Premessa:
A
conoscenza di un romanzo collettivo autorizzato da Cecilia, confesso
che non ne ho letta nessuna pagina. Perciò, anche se gli
eventi sono leggermente posticipati rispetto la data di conclusione del
terzo libro, questa storia non ha nulla a che vedere col romanzo
collettivo.
Ne
approfitto anche per consigliare a chiunque si aspetti una scrittura
impeccabile e perfetta come quella della Randall, di chiudere
immediatamente questa pagina! Sono consapevole di non meritare di
potermi affiancare ad una scrittrice di tanto talento che ammiro, adulo
e rispetto come Cecilia. ^^ Molto semplicemente sto dicendo che non so
scrivere! XD
Detto
ciò, spero lo stesso che la trama in mente abbia catturato
la vostra attenzione e stimolato la vostra curiosità.
Ora
vi lascio! :D
Diciassette
anni dopo, nel mondo moderno…
Quel suono.
Risvegliava
gli addormentati sui banchi e rubava i disperati dalle interrogazioni.
Quanto amava quel suono non sapeva dirlo, perché aveva
salvato la pagella di fine quadrimestre più di una volta a
più di uno studente.
L’elettronico
“drin” di una campanella scolastica
tuonò per tutto l’edificio e l’urlo
collettivo degli alunni fece tremare la terra. I corridoi si riempirono
di ragazzi in maglietta, canottiera e pantaloncini che correvano verso
l’uscita, verso la libertà. Il fracasso era
assordante, dalle grida dei ragazzi al trambusto dei banchi singoli che
venivano letteralmente gettati da parte, in un unico gesto di
assolvimento. Ai lati del corridoi stavano due bidelle con i gomiti
poggiati sulle scope, e guardavano la mandria di rinoceronti
abbandonare la scuola e riversarsi come un fiume in piena nel cortile
esterno. La battaglia coi gavettoni cominciò
all’istante, non ci fu pietà per nessuno.
L’aula
della IV A superiore, che l’anno successivo sarebbe diventata
“matura” per così dire, era
già mezza vuota. Alcune ragazze corsero fuori tenendosi per
mano e sbraitando energiche di felicità, il professore
finiva di sistemare i suoi ultimi appunti annuali nella cartella da
ufficio posata sulla cattedra. Sola nella stanza assieme a lui, a
riordinare i fogli scarabocchiati e le penne, c’era una
ragazza dai corti capelli castani, lisci ma un po’ ribelli
dietro le orecchie. Le lentiggini attorno al naso piccolo e grazioso le
aveva rubate alla madre, mentre gli occhi attenti sembrava averglieli
prestati suo padre. Vestiva sobriamente, jeans e maglietta bianca,
sopra la quale aveva indossato un maglioncino di cotono e mezze maniche
col cappuccio.
Raccolse
tutte le sue cose nello zaino, tra cui il blocco da disegno e
l’astuccio pieno di matite. Si caricò in spalla il
tutto, dimenticandosi però di chiuderlo adeguatamente.
Prima di
uscire dall’aula, lanciò un’occhiata nel
cortile fuori dalla finestra più vicina e si
fermò a guardare. Il trambusto proveniente
dall’esterno le faceva gelare le ossa, come tutti gli anni.
La guerra diventava sempre più spietata: alcuni ragazzi
erano entrati in possesso del tubo dell’acqua che usava il
bidello per annaffiare il viale fiorito della scuola, e adesso
sparavano a tutta birra addosso al primo che capitava loro a tiro.
Alcuni disgraziati, invece, avevano aggiunto ai gavettoni
dell’acqua anche sacchi di farina e uova.
Il
professore in piedi accanto alla cattedra finì di sistemare
le sue cose, riallacciò la valigetta e la impugnò
pronto ad andarsene. Si accorse di lei e, notando la smorfia che le si
era dipinta sul viso, inarcò un sopracciglio.
–Signorina, se vuole posso prestarle il mio ombrello-
scherzò l’uomo.
La ragazza
si volse lentamente verso di lui, ma era già sulla strada
per l’uscita dell’aula. –Non si
preoccupi- blaterò sorpassandolo e avviandosi in corridoio. E poi quale idiota si porta
dietro un ombrello d’estate?
Il
quarantenne laureato in storia dell’arte le andò
dietro per un certo tragitto, poi svoltò, probabilmente
diretto alla sala professori come tutti i docenti.
Ogni
anno la stessa storia, la
stessa medesima fuga come fossi il più ricercato ladro di
gioielli d’America! Odio l’ultimo giorno di
scuola… pensava la ragazza affacciandosi
all’ingresso principale della scuola. Si permise di osservare
i ragazzi di V lanciarsi gavettoni e schifezze d’ogni sorta
solo qualche istante. Dopodiché fece dietro front e si
avviò verso la mensa. Questa era deserta e la
traversò quasi di corsa. Passato il refettorio,
arrivò nelle cucine che trovò anch’esse
vuote e silenziose, ma puzzolenti di pollo fritto, verdure bollite e
formaggio. Una volta fuori, oltre la porta lasciata aperta da chi era
incaricato di cestinare la pattumiera, raggiunse la strada come
d’abitudine.
Le grida dei
ragazzini nel cortile le arrivavano come una eco distante e soffuso,
presto sostituito dall’abbaiare di due pastori tedeschi oltre
una recinzione metallica.
-Ehi,
ciao…- mormorò la ragazza chinandosi alla loro
altezza e, nonostante prigionieri oltre la recinzione,
allungò loro una mano e si fece annusare le dita.
–Ecco, così, bravi- sorrise lei nel vederli
calmarsi allo stesso tempo, come gemelli in perfetta sincronia.
–Anche se siete pestiferi come dicono, non potete certo
essere peggio del mio- ridacchiò prendendo qualche residuo
di merendina dalla tasca del suo zaino. Ne diede un pezzo ad entrambi i
fratelli pastori, salutò carezzandoli sul naso umido e si
avviò questa volta di corsa sul marciapiede.
-Eccola!-
sentì gridare alle sue spalle.
-Sì,
è lei! Addosso!-.
A
quanto pare è
destino… si disse con una certa amarezza senza
voltarsi indietro.
-Mike,
allunga il tubo!-.
Il sole del
pomeriggio colorava d’arancio gli alberi del viale. Soffiava
una brezza fresca che faceva danzare il pupazzetto di peluche a forma
di drago legato al suo zaino. La giovane aveva impiegato quaranta
minuti di passeggio per arrivare a casa, e davanti lei c’era
la porta d’ingresso ancora chiusa. Aveva percorso tutto il
tragitto in quello stato, bagnata fino alle ossa. Puzzava in una
maniera immonda di acqua di fogna che le avevano schizzato quelli
dell’ultimo anno con la pompa, e meno male che era entrata
nel loro campo visivo ad uova e farina esaurite.
Fortuna
che è estate,
dai che forse non mi ammalo… ma quel pensiero
non bastava a consolarla.
Finalmente
si decise ad estrarre le chiavi di casa dalla tasca umida dei
pantaloni. Mamma e papà sarebbero tornati dal lavoro prima
uno poi l’altro con orari diversi, ma lei aveva tempo
sufficiente per farsi una doccia e…
-Helly!-.
La ragazza
irrigidì le spalle e si voltò senza allontanare
la mano con la chiave dalla serratura.
Fermo al
limitare del marciapiede, sul sellino di un motociclo, c’era
un giovane che, quando si tolse il casco e spense il motore
scoppiettante, mostrò una chioma di capelli castano chiaro
scompigliati in ciocche ribelli. Occhi verde smeraldo e il volto maturo
con qualche accenno di barba. –Guarda come sei ridotta-
commentò facendo una smorfia.
-Hai
ragione! Sono fradicia! Oddio, ma come ho fatto a non
accorgermene…- brontolò lei con sarcasmo.
Inserì e girò la chiave nella serratura.
-Mi
dispiace, ma quando è suonata non ti ho più
vista, volevo darti un passaggio- disse alludendo allo scooter su quale
sedeva.
-Grazie,
Gabriel, ma non avrei accettato comunque- affermò
freddamente. –Ciao- aggiunse poi entrando in casa.
L’abbaiare di un cane svegliato dal tintinnio delle chiavi si
era già diffuso per tutto il quartiere. –Skip,
piantala!- lo strillò lei.
-Aspetta,
Helly, dai!- il giovane smontò dallo scooter e mise il
cavalletto. Arrivò di corsa sulla soglia prima che la
ragazza potesse chiudergli la porta in faccia.
-Che cosa
c’è?!- eruppe fulminando l’amico con
un’occhiataccia.
-Mi hanno
dato il debito in storia- comunicò semplicemente.
–A settembre dovrò fare gli esami di ammissione,
perciò ho pensato: dato che sei la migliore della scuola in
quella materia, magari…-.
-No-.
-In cambio
ti aiuto in matematica, promesso- sorrise.
-Ho detto di
no. Ciao-.
-Helly,
accendi il cell! Ti chiamo!- strillò lui a porta ormai
chiusa.
Una volta al
sicuro tra i quattro muri di casa, attese che Skip la smettesse di
abbaiare. Chiuse gli occhi e ascoltò il tintinnio delle
unghiette delle sue zampe ticchettare sul parquette, mentre
scodinzolava come un matto con la lingua a penzoloni fuori dalla bocca.
-Sì,
sono loro- mormorò la ragazza facendosi annusare la mano,
dove il cane aveva riconosciuto l’odore dei due pastori.
–Seduto- ordinò, e così
l’animale fece. –Bravo- sorrise lei aggiungendo
alle parole anche una festosa carezza. Si appoggiò con le
spalle alla parete e lasciò cadere lo zaino a terra. Non le
importava se il felpino bagnato avesse macchiato l’intonaco
della parete o le scarpe rovinato il pavimento.
Scale.
Bagno. Doccia. Tre
comandamenti divenuti sacri in casi come quelli.
La
diciassettenne si avviò su per i gradini, seguita da Skip, e
si spogliò durante il tragitto, ma il cane cambiò
presto direzione e andò a sgranocchiare l’ossicino
di gomma lasciato nella stanza della padrona.
La ragazza
arrivò in bagno con indosso solo la biancheria e accese il
getto d’acqua regolando la temperatura. Ammirò lo
specchio che lentamente si appannava per via del calore che aumentava,
e si vide riflessa con i capelli già bagnati attaccati al
viso, piatti, raggrinziti e scoloriti. Il viso pallido reduce di una
carnagione bianca anche sotto il sole estivo, le lentiggini castane e
gli occhi azzurri. Si carezzò le guance stirandosi la pelle
con un sospiro. Poi spostò la sua attenzione
all’orologio da polso che si slacciò mentre
leggeva le lancette.
Mamma
fa il turno
all’ospedale anche ‘sta notte, e papà
tornerà dall’ufficio tra un’oretta. Ragionò.
Forse faccio in tempo ad
andare da Samantha prima che torni, così ho la scusa per non
preparare la cena, si disse.
Faceva buio.
Salutata
Samantha sulla soglia di casa, era montata sul primo mezzo pubblico che
passava sulla strada e in una mezz’oretta era di ritorno.
Scese dall’autobus con un saltello e intraprese il viale
alberato che aveva percorso già quattro volte in una sola
giornata, tra andata e ritorno da scuola e casa dell’amica.
Samantha Fox distava abbastanza perché un contrattempo
l’avesse potuta tenere occupata fino a quell’ora di
rientrare, così che ad attenderla in casa avrebbe trovato
solo un cane affamato, una madre preoccupata e un padre entrambe le
cose.
Di fatti,
quando Helly trasse le chiavi e le infilò nella serratura,
Skip accorse subito sull’ingresso e cominciò ad
abbaiare dall’altra parte della porta. Quando
entrò, la ragazza trovò casa buia quasi come
l’esterno.
-Papà-
chiamò. –Papà, ci sei?- si
guardò attorno notando che la sua cartella da lavoro e le
chiavi della macchina (che aveva anche visto parcheggiata nel vialetto)
erano sul mobile lì accanto, assieme alle bollette imbustate
prese dalla cassetta della posta.
Skip
abbaiò ancora e fece avanti e indietro dal primo gradino
delle scale ai piedi della ragazza, come a volerle indicare una
direzione da seguire.
-Va bene, ho
capito che hai fame, aspetta un attimo!- sbuffò accendendo
le luci del soggiorno e dell’ingresso. Lasciò la
sua roba sul tavolo da pranzo e arrivò in cucina. Accese le
luci anche lì e preparò in fretta da mangiare per
il cane, versandogli nella ciotola due pugni di croccantini, ma Skip
continuava ad abbaiare.
-Zitto,
stupido! Se papà sta dormendo, così lo svegli!-
lo rimproverò.
Nulla da
fare, il cane era agitatissimo e bazzicava a destra e sinistra
cantilenando e mugolando.
-Vuoi
uscire?- gli chiese lei afferrando il guinzaglio dalla cesta e
mostrandolo al cane.
A
quanto pare no…
pensò vedendolo peggiorare, piuttosto.
Poi, a
sorpresa, Skip scattò di corsa su per le scale.
La ragazza,
scocciata e senza parole, si limitò a posare il guinzaglio
sul ripiano della cucina e seguire il cane al piano di sopra. Giunta in
corridoio, trovò Skip a grattare la porta dello studio di
suo padre con una zampa. Si chinò su di lui e lo fece
smettere. –Grazie, così danno la colpa a me-
sibilò. –Smettila, si può sapere che ti
prende?- chiese sollevandosi in piedi. Lanciò
un’occhiata alla stanza da letto dei suoi genitori, ma fu
sorpresa di trovare il letto vuoto e tutto rifatto come lo lasciava la
mamma la mattina.
Quindi
papà non sta
dormendo… constatò la ragazza, e
nello stesso istante Skip riprese a grattare la porta mugolando.
Questa
è zona
Off-Limit per me da diciassette anni, lo sai? Razza di cagnaccio,
guarda cosa mi fai fare… sbuffò.
Posò la mano sulla maniglia e si decise ad aprire,
chiedendosi se suo padre non stesse lavorando a qualcosa di importante
che l’aveva tenuto incollato al computer tutto il giorno.
Socchiuse leggermente la porta e spiò all’interno
attraverso la fessura creata. Anche se era piuttosto buio,
riuscì a scorgere l’interno silenzioso e avvolto
dalle ombre, ma il motore del computer andava e il bagliore dello
schermo illuminava la poltrona vuota.
Forse
è in bagno e ha
lasciato il computer acceso… si disse
dimenticando aperta la porta e avviandosi in corridoio, mentre Skip,
invece, entrava nello studio e cominciava ad abbaiare impazzito.
Helly non ci
fece caso e raggiunse il bagno, ma non trovandovi nessuno ad occuparlo,
tornò sui suoi passi e andò a cercare in salone. Magari si è
addormentato sul divano e non ci ho fatto caso.
Ma nulla da
fare, suo padre non era in nessuno di questi posti.
Sentendo il
cane abbaiare ancora dal piano di sopra, Helly salì di nuovo
le scale due gradini alla volta, ben intenzionata a mettere a tacere
quell’animale una volta per tutte. –Non hai fame,
non vuoi uscire, graffi le porte!- strillò.
Piombò nello studio spalancando la porta. –Skip,
almeno smettila di…-.
-GRAZIE AL
CIELO!-.
Si
sentì stringere calorosamente da un paio di braccia forti
che l’avvolsero tutta, mentre l’orecchio andava a
posarsi sul battere forsennato di un cuore in corsa come un treno.
-…Papà?-
mormorò la ragazza, stretta al petto dell’uomo.
-Dannazione-
proruppe lui scostandola appena da sé. La teneva ferramente
per le spalle facendole quasi male. –Hellionor, mi hai fatto
venire un accidenti! A me e a tua madre!- aggiunse guardandola negli
occhi, coi propri accesi di terrore e furore assieme.
La ragazza
non sapeva che cosa dire, e così tacque.
L’uomo
si passò una mano in mezzo ai capelli biondi e se li
stirò all’indietro con un gesto nervoso.
–Si può sapere dove sei stata?- domandò
furibondo.
-Ero da
Samantha- sibilò esangue. –Dove credevi che
fossi?- chiese subito dopo con una risatina isterica.
-Presto,
chiama tua madre e dille che stai bene- disse invece lui andando dietro
la scrivania e riprendendo la tastiera e il mouse sotto le dita.
–L’hai fatta preoccupare- aggiunse scoccandole
un’occhiata burbera.
-Più
di quanto lo sei tu?- rise lei.
-Hellionor
Eva Freeland, non sto scherzando- sbottò l’uomo
avviando il processo di spegnimento del computer. –Avresti
potuto almeno avvertire, ho temuto che…-
s’interruppe scuotendo la testa e guardando chissà
cosa sul desktop del PC.
-Cosa? Che
Skip avesse mangiato me invece dei croccantini? Ma per favore,
papà. L’anno prossimo mi consegnano il diploma,
non sono più una bambina-.
-E allora
dimostralo, e fa’ una cazzo di telefonata!-
strillò Daniel.
La ragazza
s’irrigidì d’un tratto come una statua.
Non aveva mai visto suo padre così arrabbiato.
-Tieni-
l’uomo le lanciò il suo cellulare, che Helly
afferrò al volo. –Chiama Jodie, ma non pensare di
averla passata liscia, signorina- l’ammonì.
–Per adesso va’ giù e prepara la cena.
Più tardi tua madre ed io decideremo come passerai
l’estate-.
La ragazza
si avviò nel corridoio. -E meno male che in questo paese
sono già maggiorenne!- si lamentò componendo il
numero sul cellulare dell’ospedale dove lavorava sua madre.
-In Francia
non lo saresti!- ribatté Daniel a gran voce.
-E chissene
frega!- gridò dalle scale.
Dopo un
lungo attimo di silenzio, Daniel guardò Skip che si era
accucciato sotto la scrivania, avendo ascoltato le urla dei due fino ad
allora con timore ed orecchie abbassate. Il signor Freeland si
chinò a fargli una carezza, e il cane prese subito a
scodinzolare grazie al tocco magico del padrone.
-Quella
ragazzina mi ucciderà, se continua così-
sospirò Daniel appoggiandosi allo schienale della sedia.
Fissò l’icona di Hyperversum
galleggiare sul desktop come screensaver. Scrutò allungo la
mela fluttuante sullo sfondo nero, sbollentando man a mano che il tempo
inesorabile del mondo reale gli scivolava addosso.
‘Sta
volta ho avuto davvero paura che avesse scoperto la mia
password… sospirò l’uomo, e nel farlo
si voltò a guardare una vecchia foto incorniciata posata
sulla mensola vicina. Vi erano quattro figure abbracciate
amichevolmente, e Daniel non fece fatica alcuna nel riconoscerli dal
primo all’ultimo.
In ordine da
sinistra a destra: Martin
Freeland, Jodie Carson, Daniel Freeland e ultimo, ma non
d’importanza, Jean de Ponthieu, il Falco
d’Argento… mio migliore amico Ian Maayrkas.
Daniel prese
tra le dita quella vecchia foto, guardando prima gli amici poi
l’icona di gioco sul desktop.
Sarà
meglio avvertire Ian che mia figlia non si è persa nel
Medioevo come temevo.
Angolo
d’Autrice
Eccomi,
finalmente ce l’ho fatta! Nella mia testa credo di aver
architettato a sufficienza per poter finalmente mettere mani su questa
fan fiction, stata fantasia troppo a lungo. Per essere un primo
capitolo, i fatti, come avrete notato, scorrono
“abbastanza” tranquilli! ^^ Ma sì, diamo
spago alle paranoie di Daniel e vediamo cosa succede ad una sua
presunta figlia, il cui nome per esteso è Hellionor Eva
Freeland.
I personaggi
di questa storia saranno più o meno quelli descritti nel
libro, e le vicende ricalcano un presunto seguito del terzo libro,
perciò, se siete gran curiosoni ma non avete ancora letto il
terzo volume della Randall, non andate oltre con la lettura di questa
storia! XD
Hyperversum
è diventata ormai una parte di me, non riuscendo
più a togliermelo dalla testa nemmeno ora che devo ancora
finire i compiti di matematica! XD
Detto
ciò, voglio ringraziare in anticipo lettori e recensori. ^^
Qualsiasi
commento è ben accetto, critiche positive o negative
verranno serbate come tesori di un altro mondo.
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