, tutta quella
maledetta pioggia?
Lo vide alzare il viso, gli occhi su di lui, la faccia bagnata. Tutta
colpa della pioggia. Distolse lo sguardo e si passò una
manica
sulla faccia, ancora, mentre il sangue si raggrumava sulle ferite.
A che serviva, la pioggia, se non era nemmeno in grado di lavare via un
po’ di sangue?
«E tu, Snivellus?»
Sembrava quasi strano, dopo tutto quel tempo, sentire ancora quel nome
sulla sua bocca.
Era stato capace di
chiamarlo in ben altro modo, con ben altra voce.
«Io… Io cosa?» Uno scatto nervoso, come
se fosse pronto, preparato ad essere aggredito di nuovo.
«Sei contento, Snivellus? Sei soddisfatto? Ti senti tanto
forte, adesso? Sei fiero di te?»
Non riusciva a sostenere lo sguardo e non poteva distoglierlo. Si
sentiva in trappola, come un topolino. Deglutì a vuoto e
rispose
con la voce più grossa che poté, non sicura come
lui
l’avrebbe voluta. «Non… Non sono affari
tuoi!»
Lui si alzò da terra con la camicia macchiata e fradicia,
gli
occhi fissi sulla sua figura. «Non sono affari miei. Certo
che
non sono affari miei. Come cazzo potrebbero,
essere affari miei?!»
E gli corse incontro, di nuovo, e lui sentì le mani calde
afferrargli le braccia e strattonarlo. Ma non arrivò nessun
pugno, nessun colpo; non lo buttò per terra, non lo prese a
calci.
Spalancò gli occhi e si dibatté furiosamente
quando
sentì le sue labbra sulle proprie e la sua lingua entrare di
forza nella sua bocca, quasi come se stesse cercando di soffocarlo, di
rubargli tutta l’aria, tutta la vita che gli scorreva nelle
vene.
Se lo tirò più vicino e lo prese per il bavero,
buttando
via il mantello, rompendo ogni bottone che gli capitava tra le mani.
Cercò di scansarsi, agitandosi come un pesciolino inerme, ma
lui
sembrava non volergli dare tregua. Lo baciava, impiastricciandosi la
faccia di sangue e gli strappava i vestiti, scoprendo la pelle troppo
chiara che le stilettate di pioggia ferivano senza tregua. Quando gli
strappò la manica sinistra lui riuscì a ritrarsi,
rimettendo insieme i brandelli a coprirgli le spalle.
Si guardarono per un lungo istante, mentre le pioggia si abbatteva
impietosa su entrambi.
«Perché, Severus?»
Lui non rispose, cercando di reprimere il brivido caldo che lo scuoteva
fin da dentro.
«Perché?»
Digrignò i denti e maledì la pioggia che gli
faceva bruciare gli occhi.
«Perché lo hai fatto?»
«Perché sì.»
«Non è una risposta!»
«E allora? Non ne hai ancora avuto abbastanza? Alzare le mani
non
ti fa sentire poi tanto grande?» Lui non rispose.
«È
così? Dici tante belle cose, Potter, ma, alla fine, che
resta?
Bugie, bugie, bugie e la boria di un moccioso che fa finta di giocare
con i grandi?»
Lui strinse i pugni, abbassando la testa. «Non hai capito
niente.»
«Non mi interessa, qualsiasi…»
«Non hai capito niente!
Sei tu il fottuto moccioso che non sa che cazzo sta facendo.
Guardati:» indicò il suo braccio sinistro e lui se
lo
strinse al petto. «A che ti è servito? Ti ho
comunque
pestato a dovere, ho fatto comunque quello che volevo!»
Pestò i piedi a terra, e si asciugò la faccia
–
dalla pioggia –
con una mano.
«Sta zitto!»
«Cosa? Ti sei reso conto di essere un idiota? Lo sai che non
si torna indietro?»
«Zitto! Non mi interessa quello che hai da dire, non mi
interessa niente di te!»
Rimase zitto. Rimase zitto a guardarlo da quella rete d’acqua
che
lo faceva apparire tanto lontano. Irraggiungibile. Abbassò
lo
sguardo e poi lo rialzò. Sembrava quasi che gli tremassero
le
labbra.
«Potevamo risolvere tutto. Potevamo… io e
te… si sarebbe risolto tutto.»
«Non è vero.» La voce era più
ferma di quanto si aspettasse.
«Tu non hai aspettato.»
«Cosa dovevo aspettare?»
Non gli rispose e lui capì che non gli avrebbe
più
risposto. Mosse un primo passo, poi un altro, un altro ancora,
lentamente, fino ad essergli accanto, quasi a sfiorargli la spalla con
la sua.
«Severus…»
Chiuse gli occhi per non vedere quello che sapeva ci sarebbe stato
dipinto su quel volto.
Sofferenza, compassione,
paura.
Amo…
Continuò a camminare lasciandoselo alle spalle e
stringendosi le
braccia al petto magro, tremando come una foglia. Stupida pioggia che
gli faceva bruciare gli occhi, stupida pioggia che gli scivolava sulla
faccia, sulle guance, sulle labbra, stupida pioggia che lo faceva
tremare e che gli faceva gocciolare il naso.
Stupida pioggia che non era nemmeno capace di cancellare un segno
marcato a fuoco sul suo braccio.
|