Salve. Mi
scuso per il ritardo: ecco il capitolo. Ringrazio coloro che hanno recensito:
siete stati gentilissimi e i vostri commenti mi hanno resa non solo soddisfatta,
ma anche felice di scrivere questa storia. Dunque, ringrazio Mote_Ely, Neko88,
Bael e Dry_StarDust, aggiungendo che no,
The Electric Metempsychosis (come tutti gli altri spezzoni di storie
presenti anche in questo capitolo, benché su questo io nutra seri dubbi XD) non
esiste come storia indipendente, ma influirà su
Martino. La fanfiction-matrioska
continuerà, insomma.
Grazie
ancora anche a chi legge soltanto.
Ah, una
precisazione: nello scorso capitolo, Mariagrazia guardava l’orario e la data:
quest’ultima non è dieci giugno, bensì undici. Un piccolo problema tecnico.
Buona
lettura.
P.S.: per
fastidiosissimi problemi riguardante l’HTML, il codice inserito da Martino nelle
ultime battute non segue lo schema ASCII
numero, bensì SPAZIOnumero. Ho
fatto di tutto per far apparire il codice senza rivelarne il messaggio, questo è
il massimo che ho potuto fare. Dunque, se volete capirne il significato prima di
Susanna, copiate il testo su Google eliminando tutti gli spazi fra cancelletto e
numero (ovviamente, è una perdita di tempo, quindi vi consiglio di aspettare
semplicemente il prossimo capitolo).
Su e giù
“Buonasera. Un’ondata di caldo dall’Africa settentrionale si appresta a colpire
il territorio nazionale, in particolare il Sud, che vedrà evidenti schiarite fra
oggi e domani. Ancora piogge in Friuli e in Piemonte, sereno o poco nuvoloso
nelle altre regioni.”
Cominciai
ad annotare i nomi.
Biagi Donatella
Chefolo Gigi
Corcola Alessandro
Cutto Maria
De Benedictis Franco
La penna
era fredda e pesante: Susanna ne utilizzava sempre di metallo, ignorando la mia
allergia al nichel. Mi sentivo già prudere le dita e le grattavo contro le
pieghe del foglio, solo per alleviare il fastidio.
“Susanna,
mi aiuti o no? Smettila di fare la buffona e scrivi questo cazzo di registro.”
“… Se vuoi
ricevere le previsioni del tempo sul tuo cellulare, invia un SMS con il nome
della tua città al numero…”
In
risposta, Susanna cambiò canale e s’incantò di fronte a un reality show su MTV.
“Tesoro,
per favore, non fare la rompiballe e aiutami!”
Tre classi
– relativamente poche – ottanta nomi. Mi arresi all’inizio della seconda e
gettai la penna accanto al telecomando.
“Senti, o
mi scrivi questi nomi, o prepari tu la cena!”, urlai.
I bambini sono tutti uguali, che abbiano
dodici o diciassette anni. Ma per rimproverare mia figlia non mi pagavano,
purtroppo.
“Sì, sì,
un attimo…”, biascicò, ma non si mosse di un millimetro: lì, il busto poggiato
al tavolo e la testa penzolante da un braccio lungo e spigoloso, gli occhi
arrossati e il mento piegato all’insù, quasi a toccare il labbro, forzato da una
mano altrettanto dura.
Era stata
fuori tutto il giorno e, per quei pochi minuti in cui era rimasta a casa, aveva
dormito oppure occupato il telefono, proprio ora che Nicoletta era rimasta a
dormire da Alessandra… E se fosse successo qualcosa? Sospirai.
E poi…
Mah, è un po’ esaltata. Avrà scopato, mi ritrovai a pensare senza
disgusto, né disapprovazione. Mia figlia era carina, sicuramente doveva aver già
fatto sesso, magari con quel suo amico, Vincenzo, quello altissimo che
l’abbracciava sempre e che una volta l’aveva sbattuta contro il muro della
cucina fingendo di scoparsela – non si era mica accorto che c’ero anch’io.
Sorrisi a labbra strette.
Ero ben
lontana dall’alterarmi, ma simulai un’espressione arrabbiata.
“Susanna”,
ringhiai riprendendo la penna in mano, ignorando il bruciore fra le dita.
Sbuffò e
mi sfilò il registro dalle mani; cominciò a copiare i voti delle prove scritte,
mentre io le davo istruzioni sulla casella in cui apporre le valutazioni.
“Che
cucino per cena?”, domandai spingendo la sedia contro il muro.
Mi
sciacquai le mani sotto l’acqua fredda e le lavai con il detergente per i
piatti, visto che il sapone era quasi terminato.
Se magari Susanna andasse a fare la spesa
invece che da quel suo amico che stava riparando il computer… Strano, poi:
mia figlia aveva riportato indietro il portatile, asserendo che quel Nomonera o
Da Matera – o come diavolo si chiamava – l’avesse già riparato. Solo un giorno?
Avrei sbuffato e scosso le spalle, se mi fossi trovata su un palcoscenico,
vestita di pizzi e straccetti e circondata da gente erudita e annoiata. Ma,
fortunatamente, ero in una cucina in stile padella, come la chiamavo io: acciaio e plastica, con
qualche calamita de La carica dei centouno
spruzzata sul frigorifero e presine a quadrotti sgargianti sparse su sedie e
banconi, una persino abbandonata sul freezer cromato.
“Pollo
ripieno con patate al forno, leggermente bruciacchiate, se possibile. Ah, e con
tanto rosmarino”, rispose prontamente Susanna, mentre copiava i voti della
seconda B molto più rapidamente del solito e senza capricci.
Quando si scopa si è sempre ben disposti.
Non c’era dubbio.
O, magari,
aveva fatto sesso con il tipo che le riparava il computer, sebbene non l’avessi
mai incontrato. Non che m’interessasse molto, naturalmente – non avrei
sopportato di inscenare la parte della madre di Lolita, tutto qui. Ero una madre
consapevole, non mi facevo raggirare da due mocciosette ottuse. Oppure… Ero un
po’ perversa anch’io, come Humbert Humbert.
Ma sì, il
personaggio più odioso, ignavo, penoso e insopportabile della letteratura: la
madre di Lolita. L’avevo sempre detestata, sin dalla prima volta in cui avevo
letto l’opera di Nabokov, trovandola piuttosto eccitante, e ignorando che, in
fondo, era solo una variante più sensuale della mia vita: un gioco di voglie. Le
stesse che individuavo – a torto o a ragione, non era rilevante – nelle risposte
e neile posture delle mie figlie.
“Non ho il
tempo di frugare nel culo di un pollo, non so se hai notato”, replicai con
soddisfazione. Individuai una confezione di paella surgelata spiegazzata e la
vuotai in una padella.
Susanna
sbuffò e si contorse leggermente sulla sedia, cercando una posizione più comoda.
“Tanto io
stasera esco”, bofonchiò. Fissai, vogliosa, il contenuto della padella e lo
rigirai con un cucchiaio di legno; un odore piccante e speziato mi fece
lacrimare gli occhi, nonostante la protezione degli occhiali per astigmatismo.
Me li sfilai e godetti di quello squisito bruciore.
“Ah,
giusto. Visto che oggi sei stata sempre chiusa in casa, poverina…”, ironizzai.
Uno
sfrigolio continuo mi distrasse per un attimo, non consentendomi di capire cosa
avesse risposto Susanna.
“Cosa?”,
le chiesi.
“Niente.”
Stava per
gridare, lo sentivo. Magari non è stata
neanche una bella scopata; niente orgasmo, avrà finto. Che cogliona.
“Potresti
anche aiutarmi qui, no? Non penso che uscire sia così urgente”, la stuzzicai.
Sembrava proprio di giocherellare con uno dei miei alunni, citando battute
patetiche solo per deviare il discorso – in cui io avevo torto e lo sapevo bene.
“Ma
vaffanculo!”, urlò. Ecco, appunto.
Copiò gli ultimi voti con fretta maniacale e si precipitò fuori di casa
sbattendo la porta. La catena che penzolava dalla serratura tintinnò, stanca.
“Ehi, io
non ti ho insegnato a non rispettare tua madre!”, gridai con voce possente.
Certo, come se me ne fregasse qualcosa del rispetto. Non ti mando
neanche affanculo, tanto ci vai già, troietta del cazzo.
Raccolsi i
chicchi di riso sfuggiti alla padella sul piano cottura e li inghiottii uno ad
uno, cercando di simulare un gesto sensuale.
Magari l’hanno stuprata e l’è piaciuto, ma ora si sente in colpa.
Risi.
***
Diamonds are a girl’s best friend!
Mi
baluginava sempre davanti agli occhi, quella scritta scintillante sullo sfondo
azzurro. Terrificante.
Di per sé
la cosa non era affatto spaventosa – snervante, più che altro –, ma quel viso
sorridente con quegli zigomi che sporgevano come… come se nascondessero zanne o…
Dio, era orrenda. Marilyn Monroe era davvero orrenda.
Ma no, non
orrenda. Terrificante, piuttosto.
Ecco, di nuovo al punto di partenza.
Mi
abbandonai su una sedia, davanti alla TV del soggiorno; presi a giocherellare
con il telecomando e constatai che non era
brutta, no… Forse solo troppo luminosa, come i diamanti.
Non avrei
mai immaginato che a Susanna piacessero; l’avrei ritenuta piuttosto una di
quelle ragazze che indossano appariscenti collane etniche, quelle cianfrusaglie
dei negozietti che puzzano di incenso, con commesse volgari e zingaresche e gli
zerbini sempre storti rispetto alla parete. In effetti, quello era l’identikit
di Susanna che mi ero costruito io, ma mi rendevo conto che le piccole
differenze che individuavo facevano tremolare i contorni della sua figura, come
se, per conoscerla appieno, avessi dovuto estrarre anche i minimi particolari
della sua malsana esistenza.
Mancano otto giorni,
mi sorpresi a constatare. Già, soltanto otto giorni per creare qualcosa di
minimamente fattibile e verosimile; ma eravamo in due, sicuramente avremmo
trovato qualcosa.
Diamonds are a girl’s best friend!
Ecco,
ancora: scritta in caratteri sinuosi, quella frase si snodava da un capo
all’altro dello schermo del suo vecchio portatile.
Ma perché mettere uno sfondo così scemo,
poi? Mi stiracchiai: le vertebre scricchiolarono quasi sinistramente e la
spalla mi dolse per qualche momento.
Non avevo
impiegato molto per rassicurarmi della sua affidabilità: dopo avermi telefonato,
Susanna mi aveva lasciato il suo computer nel portone del mio condominio e, in
una notte, debellato il virus da me inviato, avevo non solo controllato i
contenuti del PC, bensì anche informatone la proprietaria delle mie intenzioni –
quelle vere, chiedere il suo aiuto per
l’eliminazione della classe, insomma – e avanzato le mie proposte.
Lasciai
che le palpebre mi oscurassero il tetro soggiorno, appena inumidito dal liquido
baluginio del crepuscolo. Erano le otto, forse; sentii la sigla del telegiornale
e, subito dopo, un portone sbattere. È
andata via.
Poggiai la
testa sul tavolo da pranzo di legno, la guancia sinistra schiacciata su un
pungente centrino.
“MARTI’,
MA CHE TI SALTA IN MENTE?!”.
Sollevai
il viso di scatto, atterrito dalle urla di mia madre. “Eh?”, balbettai
ingenuamente. Ero stanco, non riuscivo a trovare neanche la pazienza di fingere
tranquillità; ciononostante, avrei dovuto prevedere la reazione di mia madre, da
casalinga stupida e ignorante qual era.
“Ma ti
rendi conto?! Far entrare una ragazza in casa con tutto ‘sto casino? Guarda, la
polvere sulle mensole e… e la scrivania macchiata e… e io che stavo in
vestaglia! Ma che ti passa per la testa? Io non lo so, non so davvero cosa fare
con te… Non è da persone adulte e responsabili, porco Giuda! Marti’, non sei un
bambino, capito?! Basta! Basta!”. Sembrava indemoniata: i capelli corti le
incombevano sul volto – colpa della messa in piega scadente, più che di un
invasamento demoniaco –, il viso accartocciato in un’espressione di duro biasimo
esistenziale, il piede che calpestava il pavimento, emettendo un suono secco per
via della pantofola troppo larga. Mi ricordava Capitan Uncino, chissà perché.
“Chi se ne
frega? Dài… Mica sono tutti pronti a criticare come te.”
Oh, no.
Non dovevo averlo detto, certo che no.
Cazzo, l’ho proprio deto. Non che non lo pensassi… Ma avrebbe sicuramente
improntato un’orazione degna di uno statista pur di difendere i propri doveri di
amministratrice della casa – Ah, è così
che le chiamano ora le sguattere incapaci di prendere un minimo di diploma?
Ero
finito.
Sperai che
ci fosse qualcosa sul fuoco o che la lavatrice fosse in funzione. O, magari, il
telefono, la nonna che le chiedeva la ricetta della torta genovese al riso con
funghi e salsa rosa, tanto per tenerla incollata al telefono per un paio d’ore.
“Tu non…”.
Cominciò a sibilare e accavallare una valanga di parole; mi alzai dalla sedia e
mi avviai verso il bagno – l’unica stanza provvista di chiave – mentre mia
madre, determinata e strillante, mi seguiva a passi lunghi.
Finalmente
riuscii a chiudermi in bagno e, poggiata la testa al muro, pensai a qualcosa di
indefinito, pensai che avrei dovuto pensare al diciannove, al compleanno di
Ilaria, alla collaborazione di Susanna, a Susanna.
Fra le
urla di mia madre e le tempie che mi vibravano, richiamai alla mente tutto ciò
che era accaduto dopo essermi impossessato del suo computer.
***
Mi sarei
dovuto comportare in maniera naturale, la più spontanea possibile, ma non era il
mio obiettivo principale in quel momento.
E neanche
controllare la sua affidabilità lo era.
Dunque,
qual era il mio vero obiettivo?
Per
un’oretta non trovai risposta a questa domanda; mi limitai a installare un
antivirus qualsiasi – preferii uno scadente, solo per burlarmi un po’ di lei – e
a ravviare il sistema. Bene, ora devo
controllare i suoi documenti.
Sebbene
potesse sembrare che la mia osservazione del suo computer desse voce soltanto
alla mia impertinente invadenza… Cancellai mentalmente
sebbene e inserii
anche perché.
Adesso devo cambiare tutti i congiuntivi,
mi sorpresi a pensare.
D’accordo, lasciamo
sebbene, anche solo per dare una parvenza
di legalità. Non che fosse del tutto
illegale frugare nel portatile di qualcuno per verificarne l’affidabilità –
Lo fa la polizia – e, comunque, il
senso della giustizia non era uno dei miei punti di forza, per quanto potessi
constatare.
Il
desktop, rivestito di uno sfondo azzurro che si scuriva man mano che il colore
si avvicinava al margine superiore dello schermo – come un tramonto senza sole
–, decorato da una scritta – Diamonds are
a girl’s best friend! – e sminuito dal viso di Marilyn Monroe, luminoso e
ridente, era quasi totalmente coperto da una griglia di icone.
Non è ancora arrivata a capire che
esistono le cartelle?
Per la
maggior parte si trattava di documenti di testo, quasi tutti recanti la dicitura
Nuovo Documento di Microsoft Office Word
seguita da un numero; sommariamente, ne contai una trentina. Ne aprii qualcuno a
caso: Nuovo Documento di Microsoft Office
Word (4) sembrava il capitolo di una storia. Era lungo sette pagine, come
dedussi dall’angolo in basso a destra della finestra, e, nella pagina
abbagliante, torreggiava un carattere abbastanza semplice e pulito, dalla
dimensione 16, notai; iniziava così:
“Light, visto che
siamo ammanettati, facciamo così: tu resti fuori dalla porta, mentre io mi
faccio la doccia, OK? Poi vieni tu, facciamo a turno.”
Light socchiuse la
porta sulla catena che lo univa a L e lo vide sfilarsi la maglietta bianca,
ammirò il suo petto candido e liscio, come quello di un bambino. Con un brivido,
si soffermò sui capezzoli rosei del suo amante proibito, si leccò le labbra
assaporando la morbidezza di quella carne pregna di
Chiusi il
documento, schifato.
Ne aprii
un altro a caso: questa volta, per mia fortuna, si trattava di un e-book, per
quanto la prima pagina mostrasse. Individuai il titolo:
Corpus hermeticum in italiano (traduzione
di Ignazio Grappa); scorsi la pagina e lessi di sfuggita solo qualche frase
che mi pareva un incantesimo, qualcosa riguardante la
Telestikè, di qualsiasi aggeggio si
trattasse.
Cliccai
sulla croce rossa in alto a destra e aprii
Nuovo Documento di Microsoft Office Word (13) – disgustato e, forse, anche
spaventato – scorrendo le pagine e leggendo, questa volta, frasi estratte dalla
parte centrale del capitolo, sempre nel solito carattere.
Oh, Maestro!
Mikami non potè far altro che urlarlo, mentre Light, pervaso da un inaspettato
fervore, si mosse con furia dentro di lui; Mikami gridava per il dolore e il
piacere, zuppo del suo stesso sangue e degli umori del suo amato Maestro.
“Sì, puniscimi,
Maestro! PUNISCIMI!”
Light tentò di
reprimere i propri gemiti di godimento mentre continuava a frustare il proprio
sottoposto con la cintura; il sangue di Mikami gocciolava languidamente dalla
sua pallida schiena e Kira quasi urlò di piacere quando alcune gocce
raggiunsero, nella loro voluttuosa discesa, il membro del nostro
Susanna
era piuttosto pericolosa – o, meglio, temevo per il suo buon gusto (se ne
esisteva uno in quella testa riccioluta).
A quanto pare no.
Mi
affrettai a chiudere la finestra, non appena mi vidi indugiare su quelle parole.
Rabbrividii e continuai la mia indagine.
Evitai,
terrorizzato, di aprire altri documenti di testo ed esplorai le poche cartelle
presenti sul desktop: fanfic – non
osai nemmeno selezionarlo –, scuola –
appunti di economia aziendale e trattamento testi copiati da qualche sito
specializzato –, foto vincenzo – una
serie di fotografie che ritraevano Susanna, in atteggiamenti comicamente
provocanti, con un ragazzo altissimo (i suoi riccioli superavano di poco il
gomito di questo Vincenzo); feste di compleanno, il tavolo di un bar, i due visi
divisi dal collo di una bottiglia di birra, un abbraccio, Vincenzo a gattoni con
un sorriso spalancato e Susanna a cavalcioni sulla sua schiena con una bacchetta
firmata Harry Potter come frustino
improvvisato, occhi sbarrati per simulare un’espressione terrorizzata,
linguacce, un bacio a luce soffusa, Susanna accoccolata fra le braccia di
Vincenzo, che le sfiorava dolcemente il naso.
Un’altra
cartella, film, conteneva
numerosissimi video – notai titoli come
Ladyhawk, The dreamers,
Blood and chocolate, una rassegna di film diretti da Stanley Kubrick
e Pier Paolo Pasolini, le tre trasposizioni cinematografiche di
Death Note e altri innumerevoli
titoli.
Facciamo un bilancio momentaneo, decisi: Susanna era
senza dubbio una ragazza disordinata – per via dei documenti sparsi sul desktop
–, una di quelle che si definiscono pazze
solo per giustificare i propri gesti insensati, provocatori, egocentrici, per
sentirsi e apparire particolari; una pessima scrittrice dalla testa totalmente
annacquata, che cercava solo il successo con una prosa baroccheggiante,
argomenti erotici (tanto assurdi da defluire nel nauseante tragicomico),
personaggi improbabilmente accoppiati e disgustosamente
Out Of Character.
Insomma, personalmente una cogliona, artisticamente una merda.
Era
fidanzata con un certo Vincenzo, forse, che, a quanto pareva, era il suo unico
amico. Niente traccia di Mariagrazia.
Immaginavo che la loro fosse un’amicizia falsa, solo per non deprimersi troppo
nella fanghiglia limacciosa della classe.
Cliccai
due volte su Risorse del computer e su
Documenti – suzie_quiver, rivelando
altre cartelle: foto – immagini di
Susanna con gli occhi scintillanti per il flash, con altre ragazze più basse,
pallide e truccate, le pelli brillavano in maniera ipnoticamente diversa –,
musika – file mp3 in ordine alfabetico
e qualche CD, fra cui My Chemical Romance, Muse, Cradle of Filth e Gazette –;
video – per la maggior parte, si
trattava di video musicali. Oltre a questi file, individuai una decina di
cartelle minori: scuola, psico,
spot_scemi, corso_teatro, dolly_wosh, fanmade, film, dn; esplorai tutti i
file, rivelando documentari di ogni tipo, video creati dalle fan di film e
anime, pellicole d’epoca e scene registrate nella palestra di quella che pareva
una scuola elementare abbandonata, con cartelloni colorati appesi ai muri solo
per un angolo, attaccapanni inizialmente smaltati, ma ormai consunti, che davano
l’impressione di sbriciolarsi al solo tocco, canestri da basket alle due
estremità del grande stanzone. Un gruppo di trenta ragazzi, o forse anche di
più, si agitava, rideva, batteva mani su una cattedra macchiata di caffè, urlava
su ordine di un uomo sulla quarantina, probabilmente il professore che teneva il
corso di teatro. Nella cartella dn
c’erano solo fanfiction – sebbene non capissi perché le avesse inserite nella
sezione dei video, ma, d’altronde, poteva essere stato un errore dovuto al
disordine – fra cui spuntava un’icona affiancata da
ff_efp.
Altre
cartelle, ciascuna recante il nome della storia che, a quanto pareva, aveva
copiato e incollato su documenti di Word.
the_electric_metempsychosis
Allora
anche lei leggeva quella fanfiction. Speravo che l’autore non lo scoprisse mai:
la sua storia, la sua magnifica storia
letta da quella cogliona ignorante; era un… un disonore.
Mi
stiracchiai e ritornai nella cartella
Documenti, aprendo varie e
fatture_ebay. Fui sorpreso quando, davanti a me, si aprì un
ventaglio di foto e alcuni video.
Mi
colpirono le labbra e, senza accorgermene, avvicinai il viso allo schermo,
ingobbendomi ulteriormente sulla sedia dallo schienale di vimini.
Rosee, non
accese, sottili e opache, senza trucco.
Rosse,
abbaglianti, socchiuse e bagnate, infantili.
Due paia
di labbra al centro.
Così
plastiche da sembrare finte, colorate chimicamente, malleabili e smaltate.
Sembrava
pelle sintetica, imbottita di bambagia e cucita con sottilissimo fildiferro.
Non trovai
nulla di autentico in quei bacio, a parte il dolore.
Una
sofferenza sottesa da entrambi i lati, labbra che affogavano le une nelle altre,
annegavano nella pienezza della loro stessa sopraffazione.
Non è dolore.
Aggrottai
impercettibilmente le sopracciglia.
È…
Ero
incantato.
… prevaricazione.
Non era un
bacio qualunque – ed era evidente – scoppiava di finzione. No, non menzogna… Si
trattava semplicemente di un’esplosione sintetica, chimica, elettronica.
Sa di protesi.
Susanna
sembrava patinata – era un morso, benché non riuscissi a individuare i suoi
denti nella foto. Non potevo essere sicuro che fosse così, ma le sue labbra
rosso carminio che si chiudevano su quelle chiare dell’altra ragazza… Pareva che
la volesse divorare.
Scorsi le
altre foto e visionai i video abbassando a zero il livello del volume.
L’altra
ragazza, a quanto avevo capito, si chiamava Giusy oppure Giulia, visto che
Susanna le gridava allegramente Giu’!
in qualche filmato: giocavano con delle Barbie spettinate e polverose,
trasformando la visita di Ken e Shelley in un rituale satanico-orgiastico
farcito di pedopornografia e sadomasochismo – uno dei loro più ambiti
passatempi, a quanto pareva. Giocare in
quel modo con le bambole, intendo.
In un
altro video, Giu’ si asciugava i capelli biondi con un asciugamano stretto
attorno al busto, lasciando scoperta gran parte delle cosce; Susanna, invece,
tentava di spogliarla e, ad un certo punto, riusciva a inquadrarle il seno, dopo
aver scostato con noncuranza un lembo dell’asciugamano bianco.
“Ehiii!”,
protestava Giu’, picchiando la spazzola contro la videocamera o il cellulare di
Susanna.
Il filmato
si fermò bruscamente su un improvviso avvicinamento dell’obiettivo al soggetto e
un incontro di carni.
Le foto
erano più di trecento: baci, tuffi, corpi in costume da bagno, un falò, due visi
incollati, come gemelli siamesi, un volto attraverso le pareti e il liquido
torbido di un acquario, luci bluastre, la luna, un palco, una grande libreria,
una piazza innevata, una scritta su una panchina
(: Su & Giu :)
Non so
cosa fu a rompere l’incanto, ma, all’improvviso, ritornai nella realtà.
Erano
tutti sfondi: la vera protagonista era quella ragazza bionda, quella Giu’. Era
tutto nella mano della fotografa. Di Susanna.
Ed era
evidente.
Mi
stropicciai gli occhi e decisi che, sì, mi sarebbe servita.
Avrei
copiato quelle foto e quei video sul mio hard-disc, in caso si presentasse la
necessità di ricattarla.
Riaprii
gli occhi.
OK.
Erano le
tre e trentatré di mattina. Sorrisi per la coincidenza.
D’accordo.
Ritornai a
fissare il monitor, sebbene sentissi le palpebre pizzicare.
Spostai
tutti i documenti del desktop in una cartella a caso – benché l’istinto fosse
quello di trasferirli nel cestino – e creai un documento di testo, che denominai
GIU.
Capirà sicuramente che qualcuno ha frugato nel suo computer, in questo modo.
Aprii il
documento e, indugiando sulla tabella ASCII del mio manuale di informatica,
digitai:
76; 108; 111;
115; 97; 105; 99; 104; 101; 103; 108; 105; 115; 104;
105; 110; 105; 103; 97; 109; 105; 110; 111; 110; 109;
97; 110; 103; 105; 97; 110; 111; 115; 111; 108; 111;
109; 101; 108; 101; 63; 65; 110; 99; 104; 101; 99; 97;
100; 97; 118; 101; 114; 105;
Dovrebbe arrivarci,
pensai.
Già:
doveva ormai essere un istinto immediato cercare tutto su Google, no?
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