Capitolo
82 – POESIA
D’AMORE
Rabbrividendo, Angelo avvicinò le mani al caminetto acceso della camera da letto, per scaldarsi.
Benché indossasse una pesante veste da camera, non riusciva a
scacciare il freddo che provava da qualche giorno a questa parte. Forse era la
pioggia di quella fine di settembre 1494 ma, gli sembrava di avere il freddo
nelle ossa.
La strana febbre che torturava poi il corpo del suo poeta, lo metteva
in ansia, tanto da fargli mancare il fiato nel petto. Erano ormai quattro
giorni che non si alzava dal letto, e le medicine dei dottori non sembravano
funzionare. Non sapeva più che fare. Strinse le mani davanti al viso, come in
preghiera ma, sentendo Agnolo tossire, si alzò in
piedi e corse accanto al letto. Gli posò una mano sulla fronte e storse la
bocca. La febbre persisteva.
Prese dal comò il resto del farmaco che gli avevano dato i dottori, e
lo sciolse nell’acqua. Quindi
portò il boccale alla bocca del poeta.
«Agnolo… Bevine un po’…»
Poliziano, disteso sul letto,
giaceva come esausto. I capelli castani gli si appiccavano al viso, per via del
sudore e della febbre.
Il quarantenne bevve un poco, poi si riabbandonò sul cuscino.
«Non ti preoccupare oltre»
tossì il poeta, notando il suo viso corrucciato: «Non
sei un mio servitore. Sei mio amante… Il mio splendido amante…»
sorrise stancamente. Si sentiva esausto.
Angelo lo coprì per bene, posandogli un bacio sulla fronte.
«E sono felicissimo di esserlo»
sorrise, passandogli lo straccio bagnato sul viso, con delicatezza: «Ma ora rilassati e non pensare ad altro. Farò chiamare di
nuovo il dottore e…»
«No… Non serve…» implorò Poliziano, prendendogli la mano. Sentiva la
forza mancargli: « Stiamo soli io e te… Hai le mani
fredde anche tu… Stenditi accanto a me, vuoi?»
Il volto del suo caro angelo gli ricordava quello del ragazzo che
aveva incontrato anni fa al banchetto di Lorenzo. Il bambino che era sbucato
dal cespuglio di alloro.
Teneva ancora una foglia del serto con cui l’aveva incoronato, in
tasca.
Era il poeta di qualcuno. Lo rendeva così felice quell’idea. Non era
solo, e la sua poesia non sarebbe stata dimenticata.
«Certo» rispose Angelo,
sdraiandosi accanto a lui. Si mise su un fianco, così da poterlo guardare in
viso, e gli cinse la vita.
Agnolo cercò la sua mano e se la strinse sul
cuore.
I due si fissarono in silenzio, studiandosi dolcemente. Poi il ragazzo
trattenne a viva forza un colpo di tosse.
«Non tentare di fingere con me,
mio dolce angelo… Devi curarti anche tu» mormorò, accarezzandogli la fronte.
Era imperlata di sudore, sotto le ciocche arricciate.
Angelo scosse il capo, posando il mento sul suo torace: «Non è nulla»
Poliziano lo guardò in viso, come per volerselo imprimere nella
memoria.
La vista gli giocava scherzi, e i due volti si mischiavano nel tempo.
Occhi verdi gli brillavano davanti, come stelle. Come quella sera al banchetto,
quando l’aveva fissato con intensità.
«Non ti ho mai scritto quella
poesia che mi avevi chiesto… In tutti questi anni io… E’ che, non è che non volessi… Ho tentato più volte sai ma, tu…» e
gli accarezzò il viso: «Mi sfuggivi. Le parole non bastavano per descriverti…
Io… Proprio io che giocavo con le parole d’amore, ora che l’ho davanti, non so
farlo…»
Angelo gli
sorrise e si strinse contro di lui. Non sapeva perché, ma gli occhi si
annebbiavano. «Ti amo» mormorò come una carezza.
Poliziano gli disegnò le labbra
socchiuse con un pollice. «Sei pallido… Come lunare visione… Se solo avessi saputo
comprendere con la tua stessa onestà i sentimenti del mio cuore! Quante persone
ho perduto senza dire loro quanto li amavo.
Che stupido sono stato! Ma non succederà più…
Io ti amo, mio fedele amante»
«Questa è la poesia più bella
che potevi dedicarmi» sussurrò Angelo chiudendo gli
occhi, con il cuore che batteva come un tamburo da guerra nel petto.
Agnolo
abbandonò la testa pesante sul cuscino sussurrando: «Ti amo… Ti amo…» fino a che gli occhi non si chiusero da soli.
Le labbra di Angelo sfiorarono
lievemente la sua bocca screpolata, poi anche lui scivolò in una notte buia.
***
La porta della camera si aprì e
una figura scivolò all’interno. Si avvicinò al letto, mentre la lunga veste
strusciava a terra.
Controllò le due figure inerti sul letto. Abbandonate nel sonno eterno
della morte.
Non ci sarebbe stato altro abbraccio che il loro ultimo, e poi quello
gelido della terra.
Senza una parola prese la
brocca dal comodino e tornò sui suoi passi.
Il suo lavoro era finito.
Quelle persone non avrebbero più causato fastidi. Le odiose voci fuori
dal coro, sarebbero presto finite tutte, come quei due peccatori.
***