POISON
RAIN
Fa freddo.
Ho freddo.
Questa città mi mette freddo.
Dentro le ossa, dentro lo stomaco,
dentro l’animo. Forse perché è grigia,
Milano, troppo grigia, io che sono abituata ai colori di Los Angeles.
E il cielo plumbeo minaccia pioggia,
questo 15 di Novembre. Incombe sulla città, tetro e
sinistro. Lo vedo, riflesso sui tetti, dalla finestra della mia camera
d’albergo, all’ultimo piano. Questa camera
così bella ed elegante ma, alla fine, una camera come tante
altre in cui sono stata, al seguito dei 30 Seconds to Mars. Una camera
senza calore, spoglia, anonima, che ha accolto ed accoglierà
altri, oltre a me.
Rabbrividisco, raccogliendo i capelli in
una coda, e, nell’intento di sentirmi coccolata, mi metto il
maglione più caldo che ho in valigia, gli stivaletti
pesanti, mi infilo il cappotto, mi arrotolo la sciarpa di lana attorno
al collo, prendo i guanti, come se fossi in montagna, come se dovessi
affrontare una bufera.
E recupero tutto: borsetta, agenda,
valigetta portadocumenti, cellulare di lavoro, cellulare personale, per
scendere nella hall, ad aspettare i ragazzi per andare ai Magazzini
Generali, per il concerto.
E’ presto, sono solo le due
del pomeriggio e la hall è deserta. La luce è
soffusa, i divanetti sparsi sono accoglienti, la moquette del pavimento
ovatta tutti i suoni, l’ambiente è caldo,
nonostante dia sulla via come un’enorme vetrina. Ma i vetri
sono doppi, coperti da tende, oscurati. Proteggono la privacy di chi va
e viene per quest’albergo, come noi.
Mi siedo in un divanetto vicino alla
porta, con l’intenzione di leggere, nell’attesa, un
libro che mi porto dietro da tempo.
Ma quando la porta si apre per fare
entrare il postino, mi accorgo che fuori ci sono delle persone che
parlano ad alta voce. Parecchie persone. E ho già capito chi
sono.
Echelon.
Fuori. In attesa.
Mi alzo con circospezione.
Le spio dalla finestra, spostando
leggermente una tenda di tulle pesante: nella hall la luce è
soffusa, mentre l’esterno è illuminato e quindi
non mi vedono, non vedono nemmeno la mia ombra.
E io le fisso, incuriosita: sono
giovani, belle, alte, grasse, more, basse, magre, brutte, timide,
vecchie, bionde, sorridenti, bambine, rosse, serie,
sfacciate…
Sono tante.
Tutte diverse.
Tutte donne.
E amano i ragazzi alla follia.
Tutte.
Fuori è freddo e loro sono
lì, da ore. Alcune sono pallide e tremanti, si sfregano le
mani, battono i piedi, sono imbacuccate con sciarpe e berretti. Altre
hanno le guance arrossate, i capelli bagnati per
l’umidità, i visi lividi, si vede che sono
stanche. Altre sono sedute sul marciapiede, parlano e sorridono
amichevolmente, alcune fumano, si raccontano le loro peripezie per
arrivare fino a lì, probabilmente.
E tutte sono inconfondibilmente Echelon,
chi con la bandiera sulle spalle, chi con il berretto con i simboli o
la fascia attorno alla testa, chi con le wristband, chi con gli zaini
scarabocchiati con le frasi delle loro canzoni, chi con spillette con
fenici conficcate un po’ ovunque, su giacche, su borse, su
cinture.
“Signorina Ludbrook?”
Il concierge mi distoglie, chiamandomi:
“Sì?”, rispondo, avvicinandomi al
bancone e lasciando la vetrina.
“I taxi sono arrivati. Sono
tre. Vanno bene?”
Annuisco. Sì sono perfetti.
Uno per Shannon, uno per Tomo e Tim, uno per Jared. E per me.
“Certo. Sono qui fuori?”
“Sì. Chiamo i
signori Leto, il signor Milicevic e il signor
Kelleher?”, mi chiede, solerte, quel bel signore
con baffi e capelli bianchi,
sorridente e cordiale.
“Sì,
grazie.”, gli sorrido, riportandomi alla vetrina, mentre
sento che lui ha preso il telefono e sta già chiamando.
Scosto la tenda e guardo di nuovo.
Le Echelon hanno visto i taxi arrivare e
hanno capito che qualcuno deve uscire dall’Hotel e allora si
sono avvicinate subito alla porta. Ora le vedo da vicino: tutte hanno
gli occhi che brillano per l’attesa, adesso.
Si stanno chiedendo cosa
succederà, si stanno immaginando la scena, stanno sperando,
egoisticamente, che un sorriso e una parola siano tutte per ognuna di
loro. Mi pare di percepire il loro cuore che batte più
forte, il sangue che accelera, il respiro più corto, la
testa più leggera.
Ad un tratto vedo Shannon, pronto, con
una sigaretta spenta tra le mani, scendere nella hall. Mi guarda un
attimo, mi sorride e mi fa cenno che esce. Si tira su il cappuccio nero
della felpa e si avvia fuori. Un grido si alza nel vicolo. Tutte gli si
assiepano attorno puntandogli la fotocamera in faccia ed investendolo
di flash.
Povero Shannon. Lui che è
così timido, in fondo. Per lui è un sacrificio
immenso concedersi in quel modo. E infatti nelle foto con le Echelon
non ride quasi mai. Se qualcuna di quelle ragazze lo conoscesse
veramente, vedrebbe, in quegli occhi ripresi in tante foto, tutta la
sua solitudine e la sua insicurezza. E pure quel soprannome assurdo con
cui lo chiamano… non gli si addice per niente.
‘Animale’ lui? Ma quando mai?
In più l’atmosfera
non è rilassante perché nessuna delle ragazze
chiede niente. Non sanno l’inglese o semplicemente non sanno
cosa dire. In fondo, vista l’età, Shannon di
alcune di loro potrebbe essere il padre. E’ lui che si mette
a chiedere, allora, tanto per rompere il ghiaccio, ma si vede che non
è convinto di quel che domanda, né gli importa
delle risposte che gli danno.
Nella hall intanto arrivano anche Tomo e
Tim e mi si avvicinano.
“Quante sono?”,
chiede il bassista.
“Una ventina.”,
rispondo. In realtà non
le ho contate, vado a spanne.
Tomo si mette a guardare fuori anche
lui, con gli occhi neri spalancati: “Tranquille?”
“Sì, sì,
come al solito.”, rispondo. Nonostante la ressa, incidenti
non ce ne sono mai stati. Ogni tanto alla signing line si rischia che
scoppi qualche rissa, ma davanti agli alberghi mai.
Anche Tim si è messo a
guardare Shannon che, con alcuni regali in mano, si sta avviando verso
il taxi nero che lo aspetta: “OK. Shan è andato.
Andiamo noi,
allora…”, dice, scostandosi il ciuffo di capelli
scuri da un occhio.
Bassista e chitarrista escono dalla
porta e la scena con le Echelon si ripete tale e quale con loro.
Precisa, come fosse una fotocopia. E io mi fisso a guardare
l’espressione dei loro volti mentre si fanno fotografare e
firmano gli autografi. Tim e Tomo sono intimiditi pure loro, di fronte
a tanto successo, piuttosto perplessi. Sorridono, abbastanza
forzatamente mi pare. Mi piacerebbe avere qui Vicki e Brittany, per
vedere le loro facce, alla vista delle echelon sbavanti di fronte ai
loro fidanzati! Chissà cosa…
“Ah, sei qui.”
Mi giro di scatto, non l’avevo
sentito arrivare.
E’ Jared.
Con i suoi capelli sparati in aria e la
giacca scura, gli occhiali da sole e il blackberry in mano.
Ed il cuore mi balza in gola, per tanti
motivi.
La sua bellezza.
Il suo modo di fare.
Il suo modo di muoversi.
“Ehm…
sì.”, rispondo, con un filo di voce.
“Sono ancora qui?”
“Sì.”
“Il taxi
dov’è?”
Gli faccio segno indicando fuori:
“Lì dietro.” Lui si avvicina per
guardare fuori, mi sovrasta mettendo una mano sulla vetrina, e sento il
suo profumo avvolgermi. Trattengo il fiato. Ogni volta è la
stessa cosa, quando mi si avvicina. Dovrei essere abituata, ma non
è così.
Il suo è uno di quei profumi
che ti portano via ogni capacità di reagire, di pensare, che
ti stendono.
Ma io DEVO reagire. Sono pagata per
farlo.
Mi allontano da lui quasi di corsa e mi
siedo sul divanetto dov’ero prima. Recupero
l’agenda ed inserisco la mia parte professionale:
“Jay, posso parlarti dei prossimi impegni?”
“Certo.” Jared si
allontana dalla finestra e si siede sulla poltrona prospiciente la mia,
lentamente, accavallando le gambe. Abbiamo cinque minuti prima che Tomo
e Tim si decidano a salire in taxi e poi, fino a notte inoltrata, Jared
sarà assorbito dal concerto… e allora comincio a
snocciolare la lista delle interviste da concedere alle varie riviste,
musicali e non, i prossimi appuntamenti radiofonici e televisivi, le
varie riunioni con i boss della casa discografica… e Jared
mi guarda, annuendo ogni tanto, pacifico.
E’ abituato, alla fine, a
tutte quelle cose da fare.
E’ sotto i riflettori da anni,
ormai, non è più un bambino.
E a quel pensiero noto una piccola ruga
attorno all’occhio destro che ieri non aveva…
quasi mi viene da sorridere, a quella vista. Vorrei avvicinarmi,
abbracciarlo, appoggiare le mie labbra sul suo viso e baciargli quella
ruga appena nata ma…
Non posso.
E allora continuo ad elencare la sua
lista di impegni, in automatico, ormai… come faccio da anni,
come un automa… da quella volta che…
Blocco subito il pensiero.
No, non mi devo ricordare quel momento.
Devo seppellirlo dentro i miei neuroni,
anche se è ancora vivo.
E allora finisco
di leggere la lista, cercando di fare
l’indifferente. “Ecco. E’
tutto.”, sorrido.
Sorride anche lui, soddisfatto del mio
lavoro. Sì, alla fine sono un’organizzatrice nata,
non mi scappa nulla. “OK. Direi anche che possiamo andare.
Tomo e Tim sono partiti.”, dice, dopo un attimo, fissando la
porta ed alzandosi.
Metto via l’agenda, mi alzo e
mi abbottono il cappotto: “Va bene.”
Usciamo mentre l’ennesimo urlo
si leva nel vicolo. Jared è davanti sul bordo del
marciapiede, io sono dietro a lui, appena fuori dalla porta
dell’hotel. Cerco di fare un mezzo sorriso ma… gli
sguardi di fuoco delle Echelon si piantano su di me.
E fanno male.
Il sorriso mi svanisce subito.
E le posso capire.
Loro vorrebbero essere me, vorrebbero
avere a che fare con Jared tutto il giorno, ogni momento del giorno.
Vorrebbero averlo come principale, parlargli, stargli
vicino… tutte prese dall’idea romantica di essere
al suo servizio, di accorrere quando sono chiamate, innamorate
dell’idea che lui abbia bisogno di loro. E invece questo,
fatti i debiti conti, è un lavoro come un altro,
più impegnativo di altri: ricevo più di
cinquecento mail al giorno, ho a che fare con etichette discografiche,
manager di concerti, agenti, pubblicitari, giornalisti… Devo
cercare di parlare con tutti ed accontentare tutti. La mia giornata
sembra non finire mai. Non so quante di loro durerebbero tanto quanto
sto andando avanti io…
Io.
Che invece vorrei essere loro: essere
libera di immaginare come può essere un uomo
così, sognarlo, inseguirlo, farmi fotografare col lui, farmi
autografare la maglietta, senza aver con lui nessun legame.
Come stanno facendo ora tutte loro.
E mi accorgo che un baratro ci separa.
Un abisso divide loro e me.
E loro mi odiano.
E io odio loro perché mi
odiano.
Non ho fatto nulla di male, faccio solo
il mio lavoro.
Eseguo ordini.
E’ Jared che mi chiede di
accompagnarlo quando esce, certe volte, proprio perché
pensa, illudendosi, che allora le Echelon non avranno il coraggio di
avvicinarsi.
Lui mi usa. Giustamente, visto che mi
paga.
Ma in questo modo non riesco ad essere
simpatica a nessuno.
E non riesco a far finta di non essere
odiata.
In fondo sono una timida, rinchiusa in
sé stessa così tanto da non riuscire
più ad uscire. E mi metto la maschera, faccio
l’odiosa, l’antipatica.
Certe volte sarei tentata di uscire con
un cartello con scritto: “IO SONO IO E VOI NO!!”
per far loro dispetto, per umiliarle, per vendicarmi della mia
posizione di privilegio.
Certe altre volte, invece, vorrei uscire
e parlare con loro, sentire le loro storie, farmi raccontare da quante
ore sono in viaggio, dove e se hanno dormito o mangiato, che cosa si
dicono mentre sono in coda anche sotto la neve…
Ed invece non posso: “Devi
essere professionale…”, mi ripete Jared,
“Non dare confidenza, non lasciarti prendere la mano,
altrimenti quelle pretendono il braccio…”
E allora io, Emma, sono inutile per le
Echelon.
Nessuna mai mi ha dato un regalo o un
pensiero e nemmeno elargito un sorriso sincero, neanche per sbaglio.
Sono soltanto la zavorra indigesta di Jared.
Decido di allontanarmi e salgo in taxi.
Quando Jared si sarà stancato
di loro e avrà finito con abbracci ed autografi,
verrà anche lui.
E infatti, mentre rispondo ad un sms di
Shannon che mi chiede dove siamo, vedo Jared salire in taxi, chiudere
la portiera ed il finestrino, salutare con la mano dal vetro.
“Loro… ti
amano…”, sussurro, quasi senza volerlo, come se le
mie corde vocali si fossero attivate senza chiedere permesso al
cervello.
“Sì, lo
so…”
‘Anch’io ti
amo…’, vorrei dirti.
Ma non ne sono capace.
Non posso.
E, soprattutto, non devo.
Non devo.
Lo hai ripetuto anche tu.
Non devo dirlo a nessuno.
Il taxi parte tra due ali di ragazze che
ancora cercano di guardarti ed improvvisamente rivivo quella sera.
Quell’auto.
Quella notte in cui mi hai chiamato
trafelato dall’aeroporto. “Vieni SUBITO a
prendermi!”, mi hai urlato, tirandomi giù dal
letto. “SUBITO, HO DETTO!”
Ho preso l’auto e,
più o meno vestita e pettinata, mi sono precipitata da te.
E’ nel contratto. Devo farlo se mi chiami. E per questo ero
incazzata come una biscia, visto che mi avevi trattato come una
schiava, una servetta che corre ai tuoi ordini. Ero arrivata furente
all’aeroporto decisa a litigare con te, a mandarti a quel
paese, a rescindere il contratto lavorativo.
A furia di chiamarci siamo riusciti a
trovarci, nell’enorme aeroporto di Los Angeles, ma quando ti
ho visto ho capito che c’era qualcosa che non andava.
Avevi la barba lunga, il cappello sugli
occhi, il viso tirato. Il tuo paltò grigio era malamente
legato e la sciarpa nera ti avvolgeva il collo come un serpente.
Sembrava quasi che ti mancasse l’aria. Forse ti eri fatto di
qualcosa.
“Manda via
tutti…”, mi hai sibilato, ed io, piccola e magra
come sono, ho dovuto farti da guardia del corpo fino alla mia auto,
mandando via giornalisti e paparazzi in malo modo.
Siamo saliti in macchina senza dire una
parola.
“Ti porto a casa?”,
ti ho chiesto.
“No. Non
voglio…”
“Ehm… e dove,
allora?”
“Dove vuoi.”
Ti ho portato a casa mia, non avrei
saputo in quale altro posto portarti, alle due di notte e in quello
stato.
E siamo finiti a letto.
Senza una parola, né una
spiegazione sul tuo cattivo umore.
Mi hai sbattuto contro la porta, baciata
a forza, portata sul letto, strappato i vestiti.
Ma io mi sono arresa subito
perché é stato lì che mi sono accorta
di essermi innamorata di me, di non aver desiderato altro da tempo, di
fare tutto quello che mi chiedevi perché volevo che tu mi
amassi.
Ma tu no.
Tu non mi ami.
Tu avevi bisogno di me in quel momento,
non come segretaria, ma come donna. E poi non ne hai più
avuto bisogno. Un momento dopo aver finito di fare l’amore,
ti eri già scordato di me e dormivi dentro il mio letto
tranquillamente, come se non fosse successo niente. Come tutti gli
uomini.
“Non devi dire
niente.” Mi hai detto, prima di scomparire dalla porta, il
mattino dopo.
Non devo.
Non devo confessarlo nemmeno a me stessa.
Riemergo dai miei pensieri sospirando,
mi stringo nel cappotto con un brivido, mentre mi accorgo che ha
cominciato a piovere, che il cielo di Milano del primo pomeriggio fa
cadere una fitta pioggia gelata.
Mi giro un attimo a guardarti. Fissi
anche tu dal finestrino la strada bagnata. Chissà a cosa
pensi.
A te stesso.
Al concerto.
Ad una tua nuova canzone.
Alle tue Echelon.
Non a me, sicuramente.
Non alla tua Emma sempre al tuo fianco
da anni, ormai.
Che ha rinunciato a sé, per
te.
Che è costretta a nascondere
il suo amore sotto una coltre di indifferenza e protervia, con te e con
tutti.
Che ti ama.
Arriviamo ai Magazzini Generali.
La coda di Echelon rumoreggia e ti
chiama, urlando.
Entriamo dal portone con il taxi,
scendiamo e tu, senza aspettarmi, corri avanti, su per le scale e ti
rifugi dentro, veloce come una gazzella, dato che piove più
forte.
Meglio.
Posso far finta che siano gocce di
pioggia avvelenata, le lacrime che lentamente scivolano sul mio viso,
bruciando.
FINE
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