Hey all of you, I'll take you
along.
To worlds never seen by
anyone before.
Along with our dreams
we're wide awake,
But the night's still
still still not spoiled yet,
The world's not awake.
(Miyavi - Selfish Love)
Presumibilmente non si sarebbe dovuto presumere un bel nulla, non da
quella situazione al limite dello schizofrenico in cui tutto quello che
era stato presunto si era rivelato poco presumibilmente ovvio,
sbaragliando così le deboli speranze del parentado di una
rapida soluzione del problema.
In fondo quando tutto quello che doveva essere non è
diventato, non è che ci si possa mettere in un angolino
remoto a pregare che una qualche entità, Dio o chi per lui,
scenda dal Regno dei Cieli e ci pari il cosiddetto.
Che poi non è
che non si possa fare, non dico di no, si può stare tutta
una vita parcheggiati in un’area di ristoro abbandonata
pregando per una possibilità, ma non mi sembra il caso,
ecco, io…
Io divago troppo, ecco cosa faccio.
Dicevamo.
Dicevamo qualcosa di coerente? Sinceramente non lo so e non lo voglio
sapere, molto meglio fare stop, rewind, play.
In questo momento sono completamente zuppa di pioggia. Che, guarda un
po’, è fredda. E una maglietta di cotone e una
gonna di tulle blu oltreoceano non sono esattamente gli indumenti
più adatti a ripararti dal classico acquazzone parigino di
gennaio.
Ma tant’è, scappando da teatro appena finito lo
spettacolo non potevo certo indossare il mio caldissimo cappotto rosso
foderato di vellutino nero, con alamari dorati e un collo alla coreana,
no, dovevo infilare le scarpe e correre, correre con tracce evidenti di
cerone sul viso, correre sotto la pioggia, correre via e pregare di
divenire parte integrante di quel fiume celeste, che stava scaricando
senza troppi perché tutta la sua furia sul mio capino.
Correre, correre, correre. I piedi, a diretto contatto con un paio di
All Star più stinte che distrutte, mi dolevano ad ogni
passo, ma per ogni passo in più che riuscivo a fare un
fiotto di adrenalina mi aiutava a dimenticare il dolore che mi avrebbe
procurato compiere il successivo.
Le pozzanghere riflettevano la mia grottesca immagine, una regina
pagliaccia in fuga da una carriera maledetta, che dopo aver dato un
senso alla sua vita vuota si trova sbigottita a fare i conti con una
mancanza di sensazioni che proprio non si aspettava.
Hai iniziato a recitare
nello stesso momento in cui hai visto tua madre farlo.
All’inizio era semplice: “girati, piccola, ma fallo
lentamente, e guarda su con la coda dell’occhio, come se ti
aspettassi di trovarti tutti meno me alle spalle”. i bambini,
per natura, sono cattivi e bugiardi, e se nella prima scarseggiavi,
nulla di troppo grave però, riuscivi comunque a tenere a
bada gli altri, nella seconda eccellevi.
“Non ti
fermare, vai, lo afferri, lo stringi, lo guardi con aria supplice,
demente, sorridi mestamente, lo spingi via”.
Trovati una faccia,
sotto le mille maschere che ti hanno insegnato ad usare.
“Rendici fieri di te!” Ma non incolpare nessuno
della tua fine, vagabonda improvvisata sotto i cieli di una piovosa
Parigi, perché ogni singola parola che hai recitato, ti
è piaciuta. E più trovavi nuove espressioni e
diventavi una grande attrice, sentivi di perdere presa sulla
capacità di parlare chiaro e scandire le parole, mentre tu
per prima, consapevole di essere un ostacolo per te stessa, ti sei
lasciata togliere via, come uno strato di trucco secco dal viso, dopo
uno spettacolo.
Sono una principessa sperduta nel mondo delle acque scroscianti, ora
come ora. Principessa di ’sti cazzi, come direbbe il mio
macchinista preferito, masticando insulti e imprecazioni dopo aver
ricevuto l’ennesima protesta per non aver rispettato i tempi
della principessa.
Principessa delle pozzanghere e dei vicoli bui, nei quali metto piede
portandomi le mani al seno, stringendo spasmodicamente il cotone della
maglietta, quasi cercando una luce che non sembra essere al finale
dell’ennesimo vicolo, in cui l’unica cosa che si
riesce a vedere è il profilo del muro e i lattiginosi globi
dei lampioni.
Incoronata da uno chignon sfatto di capelli umidi e crespi, il trucco
colante e le labbra rosso palcoscenico, un braccialetto di campanellini
di latta, una regale maglietta strappata all’altezza del
fianco e lo strascico di una gonna di tulle blu i cui bordi sono
talmente sudici da non distinguerli dall’asfalto.
Non so neppure se sono la legittima padrona della mia testa, ora come
ora.
“La padrona
della mimica, del palcoscenico, del teatro, del mondo!”
Cosa mi era saltato in mente di fuggire da un mondo sicuro e dorato
come il palcoscenico, per rifugiarmi qui, in una città con
un tasso di stupri decisamente poco confortante?
Eppure, non ho ancora incontrato anima viva. Non in questa
Parigi, non nelle sue strade dai nomi dimenticati, costellate di
piazzette dominate da chiese ormai dissacrate e chiuse, amorevoli nidi
di cicogne e pipistrelli.
Muri vecchi e scrostati, cancelli nuovi di zecca, macchine rubate si
succedevano sotto i miei occhi spalancati sul nulla, scorrendo via come
l’acqua sulla mia pelle.
Veleggiavo per i lidi della mia mente pazza, aspettando di essere presa
e scossa, e tenuta ferma, e venire ancorata a qualcosa, qualsiasi cosa,
mi potesse dare un senso.
La sabbia dei miei pensieri, minuscoli cristalli di disperazione e
nebbia, mi scorreva tra le dita della memoria, ferendole con i loro
bordi appuntiti.
Non stavo fuggendo dalla mia ultima rappresentazione, stavo fuggendo
dalla mia vita, il mio futuro, così certo, che sentivo
inesorabile scandire i secondi della mia vita.
Ancora un po’
di gavetta, i primi ruoli importanti, ancora più lezioni di
canto e recitazione, ancora studio delle lingue, leggi, leggi, leggi,
tu sei il capitale, noi invertiamo su di te, ruoli importanti, buone
recensioni della critica, piccoli flop che renderanno la rivincita sui
palchi ancora più eclatante, marito, figlio, Amen.
Oh dio, tu che stai nei
cieli a perfezionare il tuo operato senza peraltro avere risultati
degni di nota, potresti gentilmente salvarmi da me stessa, grazie?
E allora via, forza, incontro a non si sa quale tragica fine nelle
strade di un centro storico dimenticato o mai esistito, giovane
promessa del teatro nazionale scompare, A.A.A. psicopatico omicida
cercasi, oh che peccato guarda cosa sarebbe potuta diventare.
I gas fumogeni del palco e la canna che mi ha passato sottobanco Juan
prima di spedirmi a calci sul palco, combinati, hanno avuto questo
effetto.
Annaspo, un po’ corro, un po’ cammino, senza
emettere un rumore, le guance rigate dalle lacrime.
Mi appoggio a una macchina, parte l’allarme, possibile che
macchine tanto vecchie abbiano questo tipo di allarme? Un ruggito, come
ti aspetteresti da una BMW, non da un camioncino Volkswagen, che
ruggisce, Dio, come ruggire.
Scappa, o ti prendono. E se ti prendono ti portano a casa!
Datemi aria, i miei polmoni ne stanno consumando talmente tanta che
immagino qualche parigino stia già morendo soffocato,
vittima della mia ingordigia. C’è un tempo per
tutto e io l’ho perso, mi ripeto, non sono riuscita a dare di
me stessa che il mio trucco al mondo che mi guarda negli occhi e li
trova vitrei, cordialmente inespressivi, prima lezione di maschera
neutra a teatro.
Il camioncino è ormai lontano?
Non lo so.
Ma so che, come una visione celestiale, uno tra i portoncini dei
palazzi che si affacciano in questa piazzetta è socchiuso,
è una bocca buia, umida ed invitante, lontana dal cono di
luce del solitario lampione che, soldato in pensione, protegge il poco
asfalto che il suo cono di luce illumina.
Un passo dopo l’altro, un pensiero delirante dietro
l’altro, mentre i sassolini dell’asfalto mi entrano
nel piede grazie alla suola sottilissima delle scarpe, mentre prego che
qualcuno mi prenda e mi porti via, via da qualsiasi posto, via da me
stessa e ciò che di me non capisco e non voglio accettare.
Il legno del portone è vecchio, rovinato e la tintura
è stinta, e sembra proprio che a nessuno sia venuto in mente
di ridipingerlo da un secolo a questa parte. Quando lo afferro per
oltrepassare la soglia, piccole e dolorose schegge mi feriscono i
polpastrelli, momentaneamente insensibili per il freddo della poggia,
che sembra avermi congelato l’anima, non solo le ossa. Eppure
quello che mi accoglie, in quell’andito scuro, sono pareti
tappezzate con un motivo a fiori ormai stinto, una cappelliera piena di
tube e bombette dalle strane protuberanze, e una grande, soffice, calda
poltrona di cinz.
Cinz viola e giallo, decorazioni in ottone, il buon gusto è
morto, signore e signori, ma a noi ci va bene così,
perché tutto il sonno del mondo mi è crollato tra
capo e collo, e solo accoccolandomi tra quei cuscini stinti e chiudendo
gli occhi per un attimo, potrò tornare a vivere. Solo per un
attimo, non vogliamo certo disturbare il padrone della poltrona. Voglio
solo dormire, forse sognare, e poi morire.
Come l’abbraccio di una vecchia zia dalla borsa Chanel
rappezzata, dai boccoli tenuti su con i bigodini, mi sento inondare da
un fiotto di calore che non sono del tutto sicura di poter attribuire
alla sola canna. E, chiudendo gli occhi sul mio triste, nuovo, bagnato
mondo, mi addormento di colpo.
Dormire, forse sognare,
e poi morire.
N.A: Niente
di particolare, altro incipit più per testare le mie reali
possibilità che per altro. Commenti/criticheferoci/qualsiasi
cosa sono graditissimi. ;D
Suerte. <3
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