o
Out of a
dream
Il silenzio che avvolgeva la mia
mente si spense di scatto per far posto ad un fastidioso allarme elettronico.
Aprii con fatica le palpebre secche e appiccicate cercando di non muovere il
resto del mio corpo.
Il crio-sonno era
finito.
Posai entrambe le mani sul portellone
dell'apparecchio che mi aveva cullata per questi ultimi sei anni e spinzi verso
l'alto. Come al solito la mia forza fisica, così dannatamente inferiore a quella
di un normale essere umano, mi costrinse a far in modo che qualcun'altro venisse
in mio aiuto. Bussai energicamente sul portellone dato che non ero ancora
riuscita a collegare cervello a bocca. Qualcosa si mosse e della fredda luce
bianca filtrò da uno spiraglio del mio cubicolo
meccanico.
Un infermiere mi porse lentamente una
mano per aiutarmi; ma qualcosa dentro di me si mosse.
Mi voltai di scatto trattenendo a
fatica un urto di vomito. Sapevo che dopo il crio-sonno il mio già debole corpo
si sarebbe ulteriormente indebolito ma avevo sperato con tutto il cuore che il
mio stomaco mi avrebbe risparmiato quella pietosa figura. Vomitai anche l'anima
nel mio stesso letto mentre cercavo di sollevarmi. L'infermiere, gentilmente, mi
sorresse per il bacino e si preoccupò di spostarmi i capelli dal viso mentre
finivo di rimettere.
Rimasi in religioso silenzio quando
un secondo infermiere mi si avvicinò per portarmi nella plancia della nave
mentre l'altro rimaneva a pulire quei pochi succhi gastrici e resti di cibo che
avevo depositato.
L'uomo che mi accompagnava mi diresse
verso una stanza dove avrei potuto cambiarmi e sciacquarmi il
viso.
Rimasi sola, finalmente in grado di
valutare quello che era successo.
Erano ormai sei anni che attendevo,
inconsapevolmente persa nei miei sogni e dubbi, di arrivare fino a quel pianeta
che forse avrebbe potuto rendermi libera. O meglio, questo era quello che aveva
cercato di farmi credere mio padre. Era stata una sua idea, una sua decisione
spedirmi qua, su questa parte di universo dimenticata da Dio dove avrei potuto,
secondo lui, condurre una vita quantomeno normale.
Decisi di rimandare i miei pensieri
ad un altro momento. Mi vestii lentamente, con accuratezza indossai i pantaloni
della tutta da ginnastica blu e la canottiera bianca. Mi infilai la giacca
svogliatamente e la lasciai aperta. L'infermiere che era rimasto ad aspettarmi
fuori dalla stanza mi rivolse un sorriso di circostanza e mi consegnò alla
supervisione di un giovane militare dagli insoliti capelli
rossi.
<< Samantha Heidrich? >>
azzardò lui, soltanto per cortesia dato che sapeva già il mio
nome.
Annuì incrociando le braccia sotto il
seno.
Il ragazzo mi sorrise distrattamente
probabilmente notando solo adesso i mie lunghi capelli bianchi. Istintivamente
mi venne spontaneo cercare di portarmeli dietro al viso per nasconderli ma
evidentemente era troppo tardi. Decisi comunque di legarli e di coprirmi la
testa con il cappuccio della giacca: non volevo dare spettacolo, di
nuovo.
Il militare mi fece strada verso la
plancia dove c'erano altri ragazzi e ragazze come me appena svegliati dal
crio-sonno.
Mi sedetti nel primo posto che
trovai, da sola, non volevo di certo scambiare le solite informazioni di
circostanza con la prima chiacchierona di turno. Sentì comunque che gli occhi di
quasi tutti i presenti si erano soffermati su di me per almeno una frazione di
secondo, per studiarmi, per cercare di capire per quale motivo anche io ero li.
Perché era proprio per via di un
preciso motivo che mio padre aveva deciso di spedirmi verso
Pandora.
Ero malata, probabilmente tutti
quanti in quella stanza eravamo malati: maledetti da una patologia abbastanza
grave da impedirci di vivere una vita mediocre come un essere umano
medio.
Ok, io ero albina, i miei capelli,
ogni singolo pelo che ricopriva il mio corpo non possedeva nessun pigmento e per
questo motivo era bianco. Il mio fisico e soprattutto la mia pelle erano deboli,
imperfetti ma il motivo principale che mi rendeva diversa; che aveva determinato
quel viaggio era un altro: ero emofiliaca. Il mio sangue era incapace di
coagularsi e per me, un singolo banalissimo graffio poteva essere letale. Mio
padre, per tutta l'infanzia aveva tentato di rinchiudermi in una campana di
vetro ma con l'avanzare dell'adolescenza era stato costretto a spedirmi qui, per
sopperire a questa mia mancanza genetica.
Mi concessi solo adesso dei studiare
il mio fisico, il mio nuovo fisico dato che ero entrata nella macchina del
crio-sono esattamente sei anni fa.
Da una tredicenne acerba mi ero
trasformata in una giovane donna. Pensai che quel seno tondo che quasi mi
riempiva le mani fosse finto. Dopo tutto mia madre aveva una prima scarsa e
probabilmente il fatto che mi ritrovassi sul petto una bella terza mi mise uno
strano sorriso compiaciuto sulle labbra. Non ero male, se non fosse stato per
quegli orribili capelli bianchi, per quelle spalle larghe e pronunciate rispetto
al mio fisico asciutto, per quei fianchi un po' troppo squadrati e per quella
quasi assenza di fondo schiena.
Mi misi le mani in tasca estraendo il
piccolo cofanetto che racchiudeva un paio di medicine che mi portavo sempre
dietro. Allontanai con disgusto gli occhi da quell'odiosa scritta che vi ci era
stata impressa per ricardarmi quanto fossi diversa dagli
altri.
“ Fuck you Snow Queen”
Davvero carini ad aggiungere quel
simpatico nomignolo che mi avevano affibbiato. Mi venne nuovamente da rimettere;
ma stavolta era un fattore psicologico. Mi trovavo con persone che, come me, la
società aveva rigettato, persone che, consapevoli della loro natura imperfetta,
avevano deciso di intraprendere un viaggio verso un'utopica speranza di condurre
una vita quantomeno dignitosa. Eppure queste fantasie da bambina non mi
toccavano affatto: sapevo che i sogni non si avverano, che Pandora,
probabilmente, sarebbe stata l'ultima realtà con cui sarei venuta a contatto
prima di ritornare nella mia campana di vetro nella quale avrei potuto attendere
la morte. Sorrisi sarcasticamente ripensando a quanto stupido fosse stato
acconsentire a quella decisione della mia famiglia. Era da veri idioti
concedersi un'emozione alla quale avrei comunque dovuto, prima o poi,
rinunciare. Ruotai i miei occhi azzurrissimi verso la mia destra dove un'ombra
era appena comparsa.
<< Posso sedermi? >>
+++ Spero questa idea vi piaccia e
che aderiate in parecchi!!! ciao a presto!!
+++
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