We’ll
crucify the insincere tonight (Tonight)
We’ll make things right, we'll feel it all tonight (Tonight)
We’ll find a way to offer up the night (Tonight)
The indescribable moments of your life (Tonight)
The impossible is possible tonight (Tonight)
Believe in me as I believe in you,
Tonight, tonight, tonight,
Tonight
Tonight…
(Smashing Pumpkins - Tonight)
Il barista gli serve un caffè con una delicatezza quasi
innaturale, il piattino bianco che scompare tra le sue dita enormi,
scure quasi come il caffè che sciaborda nella tazza.
Gli occhi del cliente, di un blu elettrico che sembrano far crepitare
qualsiasi cosa osservi, sono vacui, vuoti, come se contemplino
un’altra tazza e un’altra mano, in
un’altra stazione di servizio, in un altro universo.
Lascia che Joe Black posi il caffè -amaro, con panna- e
si scosti dalla barra, prima di riscuotersi e, poggiando i gomiti sul
bancone, stringere la tazza tra le mani.
Sembra agrapparcisi, sfinito da un viaggio che sicuramente non
è iniziato da poco.
Ha dita fini, e, mi rendo conto intrigata, piagate da cicatrici. Sono
mani da pianista, pallide e delicate, con un grumo di cicatrici per
ogni nocca. Nevrotiche tanto quanto i suoi occhi blu-scarica-elettrica,
artigli che cercano inutilmente di trattenere l’effimero
calore di una tazza di caffè, le sue volute di vapore
morbido e fragrante, riuscendo ad appigliarsi solo alla ceramica bianca
di bassa qualità.
Quasi seguendo il mio stesso filo di pensieri, vedo quel ragazzo senza
età chiudere gli occhi, e, gettando la testa
all’indietro, cercare di nascondersi dietro al suo covone di
capelli rosso fuoco.
Stupita dalla forza e dalla fragilità del gesto insieme,
stringo gli occhi per cercare tra le pieghe di quel volto stanco il
perché della polvere gialla sugli abiti scuri e dimessi,
battendo con la matita un ritmo improvvisato sul tavolino.
Lame di luce arancione dalle persiane sembrano tagliare a fettine
sottili l’imponente mole di Joe Black, che ci osserva
assorto, pulendo una caraffa già pulita. Quando incontro il
suo sguardo annuisco, come per legittimare il mio fissare lo straniero. Ma
torno comunque a osservare i miei disegni, il grigio sfumato della
matita sul bianco della carta -come
pozze di panna dolce in laghi di caffè amaro come il fiele-,
correggendo linee e aggiustando ombre, accorgendomi solo dopo un
secondo d’imbarazzato silenzio, in cui il sospiro dello
straniero risuona come lo sparo di una pistola, che una macchia di un
unto nerastro decora un angolo del foglio.
Impreco a bassa voce, cercando la provenienza dell’olio per
motori del quale, evidentemente, non mi sono ben ripulita.
Contorcendomi come una serpe per osservare da tutte le angolature la
salopette lisa e la camicia dalle maniche arrotolate, borbottando tra
me e me, non mi accorgo dei piccoli tonfi che fanno i Suoi stivali
impolverati sul pavimento.
È quando si fermano ai bordi del mio campo visivo che li
identifico come stivali da motociclista, e, risalendo per dei jeans
neri e sbucciati sulle ginocchia magre, continuando con una maglietta
tesa sulle spalle da adolescente e concludendo con un giubbotto
in pelle piuttosto liso sui bordi, arrivo a un viso
triangolare, bocca nascosta da una tazza di caffè fumante e
occhi socchiusi, crepitanti eppure sempre assenti.
-Angeli piangenti?
Mormora, incurante delle mie guance violentemente rosse.
Aveva labbra sottili, e
denti che mordevano senza rendersene conto il bordo della tazza.
Tende la mano libera in direzione dei fogli, girandone uno verso di
sé, ben attento a non sfiorare la mia mano neppure con lo
sguardo.
-Sono lapidi.
Inarca un sopracciglio, togliendo al suo viso dieci anni di tristezze,
in un’espressione quasi simpatica. Deglutisco, rendendomi
conto che, dopo aver sentito quel tono pacato e assente, non si
può avere paura di un tale fantasma di polvere.
-Sono angeli piangenti… abbracciati a lapidi. Ci sono anche
prove di corone da morto. E croci.
Il suo sguardo scivola senza soffermarsi troppo su tutta la pagina,
leggero come chi non è distratto ma non vede neppure quello
che tu gli stai mostrando. Magari si rivedeva, dentro quel foglio.
E io parlo, segnando linee immaginarie che dividano il suo viso in
figure geometriche piane per disegnarlo poi meglio, facendo tesoro dei
ciuffi disordinati, l’accenno di barba mal rasata.
Quando disegni una persona la possiedi. Possiedi l’idea che
tu hai di lei, e la imprigioni su una superficie solida, che non vada
alla deriva come i tuoi ricordi. E io volevo imprigionarlo tra i miei,
di ricordi, quell’etereo ragazzino che a momenti invecchiava
fino divenire un uomo, impolverato e solo, in quel bar isolato sulla
Route 66.
-Perché?
Evanescente, vacuo, come
un fuoco fatuo per le orecchie, in diretta per voi dal mondo
dell’oltretomba.
-Sua madre è stata seppellita in piena estate, e in New
Mexico l’erba non cresce sulla Route 66.
La voce roca e bassa di Joe Black ci avvolge, obbligandoci quasi, dalla
rassegnata stanchezza della voce, a girarci verso di lui. Ipnotizza
persino me, che questa storia l’ho vissuta e vista raccontare
tante di quelle volte da rendermela ormai indifferente.
-Inoltre la lapide di pietra non è mai arrivata, per quanto
l’abbiamo sollecitata. È ancora ricordata dalla
sua croce di legno, là, oltre il cortile.
Lo straniero poggia il viso sulle braccia incrociate, osservandomi ora
con uno sguardo assorto. Sembra toccare il mio viso tondeggiante, il
naso piccolo e le labbra carnose, un caschetto nero e chiari occhi a
mandorla, da piccolo demone messicano con fin troppe curve quale sono.
Lui sembra assaporare la storia e la cadenza del sud di Joe con
attenzione triste.
Né indifferente né morbosa, solo incredibilmente
triste.
Sorrido, quasi a togliere importanza alla faccenda.
-E vivi qui?
Fa domanda da poche parole, ma che hanno bisogno della mia vita per
avere risposta.
Scrollo le spalle, tornando a raccogliere i miei fogli.
-Vivo qui da quando ho nove anni, ho fatto le scuole da privatista, mi
guadagno il posto lavorando come meccanico.
Mentre parlo gesticolo, indicando ora l’esterno, ora me, ora
le pareti con appesi i miei diplomi scolastici. Il massimo dei voti
nella più vicina scuola, a tre ore e mezza da qua.
-E disegni lapidi per tua madre.
-E disegno lapidi per mia madre, sì.
Confermo io, abbassando gli occhi sui fogli che stringo tra le mani.
Il mio sguardo cade sulla sua tazza ormai vuota, e sulle sue dita piene
di cicatrici.
Potrei sentirmi infastidita per le sue domande. O per lo sguardo
assente con cui mi guarda. Potrei non rispondergli, e defilarmi come
faccio sempre con clienti troppo invadenti. Oppure potrei sentirmi
mossa a compassione, potrei sentire pena per lui e i suoi abiti
impolverati.
E invece decido che voglio sapere di più su di lui.
-E tu? Un motociclista senza fisso destino?
Lui inclina la testa su una spalla, sorridendo per la prima volta.
Sorride da un lato solo, divertito da qualcosa che solo lui
può sapere. Si stendono le labbra, gli occhi brillando.
-Io sono un corriere per la Morte S.p.A.,“I morti ordinano, e
noi eseguiamo”: un po’ macabro come slogan, ma fa
il suo effetto.
Al vedere la mia espressione esterrefatta il suo sorriso si allarga,
fino a diventare sincero, illuminandolo.
-Un’agenzia di pompe funebri?
-È più un servizio a trecentosessanta gradi. Ma
è meglio non specificare quali.
Lo osservo, intrigata dal tono divertito con cui improvvisamente sembra
riscuotersi dai troppi kilometri.
-Dal letto di morte alla lettura del testamento passando per la
sepoltura, insomma.
Completo io, appoggiandomi allo schienale della mia sedia. Lui
contraccambia lo sguardo interessato, fino a che strizza gli occhi e
butta la testa all’indietro, in una risata a metà
tra l’isterico e il sollevato.
-Veramente nel mio caso si tratta di una cremazione, e del desiderio di
tornare a correre per la Route 66 dopo aver cercato qualcosa per cui
sarebbe valso vivere.
E, con una scioltezza di movimenti degna di un atleta, uno zaino passa
dalla sua spalla alle sue mani, che, dopo un breve frugare, tirano
fuori un contenitore di legno a forma di rosa, laccato di rosso cremisi.
Si sporge verso di me, posando la scatola tra noi. Un’altra
volta, i miei occhi famelici catturano le lentiggini chiarissime sparse
sul naso. Prende quindi un cartellino attaccato alla punta del gambo
stesso, leggendo con tono professionale.
- “David Hewytt, 1932-1952. Nel cuore di tutti noi.”
Torna a fissarmi, uno sguardo sferzante.
-Un ingenuo che non ha saputo riconoscere la serpe che lo avrebbe
morso, morendo in un buco dimenticato da Dio.
-Un ventenne? Forse è morto nella seconda guerra mondiale,
allo sbarco in Normandia?
-A quindici anni già arruolato?
Interviene Joe, sempre pacato, sempre strofinando stoviglie. Ma con lo
sguardo, apparentemente vago, ben inchiodato sul viso dello straniero.
Lui, a sua volta, mi osserva quasi intenerito dalla mia solerzia nel
trovare qualcosa di utile nella vita di un ventenne cremato e morto in
un buco dimenticato da Dio, cito testualmente.
Poi, veloce com’è apparsa, la scatola a forma di
rosa scompare nei meandri del suo zaino, tra oggetti che non riesco ad
identificare.
-Tutto quello che dovrei fare sarebbe lasciare correre la moto a
centottanta su questo tratto della Route 66, scatola aperta, con le
ceneri che volano via. E poi, casa.
Snocciola i suoi compiti come chi non gli da importanza, ma carica la
parola “casa” con una speranza che sa fin
troppo di rassegnazione per non farci caso.
-Casa?
Ripeto io, curiosa. Lui si limita ad accarezzarmi un’altra
volta con lo sguardo, prima di fare un gesto vago in direzione delle
finestre.
-Il mio unico problema, sembrano essere le cattive condizioni della
moto. Ho bisogno di un meccanico, e di un letto per stanotte.
Mi osserva di nuovo, gli occhi attenti, lo sguardo perforante come una
spina di ferro, le morbide labbra sorridenti. Rosse, rosse quasi quanto
i suoi capelli.
-Abbiamo camere che affittiamo a prezzi modici, al piano di sopra. E io
posso vedere la tua moto.
Cerco di non deglutire, di non arrossire, di non reagire. E di
smetterla di contare le pieghe della maglietta che si formano sul suo
petto.
…
-Non credevo che potesse essere uno spettacolo così bello,
una notte di luna piena in questo deserto.
Non vedo il suo viso mentre pronuncia queste parole, china come sono
sul motore della sua Harley-Davidson FL 1200 del 1952, ma posso sentire
lo spesso strato di malinconia che le ricopre, come appiccicosa melassa.
Distolgo lo sguardo dal carburatore e dalle mie mani sporche di grasso,
per contemplarlo di sfuggita. Piantato a gambe divaricate in mezzo alla
strada, mani in tasca e viso illuminato dalla luna.
Nasconde forse al mondo
le mani e le sue cicatrici?
Lunghe ombre lo avvolgono, tagliando la sua figura in dolorosi pezzi,
una brezza passeggera che muove la chioma fiammeggiante.
Siamo forse i soli
esseri svegli su pianeta, al momento? Siamo gli ultimi superstiti di
non si sa cosa?
Deglutisco dolorosamente, facendo scivolare lo sguardo fino a trovare
la chiave inglese piccola, tornando così alla
realtà.
-Non avevi mai avuto l’occasione di vedere notti del genere
in tutta la tua vita?
Nel silenzio che segue sembra sentirsi solo il mio respiro, amplificato
dagli ingranaggi del motore.
Poi, le sue labbra che sussurrano sul mio orecchio, il suo respiro
leggero che mi fa accapponare la pelle, un brivido lungo, piacevole,
per tutto il corpo, che toglie peso e importanza alla sua risposta.
-In questo deserto ho visto tante notti. Ma me ne sono sempre
dimenticato, distratto da cose più importanti. E quando
è giunto il plenilunio, io ero già andato via.
Lui si rialza, giusto in tempo per non farci sorprendere in quella
posizione da Joe Black, che esce annunciandoci la cena.
Mentre io continuo ad afferrare convulsamente la chiave inglese, il
battito accelerato, il respiro pesante. Fisso il motore, senza
realmente vederlo, ricambiando piuttosto lo sguardo di due occhi blu
elettrico, che sembrano perseguitarmi anche tra i miei pensieri
più reconditi.
-Vai pure, io preferisco finire qui, prima.
…
-Ottima cena, davvero! Mister Joe Black è il miglior cuoco
di tutta la Route 66, sissignore!
Ridacchio al tono altalenante della sua voce da ubriaco. Saliamo
insieme le scale che danno ai piani superiori, lui diretto al primo, le
stanze per gli ospiti, io all’ultimo, la mia mansarda.
Fa i gradini a due a due, saltellando, ridacchiando tra sé e
sé per frammenti di canzoni infantili che io non conosco, e
come potrei, avendo vissuto da sola la mia infanzia?
Lo osservo con la coda dell’occhio scuotere la testa, gli
occhi nascosti da ciuffi ribelli, le labbra tirate.
Mi giro per aprirgli la porta della camera, ridacchiando ad
un altro dei suoi commenti senza né capo né coda.
Ma quando mi giro per fargli spazio, lo sguardo in cui inciampo
è tutto meno che annebbiato dall’alcool.
La sua espressione è per un momento nebbiosa, dai contorni
poco definiti, come lo spettro di sabbia che mi è sembrato
questo pomeriggio giù, al bar. Uno spettro di sabbia che mi
guarda con un’intensità tale da farmi rizzare i
capelli sulla nuca, uno spettro dal sorriso da angelo, che tutto
comprende e tutto ti dona, e due concentrati di elettricità
al posto degli occhi, scariche elettrostatiche che fanno crepitare i
maglioni sulla pelle quando li sfili abbastanza lentamente.
Avanza di un passo mentre io, automaticamente, retrocedo. Ma ad ogni
passo, che ci conduce oltre la soglia, è più
vicino.
La barba rada e le labbra scure, occhiaie violacee sotto due pozzi di
malinconia e le pieghe del cotone che si tende sulle spalle, i bottoni
dei jeans che luccicano irriverenti alla luce della luna, e il suo
respiro, quieto, il suo sguardo che mi tocca, mi accarezza, mi fruga
dentro senza paura e senza pudore.
Ma è il tempo di un battito di ciglia.
Mi passa affianco e le nostre braccia si sfiorano, un vago profumo
indecifrabile mi avvolge, ma noi non ci afferriamo, non ci tratteniamo,
lasciamo che la nostra pelle si sfiori senza dare importanza alla cosa.
Capisco.
E continuando a dare le spalle a lui e alla finestra, mi dirigo verso
la porta.
China la testa, rimproverandomi aspramente il mio illudermi su uno tra
i rari e mai uguali clienti. Mi odio quasi, per essere così
dolorosamente affascinata da un adolescente così…
così.
La solitudine è sempre stata familiare quanto la presenza di
mia madre, e io sono colpevole di essermi illusa, per una gloriosa
serata, di poter sfuggire a una e dimenticare l’altra.
Afferro la maniglia per chiudere la porta, quando la sua voce mi
blocca.
-Ho visto la croce di legno di tua madre. E ritengo che le tue lapidi
siano decisamente più belle. Ne voglio una anch’io.
Sospiro stancamente, il suo gioco del tira-e-molla ormai familiare.
-Non so scolpire. E non ho le pietre adatte.
-Sembra proprio che dovrò muovere i miei contatti
sull’altro lato, per far sì che tu accetti la mia
commissione.
Sorrido mesta, girandomi quindi verso di lui. È al centro
della stanza, la luce spenta, le mani in tasca.
-E non so neanche il tuo nome.
Non mi risponde. Il silenzio scende tra di noi, e io calo con forza la
mano sulla maglia.
Poi lui si sfila le mani dalle tasche, le sue mani dalle dita fini e
affusolate, mani da pianista che ha provato a suonare un piano
infernale di tasti di lame di coltello, e le tende nella mia direzione,
senza accennare a raggiungermi, eppure implorandomi con gli occhi di
farlo.
E la porta si chiude, lasciando il mondo fuori, e noi due soli dentro.
…
Ha labbra che sanno di cenere e il suo respiro è caldo,
caldo come il pomeriggio in cui è arrivato. Sfiora le mie
labbra con le sue continuando a tenere gli occhi socchiusi, le mani che
si aggrappano ai miei fianchi rotondi, accarezzando la salopette, la
camicia, la pelle.
Lascia che gli passi una mano su una guancia, la barba rada che mi
punge, eppure non basta.
Perché afferro la sua nuca e chiudo gli occhi, mi butto nel
buio delle sue braccia e schiudo le labbra, tra il famelico e
l’impaurito, ipersensibile alle sue reazioni.
Ed è allora che lo sento, quell’acre sapore di
lacrime nella sua bocca, dolce e pungente come mandorle amare, arsenico
che non uccide e che mi fa sollevare sulla punta dei piedi, aderire
meglio al suo corpo, mentre lui inclina la testa e copre le sue labbra
con le mie.
Le sue mani salgono, mi accarezzano la schiena e il collo, seguono il
profilo delle bretelle e, trovate le chiusure, le slacciano.
La pettorina cade con un fruscio morbido, le note di una canzone
indecente, mentre le mie unghie affondano nella sua schiena, quando le
sue labbra si spostano dalla mia bocca al profilo del viso, del collo,
stuzzicandomi il lobo dell’orecchio come poco prima il suo
sussurrare ha solo preannunciato.
Inchiodata da suo sguardo sento di non poter neppure battere le ciglia.
Fuoco bianco che
balugina tra frammenti di cielo, colori apocalittici che mi avvolgono,
togliendomi il poco fiato che mi rimane.
E sono le mie mani sul suo petto glabro e dalle fasce di muscolo
definite, è seguire i contorni delle cicatrici che anche
là lo perseguitano e afferrarmi alle sue spalle quando mi
afferra per le cosce e mi porta a letto, mentre la maglietta cade
lontano. Ed è lui che sgrana i bottoni della camicetta
giocando con la pelle scura che ne emerge, la pelle d’oca che
si crea quando lascia baci umidi nell’incavo tra i seni.
Ed è seguire con dita curiose quella linea retta che
dall’ombelico in poi si trasforma in una sottile scia di
peluria fiammeggiante, mentre siedo a cavalcioni sui suoi jeans ancora
abbottonati, la pelle umida prepotentemente illuminata dalla luna e il
suo petto che si alza e abbassa al ritmo del suo respiro, mentre mi
guarda dal basso e le sue dita scivolano fino ai bottoni, che
risplendono come fossero stelle.
Ma la mia mano, piccola e così scura sulla sua, lo ferma.
-Non so con chi tu sia stato prima di me, né tu sai con chi
sia stata io.
Sussurro, la voce roca, i suoi occhi nei miei, su di me, tristezza e
malinconia e voglia e di nuovo tanta tristezza, sua eterna compagna.
-È la prima volta, per me.
M’irrigidisco, ma le sue mani tornano sui miei fianchi,
accarezzandoli per tranquillizzarmi. Scivolano poi sulla pancia, fino
all’ombelico, facendomi rabbrividire. E da lì,
scendono giù, fino ai suoi pantaloni.
Ai suoi bottoni.
E li slaccia, con lentezza esasperante.
Uno.
Dopo.
L’altro.
-E se anche volessi, da me non avrai figli.
Mi sussurra, quasi sognante, mentre torno a stendermi su di lui.
…
La prima cosa che sento è il freddo alle braccia.
Cerco a tentoni le lenzuola, fino a capire di averle arrotolate intorno
alle gambe. Tiro infastidita verso di me, e finalmente il caldo tepore
mi avvolge.
Ma le brillanti immagini dei sogni prima del risveglio svaniscono come
bolle di sapone quando mi rendo di una cosa.
O della mancanza
di una cosa.
Mi tiro bruscamente a sedere, guardandomi intorno, la vista ancora
annebbiata dai raggi del sole della prima alba. E mi accorgo che il
letto è vuoto. Matrimoniale, enorme, sfatto. E io, sola, al
centro.
L’adrenalina mi fa quasi esplodere il cuore di rabbia, mentre
un sapore amaro -come il fiele, come caffè nero senza
panna-, quello della disillusione, mi brucia in bocca.
Mi precipito verso i miei abiti, recuperando camicia e mutandine,
quando mi accorgo di un foglietto di carta vicino alle mie scarpe.
Mi chino di scatto, facendo mente locale sulla sua presenza o meno in
camera, e lo stringo in pugno mentre attraverso la stanza e mi
precipito giù per le scale, alla ricerca di Joe.
Lo trovo al bar, come sempre, e, come sempre, da solo. Ma, al posto di
lucidare il bancone, o consumare le stoviglie a forza di strofinarle,
è chino su un libro piuttosto grosso e sciupato, in uno dei
tavolini a fondo sala.
Quando sente i miei passi avvicinarsi con un ritmo da marcetta militare
s’incorpora, chiudendo il libro con un tonfo.
Lo guardo, infuriata e allo stesso tempo in imbarazzo per il mio
abbigliamento ridotto al minimo.
-Tu lo hai visto andare via e non l’hai fermato.
Aspetto una minima traccia di emozione dal suo tondo viso scuro,
così imperscrutabile, così misterioso.
Così perfettamente padrone di sé che credo
inizierò a rompere tutto tra pochi secondi-
-Non se n’è mai andato, chiquilla.
Lo guardo incredula, incerta se gridargli contro di tutto o misurargli
la febbre. Ma Joe Black vede la mia espressione dura e, semplicemente,
abbassa lo sguardo. E apre il libro.
Prima di mostrarmelo, però, solleva il mio mento, cullandomi
per un momento nella sua voce profonda.
-Prima di me, mio padre gestiva questo posto. Ma lui non lo
costruì, lo comprò. Ed è questo il
motivo per cui non ti ho mai parlato prima dei precedenti proprietari.
“Efferato omicidio in
un’anonima stazione di riposo della Route 66”
L’articolo non occupa che una colonna del quotidiano su cui
è stato pubblicato. È stato ritagliato con
sommaria cura ed appiccicato all’album di malagrazia, e la
data, riportata in un angolo del ritaglio ormai ingiallito con il
tempo, è del 1952.
Scruto Joe dubbiosa, ma da lui non ricevo che un cenno del capo che
m’invita a leggere.
“Trovati i cadaveri
quasi irriconoscibili del gestore e della sua famiglia - nessun
sospettato”
-La famiglia Hewytt si
era occupata con coscienza del suo punto di ristoro, e non si sono mai
rivolti alle autorità per denunciare chicchessia- Dichiara
lo sceriffo della più vicina cittadina. -La pompa di benzina
non è stata toccata, né gli effetti personali
delle vittime. Il movente è inspiegabile.- Thomas John
Hewytt (55), Adele Mary Hewytt (32) e David Nathaniel Hewytt (20) sono
stati ritrovati cadavere alle prime luci dell’alba da due
motociclisti insospettiti dalle porte spalancate.
[…]
L’omicida ha
dato prova di vera crudeltà, arrivando persino a squartare
le mani dei membri della famiglia.
E mentre le lettere scorrono sotto i miei occhi, anch’io
assumo il Suo stesso sguardo.
Vacuo, distratto, come se tutto questo si stesse svolgendo in un altro
universo.
Una foto di famiglia li ritrae, sorridenti e sgranati, li intrappola
tra le righe di quel ritaglio di giornale. Un sorriso innocente, una
chioma arruffata. E rossa, anche se non si direbbe.
Mentre il bigliettino, stritolato dal mio pugno, si schiude come un
fiore fuori stagione.
Foglie d’edera, e
tralci di rosa.
Mi sono sempre piaciute,
anche se qua non abbondavano.
Ah, quasi dimenticavo:
David Nathaniel Hewytt
1932-1952
“Quel
deficiente che ha raggiunto quello che tanto aveva cercato
Solo dopo una vita in
prestito.
Brinda quindi con me,
viaggiatore senza meta,
Alle notti che valgono
una vita”
Mi raccomando, non te ne
dimenticare.
I miei amici, si faranno
presto vivi.
Al tuo fianco, sempre,
David.
¡ -Punto di ristoro
N°188, Route 66, pronto?
-Chel
Mendoza?
-Chi
parla?
-Qui
Morte S.p.A., señorita!
Se
non ha ancora deciso del suo futuro, che ne dice lavorare per noi?
!
N.A: Senza
senso e senza stile. Chiedo venia. Ma se vi è piaciuto, o se
vi ha fatto schifo e ci tenete a dirmi dove/cosa ho sbagliato, ehi!,
nessuno vi dice di no a un commento.
Lo spazio bianco inserito tra i due punti esclamativi è il finale
1b. Basta evidenziarlo con il cursore per leggerlo. Giusto come imput
per una nuova storia, indipendente da questa, che non starà
né in cielo né in terra, esattamente come questa.
Suerte.
<3
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