LA PRIMAVERA DI SAKURA
“Torniamo a casa assieme Sakura-chan?”
“Oggi no, mi spiace… ho degli
impegni…”
Affacciata all’ampia finestra della mia classe respiravo quell’aria fresca e frizzante che la Primavera porta con sé nel mio paese.
Con sguardo trasognato guardavo verso il basso, tra quella
folla di studenti che lesti si apprestavano a far ritorno alle loro case,
cercando di scorgere la sua figura, inutilmente.
Lasciavo così che i miei occhi si perdessero in lontananza,
fin quasi a sfiorare l’orizzonte coperto dalle dolci colline che circondano questa zona, e rimanevo ad osservare per qualche
minuto, coi gomiti sul davanzale, i maestosi alberi di ciliegio del parco.
Accadeva spesso di questi tempi, che dentro di me, in un
angolo profondo del mio cuore, un forte senso di paura e di malinconia prendesse
il sopravvento su tutto, quasi avvolgendo la mia mente in una nebbia fitta e
densa come il latte, e con l’anima come stretta in una morsa mi abbandonavo tra le lacrime.
Questa sensazione non si mostrava chiara ai miei occhi,
questa forte tensione non si presentava alla mia mente come una
immagine ben definita, come qualcosa che io potessi chiamare per nome;
nonostante ciò, sapevo benissimo di cosa si trattasse, e forse proprio per
questo, mi sforzavo di non riconoscerla.
Durante le lezioni qui a scuola, riuscivo a non sentirmi
così oppressa da quella tensione, in quanto mi trovavo
costretta a concentrarmi su altre cose…; però, quando la campanella con la sua
lenta melodia sanciva la fine delle lezioni, nel mio cuore scendeva quell’alone di tristezza, che avrebbe continuato ad
avvolgermi interiormente per tutta la giornata.
Ma i petali rosa dei ciliegi in fiore… quelli, non so come,
riuscivano a illuminarmi il cuore, a farmi sentire
subito meglio.
Forse è per via del mio nome, non lo so [Sakura vuol dire “ciliegio”]; so solo che ogni qual volta li vedo
ondeggiare nell’aria, in queste solari giornate primaverili, posarsi sopra i
muri e colorare tutto di quelle loro chiare tonalità, in me è come se si
accendesse la speranza, e le ombre che mi fanno star male venissero
spazzate via.
Presi la mia cartella, e come avevo detto a Sachiko, non tornai a casa.
Volevo passare da lui, volevo
vederlo, sapere come stesse.
Io e Ken siamo amici sin dall’infanzia.
Da bravi amici un tempo stavamo
sempre insieme, anche perché abitavamo uno affianco all’altro, prima che i suoi
si trasferissero in un’altra casa, ed insieme ne abbiamo combinate di tutti i
colori.
Sembravamo inseparabili, ognuno era per l’altro “l’amico del
cuore”, e molti ci davano addirittura per futuri innamorati!
A dire il vero, benché a quei tempi non sapessi nemmeno cosa
fosse l’amore, ero certa anche io che un giorno noi due ci saremmo fidanzati,
perché non riuscivo ad immaginarmi senza di lui, lo avrei voluto accanto per
sempre, come abbiamo fatto per tanti e tanti anni della nostra infanzia.
Ma poi si cresce, si cambia… gli interessi personali
cambiano, passioni un tempo sconosciute si accendono e
finisco per prenderti tutto, anima e corpo… si scopre che al mondo non ci sono
solo Sakura e Kensuke, e che non era scritto da nessuna parte che fossimo
destinati a stare insieme.
Attraversai il ponte che taglia in
due il mio paese, avvertendo la vitalità del fiume che scorreva sotto di me
calmo e cristallino, e ne ebbi un senso di pace. La sua superficie brillava
limpida sotto i raggi del Sole che, alto
sopra le case, riscaldava piacevolmente il mio corpo, facendomi sentire viva, facendomi
quasi venir voglia di correre per gli immensi prati che costeggiano le viuzze della
campagna e rotolarmi in essi, fino a confondermi nel
verde intenso dei fili d’erba, per assorbire il profumo dei girasoli e perdermi
tra i mille colori dei tulipani, e poter dimenticare così tutti i miei
problemi.
La primavera, nel mio paese, è davvero fantastica.
******
Era già una settimana, che Ken non veniva a scuola.
Io e lui frequentavamo entrambi il terzo anno, e avevamo
scelto il Liceo Adachi per poter continuare a stare ancora in classe insieme,
visto che l’Adachi, oltre a essere un’ottima scuola, è
anche il posto di lavoro di mia zia Nanako che, in
quanto addetta alla segreteria dell’istituto, ci aveva assicurato che avrebbe
fatto il possibile per infilarci nella stessa sezione. La zia pareva così
convincente e sicura di sé, che quasi mi venne da ridere quando lessi gli
elenchi delle classi affissi alle pareti accorgendomi che Ken non era in classe
con me!
“Non sarà certo questo a dividerci!” pensai allegramente,
mentre la mia vita da liceale stava ormai per cominciare.
Bussai alla porta, e ben presto mi venne ad accogliere la
signora Hikari, la mamma di Kensuke.
Era tanto che non tornavo qui, e tutto mi dava un forte
senso di nostalgia.
“Ma ciao Sakura-chan! Che bella sorpresa!”
La signora Hikari era una donna molto giovane, dopotutto
aveva avuto il figlio a soli 17 anni, ed ogni volta che mi sorrideva, con quel
suo volto così espressivo e sincero, dai lineamenti morbidi e delicati, mi
pareva illuminarsi di luce propria.
Quando la vedevo così allegra, gli
occhi accesi di una gioia di vivere che un po’ le invidio, pensavo al mio amore
per i ciliegi, e cominciavo a chiedermi se davvero fosse tanto assurda la
relazione tra i nomi delle persone e il loro carattere… [Hikari vuol dire “luce”]
“Buonasera Hikari-san” le risposi con un piccolo inchino,
sorridendole dolcemente, dopodiché mi tolsi le scarpe.
L’ingresso di quel piccolo ambiente famigliare era come lo ricordavo, nulla era
cambiato, apparte la sensazione che le cose si
fossero rimpicciolite. Da piccola, la cassapanca di legno accanto alla parete,
mi sembrava altissima.
“Sei venuta per trovare Ken vero?”
“A dire il vero sì… è un po’ che non si fa vedere”
La sua espressione gioiosa era rapidamente cambiata. Hikari
voleva un bene dell’anima a suo figlio e ogni qual volta lo vedeva giù, lo sapeva
triste per qualche cosa o solo pensasse che Ken potesse essere nei guai, si rabbuiava
e si spaventava da morire al pensiero di non poterlo aiutare in nessun modo;
nonostante ciò però, la sua forza di volontà e la sua incredibile luce
interiore, la spingevano a fare tutto il possibile per
fargli tornare il sorriso sulle labbra, e anche se quello che faceva sarebbe
forse servito a poco, lei si impegnava comunque a dare il massimo.
Oggi per esempio era tutta indaffarata nel preparargli il
suo piatto preferito per cena, seguendo passo passo
le istruzioni di un programma culinario alla TV.
“Allora sali, è in camera sua! Non ha voluto vedere alcuni
suoi amici che sono venuti a trovarlo, ma a te non può
dire di no!” mi rispose sorridendo come sempre.
Il rapporto di Hikari-san con Ken è sempre stato un qualcosa
di particolare; troppo poco formale per essere definito rapporto madre-figlio, ma neanche
troppo confidenziale come quello tra sorella e fratello. La verità è che dalla
nascita del bambino, Hikari è stata costretta a rivestire il duplice ruolo di
madre e quello di padre, e questo per una donna della sua età non dev’essere stato facile.
Per me è quasi un mito.
******
Salii le scale, calpestandone la soffice moquette verde, e
mentre i miei sensi abbandonavano i profumi caldi e intensi della cucina percorsi
quel corridoio luminoso che per tanti anni da piccola avevo
percorso assieme a Kensuke, quando andavamo nella sua stanzetta a giocare a Doraemon; lui faceva Nobita, ed
io, imitando la voce del gatto con la tasca in pancia (ero sempre munita del
mio marsupio a quei tempi) tiravo fuori gli oggetti più strani che rubavo a
casa mia e gli attribuivo un particolare potere,e da lì iniziavamo a
immaginarci una quantità incredibile di avventure…
Una volta ricordo che, inconsapevole di cosa fosse, rubai
dalla camera dei miei un preservativo e dopo averlo gonfiato gli attribuii il
potere di funzionare come un pallone aerostatico, cosicché Ken alias Nobita si era ritrovato a girare per il paese tenendo in mano quello “strano palloncino” sotto lo sguardo
meravigliato di tutta la gente del quartiere!
Ricordando questi piacevoli episodi sorrisi, quasi
malinconicamente, dopodiché bussai alla sua porta.
“Ken, sono Sakura”
Come immaginavo non ottenni risposta, così
continuai a bussare…
“Ken, dai, fammi entrare, voglio sapere almeno come stai…”
Silenzio.
“NOBITA! Apri questa porta, o ti tiro un chuski
in testa!!!”
E finalmente, dopo aver fatto un
po’ la voce grossa, sentii il clack della serratura
che si apriva.
Lo trovai vestito con una larga felpa azzurra degli Hornets e dei calzoncini corti blu, i capelli scompigliati,
con il gel che si era seccato, e completamente scalzo.
Non mi scomposi più di tanto. Ero abituata a vederlo in
quelle condizioni, e lui lo sapeva, difatti non si vergognò né si scusò di
essersi presentato così.
Ciò che non ero abituata a vedere,
e che mi fece molta paura, erano quei suoi occhi neri così spenti, così senza
personalità; il vederlo camminare con quei passi lenti, e sentire la sua voce così
debole, come se si sforzasse quasi di parlare… sembrava uno di quegli anziani
malati negli ospedali.
“Doraemon non bussava così forte…
la stanza di Nobita aveva i fusuma.” Mi disse con quella sua voce senza tono.
Mi sedetti sul suo letto, appoggiandomi con le spalle al
muro, e poi mi strinsi le ginocchia al petto, proprio come quando ero piccola;
“Una volta la tua camera li aveva i fusuma.”
Scrollò le spalle, e tornò a sistemare le
sue action figures sullo scaffale. Stetti ad
osservarlo un po’ in silenzio; continuava a cambiarle di posizione
continuamente, come se non lo facesse per il semplice scopo di ordinarle, ma solo
per passare il tempo.
“Come stai…?” Osai chiedere, timorosamente
“Bene”
“Ken, non mi sembra proprio…sembri un fantasma”
“Può essere…”
Era già stato un miracolo l’avermi fatta entrare in camera,
forse pretendevo troppo a fargli scucire anche qualche parolina di più…; in
fondo sapevo bene che cosa lo avesse gettato in questa
situazione, non avevo bisogno di chiederglielo.
Ciò che mi preoccupava era che non trovavo il modo di
consolarlo, di aiutarlo in qualche modo… non riuscivo a vederlo così giù.
Sin da piccolo, i suoi occhi non erano mai stati troppo
allegri o luminosi… sembravano sempre tristi, apatici… anche se questa volta lo
erano da fare impressione.
In poche situazioni, da quando abbiamo iniziato il liceo, li
ho visti brillare, bruciare ardentemente attraverso quelle sue iridi nere così
profonde e limpide, tanto da farlo apparire un’altra persona:
quando parlavamo assieme rivangando
tra i ricordi, e quando giocava a basket, o semplicemente ne parlava.
Quello sport, da quando si era iscritto al club di
pallacanestro al primo anno, era diventato la sua vita… giorno dopo giorno la
passione per la palla a spicchi, la competizione, il rumore delle scarpette sul
parquet, il frusciare morbido della retina dopo ogni tiro a segno… tutto quanto
ha iniziato a crescere dentro di lui sempre di più,
fino quasi a prendere completamente possesso del suo corpo.
Due anni fa, frequentavamo entrambi il primo liceo, la
squadra di basket della scuola si era riuscita a qualificare per le finali nazionali, cosa che non era mai accaduta prima…;
Ken era uno dei talenti della squadra, una matricola che però alcuni credevano
addirittura superiore al capitano; dopo la prima partita in quel di Hiroshima,
dove i nazionali si disputano ogni anno, ricordo che mi telefonò non appena la
sirena sancì la fine della gara, per informarmi della vittoria della squadra
grazie ad un suo canestro sul fil di sirena, quello
che viene detto un “buzzer beater”
Non dimenticherò mai la sua voce, che veniva
rotta di tanto in tanto dall’ansimare per la fatica e che quasi pareva urlasse
per la gioia che gli esplodeva in corpo…
“Sakuchan, ce l’abbiamo
fatta! Abbiamo vinto con un mio canestro decisivo!!!”
“Complimenti Ken, sapevo che non mi avresti deluso!” riuscii
a dire quasi con le lacrime agli occhi… sapevo quanto era importante per lui,
lo avevo visto faticare in palestra e sacrificarsi tanto durante l’anno…e poi
seguivo quasi tutte le partite del club, ero una loro tifosa.
“Se arriviamo in finale ti pago il
biglietto e ci vieni a vedere!”
“Ok!” dissi ridendo.
La partita seguente però persero, contro la finalista
dell’anno precedente.
Pensavo che al suo ritorno Ken sarebbe stato terribilmente
triste e deluso, invece lo ritrovai pieno di voglia di riprovarci l’anno
successivo, e di convinzione di riuscire a portare il titolo nazionale qui nel
nostro paese.
“Dove sono finiti tutti quei poster
che avevi?” Chiesi, notando che le mura erano stranamente spoglie…
“Li ho tolti, tutto qui.”
“Non mi sembra che cercare di dimenticarlo riesca a farti
stare meglio…”
“Uff…ha qualche consiglio migliore
dottoressa?” rispose gelido.
Mi alzai e, andando verso di lui, lo presi per i polsi
guardandolo negli occhi…
“E’ dentro di te ormai. Hai vissuto la tua vita recente, e
immaginato quella futura in sua funzione. Non riuscirai mai a cancellarlo Ken.”
“E allora? Ormai lo sai che non
posso più fare niente! Oramai è finito tutto.” E con
uno scatto un po’ brusco si liberò dalla mia presa. Continuai a seguirlo con
gli occhi, fin verso il letto, dove si era gettato pesantemente, cercando
qualche soluzione alternativa;
“Perché…perché non ti proponi come manager del club?”
proposi, sicura tuttavia del suo netto rifiuto
“Tsk… manager del club…”
“E perché no! Dopotutto il manager
è fondamentale! Forse non lo sai, ma anche ai manager danno il piatto
commemorativo della vittoria dei campionati nazionali!”
“Non lo so, e non mi interessa…”
rispose acido, tanto che io ci rimasi un po’ male… devo sicuramente averlo dato
molto a vedere, perché improvvisamente il suo volto fino ad allora
inespressivo, si contrasse in una smorfia di mortificazione…
“Scusami… so che lo dici perché non vuoi vedermi così…
perché mi vuoi bene… ma è inutile. Tutto ciò che la gente mi dice, mia madre, i
compagni, tutti… tutto quanto mi scorre addosso senza lasciare il segno, tutte
quelle belle parole di conforto mi sembrano così utopistiche e inutili… che
cosa ne sanno gli altri di quello che provo io…”
“Io lo so cosa provi Ken… io ti conosco meglio di chiunque
altro…”
“Non puoi saperlo. Non hai mai passato un dolore uguale.
Forse ti sarà capitato qualcosa di simile, o anche di più doloroso… ma non
uguale. Mia madre ha cercato di tirarmi su, ponendomi gli esempi di tanti a cui
era successa la stessa cosa, ma ne erano usciti più
che bene…”
“E tu?”
“Io non sono gli altri, ognuno reagisce a stimoli uguali in
modo diverso, perché ognuno di noi è diverso! Se avvicino un fiammifero accanto
a un mucchio di paglia, questo prende fuoco, ma se lo
metto in un bicchiere d’acqua si spegne...”
“Mi sembra elementare…” feci perplessa.
“Già. Lo è. Eppure pare che nessuno
lo capisca. E tutti chiedono alla paglia di reagire
come l’acqua…”
Aprì il cassetto del comodino accanto al letto per estrarre
il suo Game Boy, e lo accese iniziando a giocare.
Io, che mi ero seduta a cavalcioni
su di una sedia, iniziavo a capire il significato delle sue parole.
Finora tutti gli erano venuti a dire che cosa avrebbe dovuto
fare, come si sarebbe dovuto comportare, di dimenticare ciò che aveva amato seppur
da poco tempo, ma intensissimamente…; nessuno mettendosi mai nei suoi panni, ognuno prendendo a ideale di comportamento un
“uomo immaginario” che agisce sempre con la razionalità, sempre nel modo
giusto, un uomo senza debolezze e pieno di virtù. Uno che di fronte anche ai
più grandi problemi sa sempre mantenere il suo
autocontrollo e la sua forma abituale. Un uomo che di fronte a
un fiammifero, sa comportarsi come l’acqua.
Forse, anche io ho peccato di presunzione, convinta di
conoscerlo a fondo.
E’ vero, non potevo sapere come si
sentisse. Ma avrei fatto comunque qualunque cosa per
aiutarlo! Non sono una psicologa, non mi serve capire le turbe psichiche dei
miei pazienti; sono un’amica, la migliore amica di Kensuke, e gli voglio essere
accanto ogni volta che ne avrà bisogno.
Non perché devo, ma perché lo voglio.
Ebbi un’illuminazione. O forse ero andata da lui, con in testa già l’intenzione di prendere questa decisione.
Aprii la porta, poi con entrambe le mie braccia presi il suo
e lo alzai dal letto, trascinandolo fin fuori dalla
stanza!
“Ma che cavolo fai!!! Non ho voglia
di uscire!”
“Vieni con me, devo portarti da una
parte!”
“No! Dove vuoi portarmi?”
“Andiamo alla stazione” gli risposi sorridendo
“Sakura, piantala” rispose lui duro
“ti ho detto che non ho voglia…”
“Ken, non ti fidi di me?”
“Non è questo…”
“Ti ricordi quando io ero nei casini? Tu mi hai sempre
aiutato, nonostante non ti avessi chiesto nulla; a
volte nemmeno sapevo che eri a conoscenza dei miei problemi, eppure di colpo
ecco una tua telefonata, una tua lettera… e portavi sempre in me un raggio di
sole, un raggio caldo e luminoso. E’ vero, non capisco appieno cosa provi… ma
so per certo che in momenti freddi e bui come questi, quel raggio donato dal
tuo migliore amico è il regalo più grande del mondo.”
Dalla cucina arrivavano gli odori del riso bollito e delle
spezie, mescolandosi piacevolmente a quelli della moquette appena lavata. La
signora Hikari imprecava verso il televisore urlando frasi del tipo “Come pensi che possa avere a portata di mano delle noci e dei
datteri in primavera?? Aaaah…maledette repliche!”
mentre fuori dall’ampia finestra in fondo al
corridoio, un vento allegro si era alzato, portando con sé quel tesoro di
petali rosati che tanto amavo.
Sentivo il suo cuore battere, mentre mi abbracciava stretta.
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Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, e se vi piace come è scritta, grazie ^^ Ah, cmq continua...