The Catchers In The Rye
Oggi è il giorno della morte.
Paura fottuta, le dita gelate, avrei preferito non pensarci e invece ci penso
ogni secondo. Lo so.
Guardo giù e vedo i contorni di un parco violentato dalla brina, che l’ha
dilaniato tutta la notte, che gli si aggrappa addosso come una bambina senza
madre.
E’ il sole, sono le punte delle mie scarpe sospese sopra il nulla.
Tutto è più autentico. Non importa perché, ma lo è. E’ tutto al suo posto. Fa
tutto parte del disegno, adesso. Ma come ho fatto a non capirlo, a non vederlo
prima?
Non ho le forze, mi mancano tutto ad un tratto, come se qualcuno mi avesse
annullato il sangue.
Mi abbandono. Al cornicione, al vuoto.
Sento le lacrime scoppiare sulla sciarpa, il fuoco mangiarmi via la vita.
Sono le fiamme della frenesia di esistere, di fare qualunque cosa pur di vivere
davvero, di sentire davvero, di toccare davvero.
Non sono più qui, no, mai.
Sono nel cielo. Oltre l’azzurro, oltre l’ozono consumato, oltre l’impossibile e
i pianeti e le lune, le galassie. A morire in volo senza mai aver respirato,
oltre i confini della pelle lacerata. Senza ali, senza paracadute, senza angeli.
Senza male e senza bene. C’è solo la bellezza del soffrire per la troppa
pienezza, per la totalità del mondo rinchiusa nelle fibre muscolari.
Sospirare e gemere e questo è fare l’amore. E le coccinelle, gli occhi dei
neonati, i baci freddi, le rivoluzioni, i capelli bianchi, il seno di una donna.
Oh… scricchiolare il petto, fondere le ciglia, la lingua sul cemento.
Ma cosa siamo se possiamo esaltarci e distruggerci così? Perché siamo, dove
siamo, sperduti negli angoli degli universi e schiantati nelle nostre tragedie
di cartone. Esistenze misere che non si accendono mai, lampadine spente che non
conoscono la luce.
Ma io voglio brillare!
Io voglio brillare!
E
se conoscessi Dio… se conoscessi Dio.
Gli direi che sto saltando.
C’è stato un tempo in cui giocavo nei campi di segale.
Gli direi di afferrarmi prima che io cada nel burrone.
C’è stato un tempo in cui giocavo nei campi di segale.
“El?”
“Si”
“Si?”
“Si”
“Cosa fai lì?”
“Guardo giù”
“Posso venire?”
“Scusa il ritardo”
“El?”
“Non è importante”
“Si che lo è”
“No. Stavo per saltare. Non è importante”
“Saltare?”
“Giù”
“Perché?”
“Mi sentivo tutta vuota”
“Anche io”
“E poi tutta piena”
“E allora ho avuto paura”
“Di cosa?”
“Di non sentirmi mai più così”
“Succederà, vero?”
Elisa solleva gli occhi su di me.
Siamo immobili sul cornicione.
L’immagine che ho di me in questo momento mi ricorda una parola: bilico.
Non credevo che la nostra giornata sarebbe iniziata così, quando lei mi ha detto
di raggiungerla qui.
Il maremoto dei miei sensi mi risveglia.
E credo davvero in qualcosa, adesso.
“No, non succederà”.
Ha la faccia di chi desiderava con tutta la sua anima questa risposta.
Ma non le basta. Non vuole arrendersi così. Deve capire.
Ed io conosco ogni parola. Ogni parola, per la prima volta nella mia vita.
“Adesso siamo differenti. Adesso tu ricorderai per sempre quello che hai
sentito”.
“Ma se non bastasse, dimmi. Cosa farò, se non bastasse?” mormora.
“Potresti sempre saltare, un giorno”.
Ci pensiamo per molto tempo.
Poi ci afferriamo e non vogliamo cadere.
Non siamo più vecchi, ma solo giovani.
Ci si schiude il futuro incerto nelle mani.
Non vogliamo più cadere.
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