Questa fiction si è classificata terza al contest “About the originality – quando il sadismo giunge al culmine” indetto da Nana° e x Saretta x
sul forum di EFP.
La fiction ha inoltre vinto due premi: quello "Angst" e quello "Originalità", per i quali allego i banner.
Ringrazio le giudici per gli istruttivi commenti e i bellissimi banner; vi
rimando al link del forum se volete leggere i giudizi:
http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8851555&p=17
Le note della Follia
Il mio nome è Sasori della Sabbia
Rossa.
Ho sempre saputo di non essere come tutti gli altri; i
sentimenti umani non mi toccano, mi lasciano totalmente indifferente.
Forse non sono sempre stato così; ma se un tempo ero diverso, non ne ho memoria.
Ho perso i miei genitori in circostanze misteriose
quando ero ancora un bambino; da allora si prende cura di me un’orrida
vecchia che io chiamo nonna, verso la quale però non provo la minima
riconoscenza. Lei mi vuole molto bene e non mi fa mancare nulla; io non
sopporto i suoi modi sdolcinati e quello sguardo pietoso e preoccupato che ha
sempre dipinto in volto. Dice che si preoccupa per me,
che sono troppo freddo e distaccato; che non capisce, dopo tutto quello che ha
fatto per me, come io possa rimanere indifferente al suo affetto.
Ogni volta che trattiamo l’argomento io osservo i suoi occhi
velarsi di lacrime con una scrollata di spalle e le rivolgo uno sguardo obliquo
prima di uscire di casa sbattendo la porta. Ogni volta
il solito rituale: appena l’eco dei miei passi si spegne in lontananza, la
vecchia si lascia cadere sul divano sospirando e piange tutte le sue lacrime.
Lo so perché l’ho spiata dalla finestra.
Più osservavo il suo corpo mostruoso scosso dai singhiozzi e
più l’odiavo.
Da quel giorno cerco di rimanere fuori casa
il più a lungo possibile, uscendo tutte le sere e rientrando solo per
dormire quando il sole è già alto.
Mio malgrado mi sono fatto un amico che mi fornisca un alibi
per uscire; si chiama Deidara ed è un odioso biondino
che s’illude d’essere un grande artista, ma in realtà
è soltanto un pallone gonfiato.
Del resto il suo egocentrismo depone in un certo qual senso a suo favore: passiamo le nottate seduti al tavolo di
qualche squallido bar di periferia, ciascuno chiuso nel proprio mutismo, ad
ubriacarci, senza pretendere nulla l’uno dall’altro.
A dire il vero Deidara tenderebbe
ad essere chiassoso, soprattutto dopo qualche bicchiere; ma il mio umore tetro
riesce sempre a zittirlo.
“Dovresti dedicarti all’arte - mi dice sempre, aggiustandosi
il ciuffo biondo sull’occhio sinistro – gli esseri tristi e cupi come te sono spesso grandi artisti”.
E mentre io rispondo con un’alzata di spalle, si affretta
sempre ad aggiungere, “certo, non saresti mai bravo come me, ma che vuoi, io ce l’ho nel sangue…”
Oggi è venerdì; è un pomeriggio di Ottobre
inoltrato, il sole ha perso la forza con la quale d’estate scalda spiagge e
città e cuori della gente; fa freddo. È una stagione che mi si addice, perché
le persone diventano cupe e tristi, e il Natale con le sue terribili
sdolcinatezze è ancora lontano.
Sono chiuso nella mia stanza ad ascoltare Eminem. Il mio pezzo preferito: Criminal. Ad un certo punto il
brano si interrompe per lasciar posto ad uno sketch
spassosissimo, una delle poche cose al mondo in grado di farmi sorridere.
Eminem e un complice fermano
l’auto davanti ad una banca; Eminem apre la portiera
e scende, pronto per la rapina. Il guidatore lo blocca e gli dice, “Yo, Em…?”, il rapper
risponde, annoiato, “What?”, e l’altro: “Don’t kill nobody
this time…”
La portiera si chiude
di scatto e Eminem si
allontana bestemmiando sottovoce. Fischiettando entra in banca e si reca allo
sportello, dove un’impiegata trilla con voce melliflua, “Come posso esserle
utile?”. Si capisce che ha adocchiato il rapper, lo
reputa carino, lo rimorchierebbe. Lui risponde con nonchalance
che deve ritirare dei soldi, poi cambia totalmente tono di voce e appoggia con
veemenza la pistola sul banco intimando alla ragazza di mettere i soldi nella
busta se non vuol morire. Si sente il fruscio della busta di carta che si
riempie di banconote mentre l’impiegata, con voce
rotta dal pianto, lo prega di non ucciderla.
Finita l’operazione, Eminem attende una frazione di secondo, poi impugna la pistola, preme il grilletto e… BANG!
La giovane cade a
terra con un tonfo sordo, ed è solo allora che Eminem,
con voce da pazzo maniaco, le urla “Thank you!” prima di precipitarsi fuori dalla
banca col bottino.
Come sempre a questo punto dell’esilarante scenetta io
scoppio in una fragorosa risata.
Vorrei essere al posto di Eminem, per assaporare quella sensazione di potere
inebriante, il potere di decidere della vita altrui, di reciderla in una
frazione di secondo, muovendo appena l’indice di una mano; e poi fuggire a
bordo di un’auto con i vetri oscurati, le mani ancora tremanti per
l’eccitazione, e in testa un meraviglioso orgasmo di delirio d’onnipotenza.
Squilla il cellulare e mi distoglie mio malgrado
da questi piacevoli pensieri.
È Deidara.
“Dimmi,” sbuffo.
“Si, anch’io sono contento di sentirti, Sasori,” ironizza il biondino dall’altro capo del telefono.
“Volevo dirti – prosegue – che
stasera c’è un rave, ci andiamo?”
Immagini confuse dello scorso weekend – le luci, la musica,
le droghe – mi affiorano alla mente; sento un’ondata
di eccitazione assalirmi.
“Uhm… si, dai, si può fare,”
rispondo, facendo finta che mi interessi in maniera del tutto marginale.
Preparo lo zaino con una felpa, una torcia, un paio di accendini e una lattina di birra; indosso i jeans larghi,
le scarpe da skate e una felpa nera col cappuccio.
Mi guardo allo specchio compiaciuto: se non fosse per il
colore dei capelli, potrei anche assomigliargli. A Eminem, intendo. Mi torna alla mente la frase di un altro
suo brano:
Should I dye my hair pink and care what y’all
think…
I miei capelli sono di un rosso ramato chiarissimo, tendente
al rosa; e in effetti, anche a me non interessa cioè
che la gente pensa. Non mi interessa affatto.
Sprofondo nella mia poltrona preferita
mentre con mani abili mi preparo una canna. Ad ogni tiro assaporo
l’odore acre che mi permea le narici e butto fuori il fumo in eterei anelli che
svaniscono dopo pochi attimi, perdendo progressivamente la loro forma in un
turbinio meraviglioso.
Anche attraverso la porta chiusa sento
il campanello suonare nell’ingresso e la nonna trascinare i piedi fino al
citofono. Poco dopo bussa alla mia stanza.
“Il tuo amico è venuto a prenderti,”
dice con una nota di disappunto nella voce.
Raccolgo lo zaino da terra e apro la porta di camera mia
sperando di non incrociare l’orrida vecchia, ma non ho fortuna: mi aspetta
nell’ingresso con l’aria di un cane bastonato.
“Sai che giorno è oggi?”
Sospiro. È una domanda trabocchetto, lo so.
“No,” rispondo, mettendo mano alla
maniglia della porta, pronto a fiondarmi fuori.
Lei ha già gli occhi gonfi di pianto, mentre io apro la
porta e metto un piede sul pianerottolo.
“E’ il mio compleanno,” dice lei,
afflitta.
“Oh, beh. Auguri,” sbuffo,
annoiato.
“Speravo di passarlo con te,”
piagnucola lei, ma io ho già richiuso la porta alle mie spalle. Che terribile scocciatura, le donne. Specialmente quelle
anziane.
***
Io e Deidara arriviamo
al luogo della festa quando non c’è ancora nessuno. Un gruppetto di ragazzi sta
montando l’impianto, costruendo a fatica il muro di casse, mentre in lontananza
due pitbull ingaggiano una lotta all’ultimo sangue; i
loro vocalizzi minacciosi squarciano l’aria come il rombo del tuono in estate,
finché uno dei ragazzi non lancia loro una secchiata d’acqua gettandosi nella
mischia per dividere gli animali inferociti. Ne esce
bestemmiando con una profonda ferita alla mano destra, ma perlomeno i cani,
ansanti e sanguinanti, si allontanano l’uno dall’altro.
Cala il tramonto sulla vallata desolata; arrivano i primi raver. La musica inizia timidamente per poi farsi sempre
più assordante; le casse e i suonatori si sono ormai scaldati. Deidara mi prende da parte e mi fa provare qualche sostanza
sconosciuta di cui non ricordo il nome; tempo cinque minuti e ci gettiamo in mezzo alla folla danzante.
Passano i minuti, poi le ore; la musica mi rimbomba nelle
orecchie, penso solo a ballare e a scavalcare corpi umani fino ad arrivare in
prima fila, alle casse.
Il tempo scorre senza che io ne abbia
coscienza, la felpa nera col cappuccio finisce presto in cima ad una pila di
sue compagne fradice di sudore, ogni tanto qualcuno mi allunga due tiri di
canna o di sigaretta, contraccambio con la birra calda e ridotta ad un
concentrato amaro di schiuma.
Improvvisamente sono stanco, mi voglio
allontanare un po’. Tocco Deidara sulla spalla e gli
faccio cenno di abbassarsi; sebbene più giovane, è parecchio più alto di me, e
si deve piegare molto per portare l’orecchio all’altezza della mia bocca.
“Sono stanco,” urlo cercando di
sovrastare il tuonare sordo delle casse, ma ovviamente lui non sente. Ha una tale espressione da ebete che mi fa quasi sorridere.
“EEEEH?” mi chiede, ma già si volta nuovamente verso le
casse, vuole ballare.
“SONO STANCO!” ripeto, e questa volta sono sicuro che mi ha sentito, perché c’è stata una breve pausa nel martellare
ritmico della musica techno.
Il problema è che le parole sono sì arrivate al suo
orecchio, ma il suo cervello non è in grado di decodificarle, per cui restano per lui suoni senza senso alcuno.
Lo capisco dalla sua faccia.
“Vabè, a dopo,”
gli dico, sapendo di non sortire alcun effetto. Mentre mi allontano lo vedo
sbraitare contro un poverino che nel frattempo gli aveva
soffiato il posto davanti alle casse.
Mi faccio strada nell’ammasso
gelatinoso e sudaticcio di corpi caldi in movimento per un numero imprecisato
di minuti, poi finalmente percepisco la lieve brezza notturna sul mio volto.
Merda, almeno là in mezzo si stava al caldo, penso con un brivido. Sfortunatamente la mia felpa è rimasta
a far compagnia a Deidara. Getto il mio zaino a
terra, apro la zip e vi rovisto dentro alla cieca; non
che al suo interno vi siano tanti oggetti, ma in questo momento non posso
contare su una grande coordinazione muscolare. Bestemmio e rabbrividisco, rabbrividisco e bestemmio finché le mie dita sfiorano la
tiepida e tanto agognata stoffa. Mi infilo la felpa di
riserva mentre mi incammino verso un angolino silenzioso, dove inizio a rollare
una canna.
Sono così concentrato sulla mia attuale missione, che in
questo stato richiede il triplo delle facoltà mentali che impiegherei
normalmente, da non accorgermi della presenza di un intruso. Mentre armeggio
con filtro e cartina una giovane si siede silenziosa
al mio fianco, e mi saluta con voce stanca.
“Ciao,” dice sospirando, “posso
sedermi qui?”
Sobbalzo e mi volto di scatto a
guardarla. Normalmente sarei notevolmente scocciato per una simile intrusione,
ma la giovane è così bella da mozzare il fiato.
L’ovale perfetto del suo volto è incorniciato da lunghi
capelli rosa, e i suoi occhi sono così verdi e limpidi da poter essere
paragonati solo alle acque di un lago montano circondato da alti pini.
Scrollo le spalle, gesto che chi mi conosce mi vede utilizzare
in moltissime occasioni, e lascio scivolare lo sguardo sul seno prosperoso
(sarò insensibile, ma sono pur sempre fatto di carne), poi sulle mani che tiene
intrecciate in grembo.
Sono grondanti di sangue.
“Hai appena ucciso qualcuno?” le chiedo, ironico.
“No,” risponde, lievemente piccata.
Poi si guarda le mani e comprende. “Tutt’altro,” spiega. Ho appena finito di ricucire una mano umana e due
dannatissimi cani,” termina con aria stanca.
Per il Sasori di tutti i giorni,
queste informazioni sarebbero più che sufficienti per chiudere definitivamente
l’argomento; ma la droga che mi circola in corpo e la bellezza della giovane suscitano in me una curiosità mai provata prima. Non mi
trattengo, e fissandola in volto le domando se per
caso è un’infermiera.
“Sono un medico,” mi informa con
tono professionale.
Io sono sempre più confuso. “Che ci
fa un medico ad un rave?” le chiedo di getto, senza
pensarci troppo su.
“Beh,” ridacchia lei, “anche io ho
fatto le mie idiozie, in passato; e benché non sia più mia abitudine drogarmi,
mi è rimasta un’insana passione per la musica techno”.
Non so più cosa dire; dopo qualche attimo di
imbarazzato silenzio è lei ad aprire nuovamente bocca.
“Mi è rimasto un unico… vizietto,”
dice puntando gli occhi sulla canna che giace spenta e dimenticata tra l’indice
e il medio della mia mano destra.
Meravigliandomi di esser capace di una tale generosità, non
la lascio nemmeno terminare la frase e le infilo la canna tra le labbra
accendendogliela con un unico gesto.
Fumiamo per un po’ in silenzio, poi arriva un energico ragazzotto dalla improbabile
zazzera bionda che mi squadra dalla testa ai piedi con l’aria di chi, potendo,
mi incenerirebbe sui due piedi; si china e dice qualcosa nell’orecchio alla
giovane, che si alza prontamente.
“Beh, ciao e grazie,” mi saluta lei
con un sorriso, “adesso devo andare”.
Mentre la guardo allontanarsi il ragazzo
si volta indietro e mi rivolge un’ultima occhiata obliqua, cingendo
contemporaneamente le spalle di lei con un braccio. Seguo la strana coppia con
lo sguardo e con meraviglia scorgo la giovane che sale in console.
È lei la prossima a suonare.
Tutto mi sarei aspettato, meno che
questo. La ragazza non è un semplice raver, lei è una
dei fortunati eletti che sanno suonare questa musica meravigliosa.
Spengo la canna, la lancio lontano con un movimento fulmineo
del dito, e mi precipito nuovamente in mezzo alla folla; voglio essere primo in
fila quando lei incomincerà a suonare. Voglio
ascoltare la sua musica e ballare fino allo sfinimento.
L’inferno di quei corpi caldi mi accoglie
come la tiepida bocca di un mostro assetato di sangue; finisco in mezzo ad un
gruppo di raver particolarmente corpulenti ed
agitati, e data la mia scarsa altezza e la mia costituzione un po’ gracile,
resto svariati minuti a prendere calci negli stinchi e gomitate in faccia; è
fastidioso, ma non sento alcun dolore. Voglio però liberarmi dal
groviglio di quegli arti gesticolanti perché il mio obiettivo sono le casse. Non procedo che di pochi millimetri alla
volta, sono scocciato e sto per desistere quando…
La musica. Questa
musica. È lei, lo so, lo sento.
È meraviglioso. Suona
da neanche un minuto e io sono rapito, in estasi.
Il mio corpo è pervaso da una forza sovrumana, è sostenuto dal ritmo
martellante delle casse.
In un attimo sono in
prima fila.
Il suono mi accarezza
il volto, mi innalza sopra le nuvole, e mi fa provare
un orgasmo dei sensi.
Vorrei urlare. Mi
accorgo che tutti lo fanno, tutti hanno riconosciuto la sua mano dietro quelle
note e alzano le braccia al cielo, chiamando il suo nome.
Sakura.
Così è questo il suo
nome.
In mezzo al beat della
techno si insinua una
melodia dolce, come da carillon; l’ultima cosa che ricordo è il barrito di un
elefante e la sensazione di freddo sulle dita, che meccanicamente si
abbarbicano ad una sporgenza nel muro di casse. Piego la testa in avanti e la
fronte si poggia sulla miriade di minuscoli forellini dai quali si diffonde il
suono; sento le vibrazioni sul volto come rapidissime e microscopiche ondate di
terremoto.
***
D’improvviso, non sono
più al rave.
Sono in una grande casa nobiliare con pavimenti di marmo bianco.
Vedo me stesso bambino, il mio volto spunta dietro una maestosa
colonna.
Faccio un passo avanti esponendo l’intero corpo alla visione del me
stesso più adulto: Cristo, Sasori bambino è ricoperto
di sangue. Le mani gocciolanti, lo sguardo fisso nel nulla, il bimbetto è
immobile, ma singhiozza. Non scorrono lacrime sulle sue guance.
Panico. Indietreggio,
sconvolto. Che accidenti significa tutto questo? Dove
diavolo sono finito?
Aiuto…
“Ehi, amico!”
È la voce di Deidara. Aiutami… ti prego.
Soffoco.
Sensazione di bruciore
sul volto: Deidara mi schiaffeggia. Torno in me.
“Cristo, Sasori, ma che hai?!” domanda il ragazzo, preoccupato.
“I-io non- …cazzo,
Deidara, grazie!”
Cerco di tirarmi in piedi; non so come né quando sono finito
a terra, sotto le casse, la musica è cessata, la gente sparita. Le braccia
forti di Deidara mi sorreggono.
Non riesco a tenere la testa diritta e così mi ritrovo ad
osservare il mio corpo; è ricoperto di fango. Frugo nella tasca della felpa
alla ricerca di un fazzoletto, sperando di ripulirmi un po’.
Con mia sorpresa le dita incontrano un oggetto tondeggiante
e metallico che non conosco. Lo estraggo dalla tasca, deciso a non stupirmi più
di alcunché.
Invece mi stupisco, eccome. È un
microfono: è tutto rosa e reca un piccolo biglietto rosso.
Prima di dedicarmi
alla techno ero una cantante pop.
Questo microfono è il mio portafortuna.
Lo regalo a te.
-
Sakura
Appena la mia pelle entra in contatto con la superficie
fredda del microfono, ho un conato di vomito e la testa prende a girarmi
vorticosamente.
Indietreggio, inciampo e cado nuovamente nel fango causato dall’umidità
mattutina e dallo scalpiccio di centinaia di raver.
“Deidara… po-portami
a casa,” balbetto, con la testa che martella e le
farfalle nello stomaco.
***
Arriviamo sotto casa mia che è mattina inoltrata. Un pallido
sole si affaccia dietro soffici nuvole bianche mentre Deidara mi saluta, squadrandomi con aria lievemente
preoccupata. Mi allontano con un cenno della mano, salgo le scale con un senso
di vertigini, sono costretto ad aggrapparmi al corrimano con tutte le mie
forze. Arrivato finalmente in casa mi precipito in camera mia senza nemmeno
cercare la nonna; mi getto sotto le coperte dopo essermi sfilato i vestiti,
ridotti ad una pila maleodorante e fradicia di fango e terra. Sprofondo
velocemente in un sonno senza sogni.
***
Lentamente, dolorosamente, apro un occhio,
poi l’altro.
La mia stanza è immersa nella penombra; lancio una fugace
occhiata all’orologio digitale sul mio comodino, constatando che sono le nove
di sera. Ho dormito tutto il giorno.
La mia testa minaccia di scoppiare,
appoggio le mani fredde alle tempie nel tentativo di alleviare un po’ il
dolore, ma senza risultato alcuno. Il mio primo pensiero va al rave… a lei.
Nel cassetto del comodino ho riposto il microfono rosa: mi
viene voglia di guardarlo. Sollevo il busto accogliendo con rassegnazione
l’ennesima scarica di dolore nelle tempie e apro lentamente il cassetto. Mi
sembra che scorrendo sulle guide faccia un rumore infernale.
Il dono di Sakura è lì, in cima ad una pila di fogli
scarabocchiati. Allungo la mano per prenderlo; non ci arrivo, sono costretto ad sporgermi lateralmente, lo tocco appena con i
polpastrelli.
Nell’istante in cui sfioro la sua superficie dura…
Di nuovo: la colonna,
il marmo, me stesso bambino. Ma questa volta sono
proprio *dentro* di lui.
Istintivamente mi
osservo le mani: sono intonse e bianchissime.
Niente sangue.
“Sasori!”
mi volto di scatto verso la voce squillante che mi ha chiamato.
Non l’ho mai vista,
eppure ne sono certo: è mia madre.
Lo so; lo sento; non
ho bisogno di alcuna conferma.
Lo so e basta.
La guardo avvicinarsi,
sorride amorevolmente, è giovane e allegra, è bellissima.
“Vieni,” mi dice tendendomi una mano, “c’è un regalo per te”.
Buio. Nausea.
Vertigini.
Panico.
Un urlo squarcia
l’aria, un tonfo sordo.
Mi appoggio
alla colonna di marmo con entrambe le mani, non mi reggo in piedi.
Sollevo lo sguardo verso l’oggetto che mi sorregge: orrore. Nel punto in cui ho
appoggiato i palmi, la colonna si è tinta di rosso. Le mie mani grondano
sangue.
“Sasori, Sasori,
svegliati!”
La nonna mi scuote violentemente, facendomi tornare alla
realtà.
La guardo stralunato; prima che lei possa rivolgermi
qualsiasi domanda, mi catapulto fuori dal letto e
verso il bagno.
Vomito.
Lei mi raggiunge, preoccupata: “Stai bene? Urlavi nel sonno.”
“Vattene,” rispondo appena riprendo
fiato. Non mi va che stia a guardarmi mentre riverso
il contenuto del mio stomaco nel cesso.
Lei però mi poggia una mano sulla spalla.
“Sei sicuro?”
“Non sono un bambino,” la informo
con astio, “lasciami in pace; non ho nulla, ho solo preso freddo, non vedi?”
Lei si allontana con passo stanco, e chiude la porta del
bagno con estenuante lentezza.
***
Dopo una notte di sonno ristoratore, mi sento meglio.
Mi sono convinto che quelle assurde visioni derivassero dalla
fantasia della mia mente, dato che con le sostanze psicotrope non ci sono
andato leggero, venerdì notte.
Ho lo stomaco ancora rovesciato, ma per il resto affronto la
giornata con insolito entusiasmo.
Eppure… c’è qualcosa, nella mia
mente, che frulla; sono irrequieto, e non so perché.
Verso sera mi torna in mente Sakura, e ancora una volta
sento un’inspiegabile voglia di osservare da vicino il suo microfono. Non
riesco davvero a capire cosa mi stia succedendo, dentro; e forse anche
fuori. Mi guardo allo specchio e mi vedo diverso, cambiato. Più adulto, forse.
Tento di rollare una canna, ma il primo tiro mi fa schifo e
la spengo.
Sento che non ne ho più bisogno e che non ne
avrò mai più.
In realtà mi fa piacere: non ho mai amato essere schiavo di
nulla e di nessuno, io.
Prendo il microfono in mano.
“Sasori!
Vieni, c’è un regalo per te”.
“Non lo voglio,
mamma”.
La giovane donna mi prende gentilmente per il polso, mi trascina verso un’altra
stanza.
“E
dai, su! Tutti i bambini amano i regali, e poi questo è speciale, vedrai!”
“Mamma, non voglio,” ribadisco aggrappandomi allo stipite della porta, deciso
a non spostarmi di lì.
Lo slancio di mia
madre è però troppo, e le mie dita si stringono saldamente attorno al legno; nella
foga delle due forze opposte e contrarie che si fronteggiano io finisco a terra
rompendomi il labbro.
“Oh, Dio, scusa,” dice lei aiutandomi a rialzarmi, “non volevo, piccolo...”
Sento una strana
rabbia assalirmi.
Di nuovo la nausea e
il panico.
Il rumore di una porta
metallica che si chiude dietro di me; ho paura.
Urlo,
mentre le mie mani si tingono ancora una volta di rosso rubino.
Il colore del mio
sangue.
Il sangue del mio
labbro tagliato.
Squilla il cellulare, sono di nuovo
nella mia stanza.
Ringrazio mentalmente quell’idiota
di Deidara, ottimo tempismo. Quel sogno assurdo che
stavo vivendo ancora e ancora peggiorava ogni volta, insieme alla nausea e al
senso di oppressione che mi faceva provare.
“Ci ubriachiamo stasera, Sasori?”
chiede il biondo, che non si è accorto di nulla.
Io sono ancora scosso dalla visione, e non rispondo subito.
In realtà ci sto pensando, ma l’idea mi ripugna.
“No, grazie; non ne ho voglia,”
rispondo, cercando una scusa per riattaccare al più presto.
Ci riesco poco dopo grazie al mio umore nero e al mio cinismo.
Mi abbandono sul letto; devo riflettere;
ma che diamine sta succedendo, qui?
Possibile che… ogni volta che penso a
Sakura, io… anzi, ogni volta che tocco quel microfono, io…
No, non è possibile.
Eppure…
In uno stato d’ansia crescente e d’eccitazione febbrile
cerco il piccolo oggetto metallico, devo fare una prova. Lo trovo in un angolo,
sicuramente ve l’ho scagliato io stesso mentre non ero
cosciente.
Devo anche aver usato una discreta forza nel lanciarlo
contro il muro, perché la vernice rosa si è staccata in più punti, lasciando
intravedere il colore originale dell’oggetto. È blu scuro.
Sono indeciso sul da farsi; vorrei toccarlo, ma non so che
altro mi potrà succedere.
Mentre indugio e osservo da vicino
l’oggetto delle mie paure e dei miei desideri, noto che un grosso quantitativo
di vernice si è staccato proprio al centro dell’asta. Accidenti, c’è una
scritta.
È in corsivo molto piccolo, non riesco a leggere; e poi, è
al contrario. Dovrei girare il microfono per sperare di capirci qualcosa.
Mi viene un’idea: prendo dall’armadio le mie bacchette da
batterista e con cautela rigiro il microfono, portandolo sotto la lampada della
scrivania. Sono emerse due lettere dorate, che risaltano splendidamente sul fondo
blu scuro: OR.
E che accidenti vuol dire “or”?
…d’accordo, non ho altra scelta.
Sempre usando le bacchette scaglio il microfono contro
l’armadio. Sono deciso a sbatterlo finché la vernice rosa non lascia il posto
alla scritta dorata nella sua interezza. Voglio sapere che segreti nasconde
questo strano oggetto, e perché mai la ragazza dai capelli rosa l’ha regalato
proprio a me. Troppe domande si affollano nella mia mente
mentre si fa strada prepotente una teoria, che non ci sia nulla di
casuale nel mio incontro con Sakura, né tanto meno nel suo regalo.
Qualcuno bussa alla porta, una mano segnata dalle rughe apre
timidamente, appare la faccia della nonna.
“Chi ti ha chiesto di entrare?” la aggredisco
immediatamente.
“Scusa, è che ho sentito dei rumori, e…”
Si interrompe, interdetta nel
vedermi in piedi vicino al letto mentre con le bacchette da batterista sono
pronto a scagliare un oggetto mezzo rosa e mezzo blu verso l’armadio.
La sorpresa però passa in fretta, e lo sguardo da falco
della nonna si fissa proprio sul microfono.
“Ma cos…”
Prima che io la possa fermare, si
avvicina e prende in mano l’oggetto proibito, rigirandoselo più volte fra le
dita. È così vicina a me che riesco a leggere altre lettere nel frattempo
riemerse sotto la vernice rosa; ora la scritta è composta di quattro lettere: ASOR.
La nonna ha un sussulto e lascia cadere il microfono a
terra. A stento reprime un grido.
Si volta verso di me, la luce nei suoi
occhi si è spenta.
Mi guarda con volto funereo e pallidissimo.
“Sasori, dove hai preso quel
microfono?” chiede sconvolta.
Sono spiazzato: non l’ho mai vista così.
“Beh, ecco, vedi, io…”
“Chi te l’ha dato?” mi interrompe,
alzando la voce più di quanto io non le abbia mai sentito fare.
“Io non…”
“SASORI, RISPONDI! CHI TE L’HA DATO?!”
chiede ancora, in un tono che non ammette repliche. Noto la vena del collo
gonfiarsi pericolosamente. È fuori di sé.
“Nonna, io… una ragazza, si chiama Sakura, non so altro,” balbetto, in stato totalmente confusionale.
Quando sente quel nome, la nonna
lancia un grido. Rapidissima raccoglie il microfono da terra e se lo sistema in
tasca.
Mi guarda con orrore. “Questo lo prendo io,”
dice, uscendo dalla mia camera e sbattendo la porta.
Adesso sono veramente in crisi.
Ma che accidenti aveva la nonna?
Cosa sa che io non so?
E d’altro canto, non oso chiederle
nulla.
Per la prima volta in vita mia, sono intimorito da lei,
sempre così buona e pacata.
Oggi si è trasformata in un mostro e mi fa paura.
Più di tutto, ho capito che conosce Sakura, e voglio
scoprire come mai.
Con febbrile agitazione compongo il numero di Deidara sul cellulare.
“Vienimi a prendere,” gli dico con
un fil di voce non appena risponde.
Lui sta per replicare, ma lo blocco: “Non fare domande”.
Dall’altro capo del telefono, il ragazzo scoppia a ridere.
“Sei sempre il solito, ma d’accordo,” mi dice; “tanto,
non avevo altri programmi per stasera”.
***
Siamo in macchina, fermi sotto casa
mia. Diluvia; i vetri sono totalmente appannati. Deidara
mi osserva con aria di chi non capisce nulla di ciò che gli viene
detto. La sua espressione si tramuta da incredula a preoccupata: non tanto per
il mio racconto sconclusionato, quanto per la mia
evidente agitazione. Io vomito fuori un groviglio inestricabile di parole senza
senso dalle quali ogni tanto emergono il nome di Sakura e il microfono
maledetto.
“Deidara… ecco, non so come… ti
spiego, io… no, aspetta… volevo dire che… Sakura…
quella ragazza… accidenti, tu non l’hai vista… il microfono, quello si però!
Quello l’hai visto! Ecco, vedi, noi dobbiamo…
dobbiamo trovarla, Deidara, dobbiamo trovarla SUBITO!”
Deidara si riprende velocemente
dallo stupore iniziale, e recupera la sua solita aria da bulletto
impertinente so-tutto-io.
Evidentemente la situazione ha qualcosa di comico, perché scoppia in una sonora
risata.
“Ok, Sasori,
adesso calmati, però,” dice con un ghigno ancora
dipinto in volto.
“Chi è che dobbiamo trovare?” chiede.
Nel frattempo io mi sono calmato un po’, anche perché la sua
risata mi ha fatto innervosire e tornare in me: dopotutto, rabbia e nervosismo
sono sentimenti che più si addicono alla mia persona, mentre fino ad oggi non
si poteva dire altrettanto riguardo a sensazioni come angoscia e agitazione.
“Una ragazza che suonava al rave
sabato notte,” rispondo, lottando per restare il più
lucido possibile. “Come faremo a trovarla,” aggiungo
sconsolato, piantando gli occhi sul tappetino fradicio dell’auto utilitaria di Deidara.
Lui ride di nuovo, frugando contemporaneamente nello spazio
portaoggetti della portiera.
“È facile,” dice poi trionfante
esibendo un minuscolo e sgualcito foglietto, “guarda!”
Gli strappo letteralmente il
piccolo volantino dalle mani: è il flyer della festa. In basso, sotto
all’immagine di un muro di casse, c’è l’elenco dei gruppi che suonavano quella
sera.
C’è anche lei: Sakura23. Fa parte di un gruppo di ragazze
suonatrici chiamato “Techno Queens”:
c’è l’indirizzo del Centro Sociale che utilizzano come
casa base.
Non è lontanissimo da qui, penso
con un tuffo al cuore. “Andiamo,” ordino a Deidara.
“Uff, hai finito di dare ordini?” risponde lui, ma intanto ha già avviato il
motore.
Questa ricerca lo intriga, anche se non ha capito nulla del
perché io mi sia imbarcato in tale missione, e me lo conferma domandandomi se
la ragazza in questione mi piace, se è carina.
Non mi premuro nemmeno di rispondere e sprofondo nel sedile
con un sospiro. Sono agitato al pensiero del confronto con Sakura. Voglio
scoprire tutto ciò che mi nasconde, e voglio uscire vittorioso dall’inevitabile
confronto con lei. È vero, avevo pensato che fosse
carina, anzi, bellissima. Adesso invece la vedo come un
mostruoso essere indiavolato, capace di consegnarmi con un sorriso un
misterioso e maledetto oggetto. Un oggetto che mi fa
provare sensazioni orribili per me sconosciute. Un oggetto che, me lo
sento, mi porterà alla rovina.
L’auto di Deidara si ferma in un
parcheggio lurido costellato di lattine di birra e fazzoletti sporchi.
Ho il cuore in gola e mi tremano le ginocchia.
Mi detesto perché sino ad oggi non conoscevo il mio lato
“umano” in grado di provare sentimenti quali paura, ansia, frustrazione,
sgomento; voglio tornare ad essere insensibile come prima. Si vive molto meglio
senza il fardello di queste orribili sensazioni. Si vive meglio senza sentire
il cuore oppresso da mille irrisolvibili dilemmi; si vive meglio se non si è in
grado di provare nulla.
Stringo i denti, le mie parole giungono
all’orecchio di Deidara in un ringhio sommesso:
“Resta qui”.
“Ma…” prova a protestare il curioso
biondino.
“Per favore”. Io stesso stento a credere di averlo quasi
supplicato, ma da quando ho incontrato Sakura non sono più me
stesso.
Mi vergogno del mio comportamento, così volto rapidamente le
spalle al ragazzo, lasciandolo ancora seduto al volante con la gamba sinistra a penzoloni, bloccata nello slancio della discesa a causa
della mia richiesta.
Con la mano afferro il bavero del mio giubbotto per
ripararmi dal vento gelido e dall’acqua sferzante che mi investe,
mentre a grandi passi annullo la distanza fra me e l’ingresso del centro
sociale. Entro fradicio in un androne scarsamente illuminato
e dai muri anneriti, pieni di scritte colorate. Una giovane che in volto
ha più piercing che pelle siede all’ingresso e mi
rivolge un’occhiata perplessa prima di lasciarmi passare.
Uno squallido corridoio mi conduce
alla sala principale. È deserta.
Serro le mani a pugno con una forza tale da sentire le mie
unghie penetrare nella carne.
“Sakura!” provo a chiamare; la mia voce rimbomba nell’ampio
e buio salone, sembra il rantolo di un morto giunto dall’oltretomba, o peggio:
di un ragazzo che in un solo weekend, senza sapere
come, si è ridotto ad essere il fantasma di se stesso.
Dopo un attesa che mi pare durare
in eterno, una voce maschile mi risponde:
“Chi la cerca?”
La voce viene da un punto imprecisato
sopra di me. Mi precipito verso le scale, le salgo a due a due. Un
pianerottolo dopo l’altro, divoro i gradini scivolosi; non ci faccio gran caso,
ma salgo almeno fino al quinto piano.
Arrivato in cima mi scontro con un corpo caldo e minuto;
nello slancio non ho guardato dove mettevo i piedi, ho investito qualcuno.
Alzo lo sguardo: è lei.
Mi stava aspettando, glielo leggo
in volto. Non ha più nulla dell’aria gentile dell’altra sera, ma un’espressione
dura, astiosa.
Mi odia e io non la conosco nemmeno.
Mi odia e io non so neppure il perché.
Indietreggio di un passo, rischiando di ruzzolare giù dalle
scale, ma riprendo in tempo l’equilibrio. La potenza dello sguardo
di lei mi mette in soggezione, ma non voglio farglielo vedere.
“Dobbiamo parlare,” le dico serio
cercando di rendere la mia voce più neutra possibile.
Lei mi fa cenno di seguirla e infila uno stretto passaggio
che conduce alla sua camera.
Vi entra, la imito; chiude la porta dietro di me e io mi
sento subito come un topo in gabbia.
Rimaniamo in silenzio a squadrarci l’un l’altro,
senza riuscire a proferir parola.
“Dov’è il mio microfono?” chiede
infine lei. Il suo sguardo pare voler penetrare le profondità più recondite
della mia anima martoriata.
“Cosa sono quelle visioni… che quel
tuo oggetto mi fa avere?” rispondo io, sentendo uno strano odio montarmi
dentro.
“Siediti, Sasori,”
dice, indicando il letto sudicio sul quale lei stessa si accomoda.
Non so se obbedirle, ma alla fine, esitante, appoggio appena
le natiche sul bordo esterno del materasso, il più possibile lontano da lei.
“Sei riuscito a leggere la scritta sotto
la vernice rosa?” domanda Sakura a bruciapelo.
“Solo in parte, ma cosa c’entr-”
“C’entra eccome,” mi interrompe
lei, senza accorgersi che ha impercettibilmente alzato il tono di voce.
“C’è scritto ASOR-”
“No.”
La guardo di sbieco.
Aspetta un attimo prima di
correggermi.
“C’è scritto SASORI”.
“COSA?!?” Accidenti, capisco sempre
meno di tutta questa storia.
“Quel microfono era tuo,” dice lei
laconicamente. Il suo sguardo si posa alternativamente sul mio volto e sulla
coperta sgualcita, che tormenta con le dita lunghe e affusolate.
“Sakura, adesso basta. Dimmi tutto: non ce la faccio più. Che cosa significa tutto questo?” sputo fuori le domande di getto,
con rabbia, sentendo l’ansia farsi sempre più consistente. Mi toglie
quasi il respiro.
“Era un regalo dei tuoi genitori -dei nostri genitori- per te. Tu eri piccolo
e…”
La sua voce tradisce un leggero tremolio. Sakura stringe la
coperta tra le dita fino a farle diventare bianche.
“Come?!?! Tu sei… mia sorella?!?”
Ricordo vagamente di aver avuto una sorella, ma la nonna mi ha sempre detto che
era morta nell’incidente che mi aveva portato via i genitori.
“Già, e me ne vergogno,” precisa
lei, guardandomi con astio. Mi accorgo che i suoi occhi sono pieni di lacrime.
“E il microfono…?” chiedo; voglio riportare il discorso su
ciò che mi interessa. Mi odiasse pure; non mi importa. Voglio sapere il perché di quelle orribili
visioni.
“Era un regalo di mamma e papà. Tu non lo volevi,
non ti è piaciuto e…”
“E
dai, su! Tutti i bambini amano i regali, e poi questo è speciale, vedrai!”
“Mamma, non voglio,” ribadisco aggrappandomi allo stipite della porta, deciso
a non spostarmi di lì.
Lo slancio di mia
madre è però troppo, e le mie dita si stringono saldamente attorno al legno;
nella foga delle due forze opposte e contrarie che si fronteggiano io finisco a
terra rompendomi il labbro.
“Oh, Dio, scusa,” dice lei aiutandomi a rialzarmi, “non volevo, piccolo...”
Sento una strana
rabbia assalirmi.
Di nuovo la nausea e
il panico.
Il rumore di una porta
metallica che si chiude dietro di me; ho paura.
“Ecco il tuo regalo,” dice papà sbucando dalla stanza accanto.
Irato per il taglio
sul labbro che sanguina copiosamente, e in collera per un regalo che non volevo
ricevere, scarto il pacchetto con furia.
È un microfono blu.
Inciso a caratteri
dorati, il mio nome: SASORI.
“Che schifo di regalo,
mi fa schifo!!!” urlo, furibondo.
Mamma e papà si
avvicinano a me con aria preoccupata.
“Perché
sei sempre così cattivo?” mi chiede papà con incredibile tristezza mista a
rassegnazione.
“Sapevamo che ti piace
la musica…” dice la mamma quasi in tono di scusa.
Sono vicini, troppo vicini; mi soffocano. Non sopporto i loro volti preoccupati,
la loro tristezza e disillusione. Rabbia e nausea, nausea e rabbia.
Si avvicinano
ancora, non lo posso più sopportare.
Li colpisco
ripetutamente al volto con il microfono; crollano a terra, prima lui e poi
anche lei, in una pozza di sangue.
Infierisco
sui loro volti irriconoscibili, le mie mani grondano sangue.
Il sangue dei miei
genitori.
Sono di nuovo nella stanza di Sakura, mi
contorco sul pavimento lurido e freddo.
Lei piange sommessamente; io, senza volerlo, urlo.
Ho ucciso i miei
genitori.
COME HO POTUTO?
Urlo nel mio cervello, mentre dalle mie
orecchie giunge la stessa domanda, la voce di mia sorella:
“COME HAI POTUTO?”
“Cosa ti avevano mai
fatto, loro, altro che volerti bene!?!?”
La rabbia di Sakura, i suoi singhiozzi, il suo odio. Tutto giustificato, tutto comprensibile adesso.
Mi sento svuotato dentro. Ho bisogno di vomitare; lo faccio
senza complimenti, aggiungendo sudiciume a sudiciume
nella squallida stanzetta del centro sociale.
Alla vista della mia reazione, Sakura si calma un po’. Forse
credeva che sarei rimasto impassibile, che tutto mi sarebbe scivolato addosso, come è sempre successo.
Fino ad oggi.
“Tu sei malato,” dice semplicemente
Sakura, dopo un lungo e tormentoso silenzio; “nessun bambino sano di mente
ammazzerebbe a sangue freddo i suoi genitori per un… regalo sbagliato.”
Non so cosa rispondere; l’immensità e la gravità delle sue
rivelazioni sono per me insopportabili, il pensiero razionale mi è precluso.
Rimango in attesa, ascoltando i
singhiozzi di Sakura, il cui ritmico succedersi mi culla in uno stato di semi
incoscienza. Sento la lucidità scivolare via rapidamente e non tento di
bloccarla.
Il silenzio si protrae penoso per lunghi ed inesorabili
minuti, minuti durante i quali matura in me una folle
decisione.
Infine, Sakura parla. “Io ho visto tutto,”
dice, con la voce rotta dall’emozione.
Visto che non do segni di aver inteso, anche se le sue parole
mi feriscono come dardi avvelenati, lei si sente di specificare:
“Ero sul soppalco della sala, quel maledetto giorno,” continua, ormai fuori di sé nel ricordo delle mostruosità
che era stata costretta ad osservare, quale impotente testimone ed inesorabile
giudice; “Giocavo a nascondino con la nonna, e…”
Ancora silenzio, interrotto solo dal ritmico martellare
delle mie tempie. Sento che la mia testa esploderà.
“Sono scappata, dopo. Scappata senza mai più voltarmi
indietro; era l’unico modo per… poter anche solo sperare di continuare a vivere. Dimenticare la mamma, il papà, la
nonna; ma soprattutto te.”
Non si cura dei miei continui conati di vomito; rimane
immobile sul letto, lo sguardo fisso al mio corpo, che si contorce come una
serpe agonizzante.
“Ma poi ti ho visto al rave. Sapevo che
quel microfono avrebbe risvegliato in te questi terribili ricordi; volevo farti soffrire”.
Cala nuovamente il silenzio, la vedo
asciugarsi le lacrime rabbiosamente col dorso della mano.
“Solo ora, però, mi rendo conto che
non è con la vendetta che si ottiene un po’ di pace”, conclude sospirando.
In quel momento non potevo saperlo, ma quelle erano le
ultime parole che Sakura mi avrebbe mai rivolto.
La giovane, il volto ridotto ad una orrida
maschera di sofferenza e lacrime, si alza di scatto e si dirige verso la porta,
evitando accuratamente le pozze di vomito verdastro che ho riversato sul
pavimento. Esce dal mio campo visivo; sento il rumore di una porta metallica
che si chiude dietro di me, proprio come nella mia visione.
Sono rimasto solo, il panico mi assale; matricida, parricida, urla una voce
implacabile dentro di me; la testa gira vorticosamente.
Ma io ho deciso.
Lentamente, dolorosamente, costringo il mio corpo debole,
ridotto ad un vuoto involucro, ad alzarsi; mi reggo al letto, curvo sotto il
peso dei miei inesprimibili peccati. Con esasperante lentezza raggiungo la
finestra annerita, la apro; una sferzata di vento e pioggia mi
investe, lavando il vomito dal mio volto. Sotto la finestra c’è una sedia, la uso per salire sul cornicione. Ogni
movimento mi costa una fatica indicibile, ma la mia mente è risoluta come non
mai. Dove non arriva il mio corpo stanco, arriva la superiore
forza di volontà.
Rimango per un attimo in piedi sul cornicione, in precario
equilibrio. Per la prima volta in tutta la mia vita, rivolgo gli occhi al cielo
e mi pento.
Mi pento di esistere, di essere nato; di essere così
maledettamente malvagio.
Ma per le anime nere come la mia, non vi è possibilità di espiazione.
Rivolgo lo sguardo in basso, nel
parcheggio scorgo la macchina di Deidara. Il
mio ultimo regalo per lui sarà il tonfo sordo del mio corpo sull’asfalto
fradicio.
Con un ultimo sospiro spicco un salto; per un attimo rimango
sospeso tra il cielo e la terra. Mi sento quasi felice. Mentre precipito non
penso ad altro che non sia la piacevole carezza del
vento sul mio volto.
È così che doveva finire: la morte reclama un’altra vittima,
quella di colui che ha ingiustamente reciso la vita
delle due persone che gliel’avevano donata. Non c’è giustizia a questo mondo,
tranne quella che ci costruiamo noi.
Mentre il mio corpo viene
scaraventato sull’asfalto, fantoccio vuoto senz’anima, sorrido; so che il mondo
non mi rimpiangerà.