PROLOGO
Nella seconda metà
del sedicesimo secolo, il Giappone è devastato dalla guerra civile.
I fuochi delle battaglie distruggono
la terra, e il potere centrale è inerte dinnanzi alla violenza indiscriminata
che di giorno in giorno diventa sempre più incontrollabile.
Molti signori della guerra, alla
guida dei rispettivi clan, si combattono ferocemente tra di loro per ottenere
il potere, e fra di essi vi è Oda Nobunaga, daimyo della provincia di Owari.
Carismatico e sanguinario, Nobunaga è impegnato da anni in una difficile
campagna militare volta ad unificare l’intero Paese sotto un solo stendardo, e
per riuscire in questa difficile impresa il
signore degli Oda si è avvalso di ogni possibile soluzione, sfruttando al
meglio la propria abilità di condottiero e uomo politico; per assicurarsi una
vantaggiosa alleanza ha dato in sposa la sorella Oichi a Nagamasa Azai,
garantendosi in questo modo l’alleanza del potente clan Azai della provincia di
Omi.
In quanto dotato di grande
esperienza e di una mentalità aperta al cambiamento, Nobunaga ha compreso
subito l’immenso potenziale offerto dalle armi da fuoco, allora ancora
sconosciute in Giappone e arrivate da oltreoceano grazie ai mercanti
portoghesi; inoltre, usando come un’arma la nuova religione predicata dai
missionari arrivati dall’Europa, che in poco tempo aveva trovato un buon numero
di fedeli, è riuscito nell’intento di seminare sospetto tra i suoi oppositori,
ostili nei confronti dei costumi occidentali, che troppo occupati a scontrarsi
l’un l’altro non riescono a coalizzarsi per contrastare la sua armata, che
diventa di giorno in giorno sempre più potente.
Uno dopo l’altro i nemici degli Oda
cadono come foglie secche, e ormai i clan Takeda e Nagao, guidati dai loro
ultimi discendenti, Shingen Takeda e Uesugi Kenshin, sono tutto ciò che divide
Nobunaga dal controllo totale sul Giappone.
Tuttavia, prima di infliggere il
colpo finale agli unici avversari in grado di minacciarlo, il signore degli Oda
ha voluto assicurarsi un altro prezioso alleato, pertanto, accompagnato dai
suoi più fedeli generali, Ieyasu Tokugawa e Akechi Mitsuhide, e dal suo nuovo
genero, Azai Nagamasa, ha mosso le proprie armate in direzione di Kyoto per
spodestare Ashikaga Yoshihide, shogun fantoccio controllato dal clan Miyoshi, e
mettere al suo posto un proprio alleato, Ashikaga Yoshiaki, con l’intento di
occupare militarmente la capitale del Paese e poter contare allo stesso tempo
su di uno shogun fedele che avrebbe legittimato tutte le sue future conquiste.
Mentre i nobili e i potenti si fanno
la guerra, nei campi i contadini cercano per quanto possibile di continuare la
propria pacifica esistenza, ma i briganti, le razzie, le confische e i continui
ribaltamenti di potere hanno esasperato gli animi, portando ovunque sconforto e
rassegnazione, e ora che Nobunaga si appresta ad entrare a Kyoto sono in molti
a ritenere che da ora in poi le cose potranno soltanto peggiorare.
Provincia di Tamba
Agosto 1568
La giornata volgeva al termine nel piccolo villaggio
adagiato placidamente sul fondo della vallata, circondato dalle risaie.
Il sole
stava quasi per completare la sua discesa oltre l’orizzonte, e il fresco
venticello della sera trasportava dalle montagne un piacevole odore di erbe,
preannunciando quella che sarebbe stata una splendida notte.
Da
laggiù, da quel piccolo eremo di tranquillità e pace, la guerra che
imperversava nel resto del Paese sembrava così lontana, ed erano passati anni
dall’ultima volta che gli abitanti avevano visto un soldato o un samurai. Gli
alti monti fornivano protezione, e gli unici valichi che li attraversavano
erano troppo stretti per permettere ad un esercito di passarci agevolmente,
senza contare che solo pochi ne conoscevano l’ubicazione. Infine, la vicinanza
alla capitale scoraggiava le azioni dei briganti, che altrove invece regnavano
indisturbati.
La
campana posta in cima alla torre annunciò a tutti la fine del lavoro, e i
contadini, affaticati ma soddisfatti da una lunga giornata lavorativa,
cominciarono a rientrare; le spighe crescevano come non avevano mai fatto, e
per la fine dell’estate si preannunciava un raccolto davvero memorabile.
Uno degli
ultimi ad abbandonare il proprio lavoro fu un giovane appena diciottenne
dall’espressione amichevole. Ciò che colpiva maggiormente di lui erano i suoi tratti,
che pur rievocando in parte quelli tipici del popolo giapponese, con occhi
leggermente allungati e i capelli neri, erano in verità molto particolari, e
praticamente unici all’interno della sua comunità: altezza leggermente sopra la
media, corporatura slanciata e prestante, occhi marrone scuro e volto
tondeggiante.
Il suo
nome era Iguro, ed era figlio di Toru Takemura, uno degli uomini più in vista
del villaggio, e di certo il più rispettato.
Appena
tornò verso casa, l’unica leggermente più sfarzosa delle altre e circondata
anche da un piccolo muretto, gli venne incontro proprio suo padre, che invece
era già rientrato da alcuni minuti. Lui che era suo figlio non ci faceva caso,
e lo stesso valeva per i suoi concittadini, ma la zoppia che affliggeva Toru
alla gamba destra era più che evidente, tanto da costringerlo ad una camminata
ondulante e molto lenta, ma questo serviva solo ad accrescere il senso di
rispetto che la sua figura suscitava in chi gli stava intorno.
Poco più
che cinquantenne, aveva occhi neri che trafiggevano più di una lama, capelli
corvini raccolti in cima alla nuca in una coda nobiliare, cosa insolita per un
contadino, per quanto rispettato, e un accenno di barba a circondargli la
bocca.
«Bentornato,
figliolo.»
«Grazie,
padre.» rispose il ragazzo facendo un lieve inchino.
Poco dopo
sopraggiunse anche la madre, Suzue, una donna che, per quanto piuttosto avanti
con gli anni, conservava ancora un certo fascino: di dieci anni più giovane del
marito, in gioventù aveva lavorato come governante a Kobe, sua città natale,
presso alcune nobili famiglie occidentali, soprattutto di ricchi mercanti, la
più importante delle quali era stata senza alcun dubbio la famiglia
dell’esploratore portoghese Fernão Mendes Pinto, in assoluto il primo occidentale
nella sTorua ad aver messo piede in Giappone.
«Iguro.»
«Madre.»
«Anche
oggi hai fatto tardi.»
«Mi
dispiace, avevo del lavoro da finire.»
«Avanti,
venite dentro tutti e due. Ho appena finito di riscaldare l’acqua».
Al
termine di una massacrante giornata nei campi non c’era niente di meglio di un
bella immersione in una tinozza d’acqua calda per recuperare le forze, e non
era raro che, come quella sera, padre e figlio facessero il bagno insieme per
ridurre al minimo il consumo sia dell’acqua che della legna per riscaldarla.
Dopo il
bagno venne il momento della cena, insolitamente abbondante per una famiglia di
contadini: riso bollito, pesciolini di fiume essiccati ed insaporiti con daikon
grattugiato e della verdura. Come detto, il villaggio di Iguro se la passava
piuttosto bene, e ora che il nuovo raccolto, peraltro così abbondante, era alle
porte era possibile dare maggiormente fondo a quelle scorte che durante tutto
l’arco dell’anno erano state prudentemente messe da parte di previsione di un eventuale
periodo di magra.
A rendere
la cena ancor più vivace ci pensava Sota, lo splendido Akita Inu che Iguro
alcuni anni prima aveva trovato ancora cucciolo a vagare per le risaie attorno
al villaggio e che tutti gli abitanti in qualche modo avevano adottato. Come
ogni sera, si presentò alle otto in punto di fronte alla porta della casa,
lasciata aperta, e come vide il suo padrone venirgli incontro con una ciotola
piena di riso, pesce tagliuzzato e qualche avanzo della cena prese subito a
scodinzolare, saltando in tutte le direzioni.
«Sei
contento di vedermi, eh?» disse il ragazzo ricevendo feste a non finire.
Come
l’ultimo raggio di sole scomparve del tutto una splendida notte senza nubi
illuminò la vallata con la luce di milioni di stelle; la luna, grande e piena,
brillava con tutta la sua forza, rendendo quasi superfluo il tenue bagliore
prodotto da qualche lampada accesa qui e là al di fuori delle case.
A causa
della lunga e difficile giornata lavorativa quasi tutti nel villaggio si
coricarono subito dopo aver finito la cena, ma per Iguro restava ancora
un’ultima cosa da fare prima di andare a dormire. Recatosi nel retro del
giardino, in un piccolo spiazzo circolare di una decina di sei o sette metri di
diametro, armato di un lungo bastone leggermente ricurvo, incominciò come ogni
sera ad allenarsi minuziosamente nell’arte della spada, dimostrando di
possedere abilità, grazia ed eleganza assolutamente non comuni per un
contadino.
Fin da
piccolo aveva sentito di provare una certa attrazione per quella vita, la vita
del guerriero, e anche se sapeva svolgere il suo lavoro alla perfezione chi lo
aveva visto allenarsi riteneva, senza peccare di esagerazione, che la sua
vocazione era quella del samurai, e non del contadino.
Negli
ultimi anni alcune persone di umile estrazione erano riuscite ad imporsi
all’attenzione e al rispetto di alcuni tra i più potenti clan del Giappone
grazie alla loro perizia con la spada, all’abilità militare o al carisma con
cui riuscivano a persuadere anche gli animi più forti, e qualcuno diceva che
forse, se solo Iguro fosse uscito da quella specie di isola remota che era la
valle in cui era cresciuta, nascondendo magari le sue vere origini, un giorno o
l’altro avrebbe potuto fare fortuna, arrivare in alto.
Ma
questo, in verità, allo stesso Iguro non importava più di tanto: la sua vita
gli piaceva, aveva tutto quello che si potesse desiderare: famiglia affettuosa,
degli amici fedeli e una casa accogliente. Ogni tanto, per via dei suoi tratti
così singolari, si sentiva come un pesce fuor d’acqua, e più di una volta,
soprattutto durante la prima adolescenza, si era domandato se quello fosse
davvero il suo giusto posto nel mondo, ma con il tempo questi pensieri si erano
affievoliti, e più passavano i giorni e le stagioni più si convinceva che il
suo giusto posto lo aveva già trovato.
D’un
tratto, mentre era nel bel mezzo di un esercizio, si accorse di avere addosso
gli occhi di suo padre, che lo osservava da sotto la veranda, appoggiato al
muro della casa. Chissà da quanto tempo era lì a guardarlo, e lui, concentrato
com’era, non se ne era accorto.
«Padre!?»
«Stai
migliorando. Questo si vede.»
«Da
quanto… da quanto siete qui?»
«Da un
po’.»
«Io… io
credevo che dormiste.»
«E lo
starei ancora facendo, se non fosse per il baccano che fai.»
«Mi… mi
dispiace. In effetti è molto tardi. Sarà meglio che vada a letto».
Zoppicando,
Takemura raggiunse a sua volta il piccolo campo d’allenamento, e prima che il
figlio posasse il bastone strinse le sue mani.
«Tieni le
mani troppo distanziate.» disse riposizionandole nel modo giusto «Con un
bastone leggero può anche andar bene, ma impugnando la spada in questo modo
faticheresti a controllarla, e i tuoi movimenti sarebbero impacciati. Ecco,
così va’ meglio».
Non c’era
da stupirsi che suo padre conoscesse il modo più corretto di impugnare una
katana.
In pochi
nel villaggio lo sapevano, ma l’uomo chiamato Toru Takemura era stato in
gioventù un samurai al servizio del Clan Rokkaku, e aveva combattuto per il
grande condottiero Rokkaku Yoshikata, con cui aveva stretto uno speciale
rapporto di amicizia, in numerose battaglie. Purtroppo, quando era ad un passo
dalla nomina ad ufficiale una brutta ferita di guerra segnò la fine della delle
sue aspirazioni. Impossibilitato a proseguire la sua carriera militare aveva
cercato il suicidio, ma Yoshikata, in memoria del legame che li aveva uniti, lo
aveva convinto a non togliersi la vita e a fare ritorno al suo villaggio, dove,
sposatosi, aveva iniziato una nuova vita come semplice contadino.
Di tanto
in tanto Takemura soffriva per la sorte avversa che lo aveva colpito, si vedeva
chiaramente, ma il pensiero di avere accanto a sé una moglie ed un figlio
migliori di quanto avesse mai sperato serviva ogni volta a dargli forza, e a
ricordargli che in fin dei conti non era stato tutto vano.
«Grazie
padre».
Toru
sorrise leggermente, poi diede al figlio un leggero scappellotto.
«E ora a
letto, forza. Domani c’è da alzarsi presto».
Non aveva idea di dove si trovava, né di cosa gli stesse
succedendo.
Davanti
ai suoi occhi scorrevano immagini strane, incomprensibili e straordinarie, ma
anche spaventose, e ormai ci era passato così tante volte che una parte di lui
sapeva quanto potevano diventare spaventose.
Vedeva
città immense, città che non somigliavano a nulla che avesse mai visto, alcune
affacciate su di un oceano senza fine, altre immerse in un mare di sabbia e
illuminate da un sole così forte da accecare chiunque avesse osato guardarlo
direttamente, altre ancora in cui svettavano ovunque altissime torri di pietra,
e tutte erano circondate da mura talmente possenti da dare l’idea che nessun
esercito, per quanto grande, sarebbe stato in grado di abbatterle.
E poi
genti, genti a non finire, vestite nei modi più strani. E lui era lì, in mezzo
a loro; camminava, e gli sembrava quasi di sentirli, di sentire i loro abiti
sfiorare il suo, di ascoltare le loro parole, parole che in parte riusciva
addirittura a comprendere.
Poi, di
colpo, si ritrovò in alto, sui tetti, intento a saltare da una parte all’altra
come nessun uomo sarebbe stato in grado di fare; poi un salto lunghissimo, in
direzione di una torre, che mutò il suo aspetto appena vi si aggrappò, passando
da una costruzione circolare color ocra ad una quadrata, di colore rosso e
sormontata da una piramide verde con in cima una creatura alata tutta d’oro.
La
scalata fu incredibilmente semplice, le braccia e le gambe forti gli
permettevano di salire con uno sforzo apparentemente minimo, e come fu in cima,
dinnanzi a lui si materializzò uno spettacolo incredibile; tutto attorno vedeva
una grande città che sembrava quasi emergere dall’acqua, e i suoi palazzi,
tutti di solida pietra, parevano gettare le proprie fondamenta al di sotto
della superficie. Una cosa del genere non l’aveva mai vista, e mai avrebbe
pensato che potesse essere possibile.
Dopo
qualche altro istante si vide saltare giù, precipitare verso terra, ma non
avvertiva alcun senso di paura, come se dentro di sé sapesse che non gli
sarebbe accaduto nulla di male; forse era la consapevolezza di essere soltanto
in un sogno, forse qualcos’altro, fatto sta che davvero non successe nulla,
perché la sua caduta venne agilmente frenata da una grossa pila di fieno che si
trovava, leggermente appartata, ai piedi della torre.
Quello
era però era il momento peggiore, perché era quello che segnava la fine del
sogno e l’inizio dell’incubo.
Un attimo
di buio, poi, come un’aquila, si vide volare al di sopra di una cittadella
circondata da una terra arida e con poca vegetazione, e arroccata su di una
collina. Nuovo buio, poi vide una luce, una luce circolare, e vide che a
generarla era un oggetto indistinguibile stretto da un uomo, forse un vecchio a
giudicare dalla lunga barba, che nell’altra mano stringeva una spada. L’oggetto
divenne ancor più brillate, accecandolo, e quando riaprì gli occhi si trovò in
un posto diverso, una sorta di gigantesca sala rettangolare piena di uomini
distesi a terra. Di fronte a lui un altro uomo, un altro vecchio, stavolta
vestito tutto di bianco, che nella sua mano stringeva un lungo bastone luminoso.
Fece
appena in tempo a vederlo mentre si avvicinava con aria minacciosa, poi di
nuovo buio, ed ecco apparire dal nulla una figura fatta di luce, mentre tutto
attorno a lui si materializzavano migliaia e migliaia di strani simboli. In
parte provava un senso di attrazione, e anche una certa curiosità, ma più di
ogni altro sentiva la paura, una paura terribile.
«Devi
impedire che accada.» disse una voce echeggiante di giovane donna «Il tempo sta
scadendo! Devi trovarla! Trovala!».
Poi, solo
buio e terrore.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Avevo promesso una
nuova fan fiction sul mondo di Assassin’s Creed, ed eccomi qui a mantenere la
promessa.
Come avete visto
questa nuova storia costituisce un ponte tra il secondo e l’ancora misterioso
terzo capitolo, ed è ambientato nel Giappone del Periodo Sengoku, tra la fine
del ‘500 e l’inizio del ‘600. Vista la grande quantità di eventi storici ai
quali si farà riferimento consiglierei a chiunque voglia leggere di andare a
dare una spulciata a wikipedia, in modo da avere un’idea più chiara degli
eventi che saranno descritti.
Beh, concludo qui e
vi auguro buona giornata, ringraziando in anticipo tutti coloro che leggeranno
e recensiranno.
A presto!^_^
Carlos Olivera