Il peggior incubo, il miglior sogno di Lovy91 (/viewuser.php?uid=71277)
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Nota= Il punto di vista principale è quello di Rebecca e Damien!
Prefazione
“Il destino va schifo spesso. A volte
è fantastico. E raramente è entrambe le cose. Il mio, era una rarità.
Un'arma a doppio taglio con cui si divertiva a vedermi piangere,
sorridere, piangere e sorridere.
Guardare i miei incubi e i miei sogni
come uno spettatore del cinema. Guardare i miei cambiamenti interiori,
modellandoli e scoprendosi fiero del suo potere su di me, a cui io non
posso oppormi. Il suo non è un dono, no. Lo lascia decidere a me.
Cosa mi era successo? Semplice: ho
scoperto che i vampiri esistono. Il peggiore incubo, il miglior sogno.
Un incantato e crudele mondo che ti trascina in un vortice a cui non
puoi dire addio. Voglio fuggire, voglio restare. Non lo so neanche io.
Ma per Damien, resterò e tremerò. Anche se lui mi ucciderà ma almeno
potrò dire di aver sognato e aver provato paura per davvero...”
Capitolo 1
“Non voglio morire!”
Rebecca
<< Due parole >>, disse Elene, china su un cruciverba per
metà lasciato in bianco. Elene è appassionata di cruciverba grazie alla
sua casalinga madre. Anche se mi chiedevo spesso come si potesse
definire una donna “casalinga” senza che facesse sul serio le faccende
domestiche. I misteri della vita.
<< Elene, siamo da ieri che cerchiamo di concludere questo
cruciverba. Anzi, mi correggo: tu, stai cercando di finirlo e costringi
me e Amanda a rispondere >>, dissi e lei mi fece una smorfia.
Amanda alzò lo sguardo dalla sua rivista di gossip. << Ho sentito
il mio nome? >>.
Alzai gli occhi al cielo e mi concentrai sul mio frullato al
cioccolato. << Senti le voci >>.
Fece spallucce e tornò alla sua rivista, impegnata a scoprire con chi
se la facesse l'attore di turno.
Presi un sorso del mio frullato, leggendo il libro di storia nella
speranza di ricordare qualcosa per il compito di Lunedì. Certo, potevo
studiare il pomeriggio ma erano due settimane che studiavo senza
fermarmi, divisa tra i libri e il piano che amavo e non avrei lasciato
neanche per la fine del mondo. Amanda e Elene (Eleonore, ma lei
preferiva essere chiamata così. Pur di far incavolare suo padre, si
tingerebbe i capelli di rosso) avevano insistito perché io andassi con
loro a una festa fantastica in un locale poco dopo la East Side. Come
potevo dire di no a una serata tutto ballo e luci luccicanti? No, non
potevo. Avevo fatto venire le crisi a mio padre per lasciarmi andare,
temeva per me. Ma ho sedici anni e mezzo, tra cinque mesi ne ho
diciassette, non sono una bambina. Spesso mi chiedevo io stessa se lo
ero mai stata.
Sospirai, cercando di ricacciare il pensiero della mamma nell'angolino
buio della mia mente dove lo avevo relegato e ripescavo il giorno del
suo compleanno, del mio e del giorno della sua morte e come tale lì
doveva restare.
<< Rebecca, smetti di pensare >>, disse distrattamente
Elene, scartando la verdura che non voleva e gettandolo in un bidone
vicino. A volte mi sorgeva il dubbio che stesse diventando anoressica.
Conoscevano la mia espressione quando pensavo alla parola “mamma” e
fermavano il flusso di pensieri prima che fosse troppo tardi.
Crollare nella mensa scolastica di una scuola privata non era proprio
il caso.
Sono tutti snob e non aspettano altro che un passo falso per farti
divenire la barzelletta della scuola. Inoltre, io ero la “poveraccia”
ed ero già oggetto di scherno perché mio padre non era un impresario ma
un semplice poliziotto di New York, nella West Side. Trovato che fare
il poliziotto lì era più nobile che contrattare con i giapponesi di una
nuova marca di qualsiasi cosa. Ma quegli idioti non ci arrivavano.
Amanda e Elene erano diverse. Cioè, la moda e i soldi erano il loro
argomenti centrali e quando non c'era niente da dirsi passavano agli
smalti. Ma non mi avevano mai fatto pesare il mio budget né che non
fossi vestita firmata e mi avevano accolta con calore, le uniche due.
Mi era andata favolosamente e mi stava benissimo. Erano superficiali ma
simpatiche e leali. Il genere di amicizia che io ho sempre cercato e
alla scuola pubblica non ho mai trovato. O forse non l'ho mai cercata,
non lo so.
Amanda si alzò dalla sedia, tirandola indietro e lo stridio venne
inghiottito dai rumori dei commensali.
<< Vado a ritoccarmi il trucco. Chi viene con me? >>.
Mi alzai. << Vengo io. Io però devo andare la bagno >>, ci
tenni a precisare e Amanda sospirò, arresa. Fosse stato per loro, sarei
diventata una Barbie a disposizione di quelle due. Chissà quando, mi
avrebbero acchiappata e truccata come volevano. Cosa c'era di così
brutto in un semplice ombretto e lucidalabbra?
Misi da parte il libro di storia che mi ordinava di chiudersi e lo
cacciai nella borsa marrone che usavo da due anni.
Il pavimento di marmo produceva un rumore che mi piaceva tantissimo
sotto le nostre scarpe nere e con il tacco di tre centimetri,
obbligatorio per le ragazze. Il bagno più vicino era a poco più di
mezzo metro dalla mensa, al piano terra. La scuola era formata da tre
piano larghissimi.
Amanda spinse la porta con la spalla e vi entrò e io la seguii. Si
piazzò davanti allo specchio, poggiando sul bancone color sabbia e
pulito tanto da specchiarcisi, la borsetta dorata contente i trucchi.
Si passò una mano tra i corti capelli biondi e si lamentò.
<< Devo cambiare shampoo >>.
Io non le risposi ed entrai nel cubicolo vicino alla porta. Non c'era
nessuna nel bagno e ne ero felice. Non dovevo sopportare le loro
risatine affettate ogni volte che mi guardavano. Quando uscii,
riallacciandomi la gonna, Amanda era ancora lì a passarsi il fard per
dare un po' di colore a quella pelle bianca che si ritrovava.
Io misi le mani sotto un getto di acqua fredda e le scossi per togliere
le prime gocce d'acqua e le asciugai con la carta raffinata del bagno
scolastico. Lì tutto era raffinato come se incappassero in una
punizione in caso contrario.
Mi guardai allo specchio per constatare che ero sistemata. Non ero
fissata come lei mie amiche però non ci tenevo a sembrare una mezza
sconvolta (anche se dopo tre ore, lo ero abbastanza).
I miei capelli lisci e castano scuro erano sistemati, avrebbero retto
fino a casa. L'ombretto marrone era quasi a posto ed evidenziava i miei
occhi azzurri con il contorno blu, come quelli di mio nonno paterno. La
divisa della scuola evidenziava il mio fisico: una semplice camicetta
bianca, una giacchetta rossa e una gonna plissettata anch'essa rossa e
con in bordi dorati.
Non ero bella come Amanda o Elene, però non ero da buttare anche se
doveva ammettere una scarsa fiducia in me, Rebecca Clare Walker. Non
ero una timida, introversa, ero semplicemente me. Rebecca.
Mio padre non si capacitava del mio modo di essere però lasciava
correre. Dalla morte della mamma, lasciava sempre correre. Praticamente
negli ultimi quindici anni.
La campanella suonò e la mia amica sbuffò, chiudendo la borsetta
frettolosamente.
<< La Lopez mi dirà le stesse parole di ogni volta: “Amanda
devi impegnarti!” >>.
<< Non ha tutti i torti >>, mi trovai d'accordo con
l'insegnante. La scuola non era il forte di Amanda, studiava quanto
bastava a essere promossa. Io ero una secchiona e grazie a me aveva la B in matematica.
Ritrovammo Elene all'uscita dal bagno e ci salutò con un pigro e stanco
gesto della mano e ci affiancò per andare a chimica, una delle poche
lezioni che seguivamo assieme. Non era un problema, ci vedevano tutti i
giorni, tranne quando dovevamo studiare. Non mi piaceva studiare in
gruppo, mi distraeva.
In poche parole, trascorse le fantastiche due ore di scuola sarei
tornata a casa, mi sarei preparata, sarei andata a fare shopping
frenato fino alla sera, un altro giro a casa e poi a ballare! Meglio di
così...
Il locale era pieno di gente. I ragazzi in pista erano tutti intenti a
provarci con le ragazze e alcune parevano gradire, per niente
infastidite. I corpi che ballavano al ritmo di quella musica
orecchiabile mi facevano venire voglia di lanciarmi in pista anche io.
Ma i piedi mi dolevano un sacco dopo aver ballato con Elene e Amanda
per un'ora fino a quando i piedi non avevano gridato pietà e un po' di
pausa. Non che le mie amiche erano messe meglio.
Sedute al bancone, bevevamo un cocktail analcolico. Elene guardava
mordendosi il labbro quelle bibite colorate dentro le bottiglie di
vetro rilucente alla luce del locale. Tutti gli adolescenti provano
l'alcool in qualche modo ed è peggio: sai quanto è buono e sai di non
poterne toccare se non a qualche festa di punch corretto pesantemente.
Io ne avevo bevuto un bicchiere e mi era bastato per non toccarlo mai
più. Ma per lei mie migliori amiche era un'attrazione irresistibile e
io scuotevo la testa sorridendo e sorseggiando il mio mix di frutti
dolcissimi e battendo la mano sulla gamba a tempo di musica.
Durante le danze qualche ragazzo ci aveva provato ma io, i tipi che si
credono degli dei, non li sopporto e preferisco lasciarli perdere e
rimanere con lei mie amiche a divertirmi.
La bevanda sparì e io mi leccai le labbra. << Ottimo. Com'era il
vostro? >>.
<< Una squisitezza! >>, mi rispose Elene, torcendosi in un
dito i capelli neri e lisci, acconcianti con la piastra. << Ma
devo dire che quello di Amanda era molto più buono >>.
Amanda annuì. << Sublime >>.
Ridemmo e ci lasciammo andare a chiacchiere, ridendo delle tipe troppo
truccate o veramente brutte o dei ragazzi che venivano scartati uno
dopo l'altro.
Quel pomeriggio, durante lo shopping, Elene aveva lanciato uno strillo
che ci aveva fatto cadere tutti i pacchetti e le buste sul marciapiede
ma la perdonammo una volta visto il motivo di quelle urla.
E così, ora, indossavamo lo stesso vestito ma di colore differente. Non
l'avevamo mai fatto ma le cavolate con le amiche sono insuperabili. Era
adatto alla discoteca, di un tessuto lucido e stretto in vita, appena
sopra il ginocchio. Il mio era bordeaux, quello di Elene blu notte e
quello di Amanda dorato. Gli stivali erano simili, neri e i nostri
preferiti.
La serata promettevano bene finché non arrivò una chiamata di mio padre.
<< Rebecca, dove sei? >>.
<< In un locale, te l'ho detto! >>, strillai per farmi
sentire da lui.
Fui costretta a uscire dal posto per capire qualche parola. La musica e
le voci divennero sempre più attutite, come se fossero in un'altra
stanza. Sparirono quasi del tutto quando mi appoggiai a una ringhiera a
circa dieci metri di distanza, uscendo da una porta secondaria.
<< Torno tra un paio di ore! Ho la macchina! >>.
<< Un'ora >>.
<< Un'ora e mezza >>.
<< D'accordo, Rebby >>, si arrese. << Ma stai
attenta. I ragazzi mettono le mani addosso in quei posti >>.
Arrossii un poco e dopo un breve saluto riattaccai. Mi ravvivai i
capelli, pronta per ballare ancora e divertirmi quando mi fermai.
<< Bellissima! >>, urlò una voce impastata.
Mi voltai e mi pentii di averlo fatto. Un ragazzo si stava avvicinando
a me. Lo riconobbi come uno che avevo rifiutato in pista.
Era abbastanza vicino da me e notai la faccia arrossata e il sorriso a
metà sul volto. Era ubriaco. Quindi doveva avere ventuno anni o sopra
lì.
Camminai per rientrare, un po' spaventata. Non si sai mai cosa possa
fare un ragazzo ubriaco, in particolare se lo hai rifiutato due ore
prima. Inoltre faceva un freddo che mi faceva i brividi, ero uscita
frettolosamente e senza giacca.
La sua mano mi fermò ancora, sul mio braccio. << Dove vai?
>>.
Lo strattonai. << Lasciami! >>, dissi con forza. Poi mi
allontanai ancora e quando giunsi alla porta mi attaccò contro il muro.
Potevo strillare e nessuno mi avrebbe sentita.
Doveva mantenere la lucidità e ragionare.
“Pensa a cosa ti ha insegnato tuo
padre a otto anni”, mi dissi e tesi il palmo della mano e lo
spiaccicai sulla base nel naso. Mugolò e mi lasciò andare, una mano sul
naso gocciolante di sangue. Io presi a correre, gesto dettato dal
panico quanto stupido. Dovevo rientrare, invece di fuggire. Pensai e mi
ricordai che l'ingresso non era lontano. Il buttafuori poteva aiutarmi.
Correvo e i miei passi echeggiavano ovunque, nel silenzio dei vicoli
che mi separavano dalla mia meta. Ero sicura di avercela fatta quando
mi accorsi che quel maledetto era riuscito a seguirmi. Il naso non
sanguinava più e la sua faccia era aggressiva.
Ero morta di paura. La borsa mi cadde di mano e si abbandonò sul
selciato sporco. Arretrai e deglutii.
Avevo sbagliato tutto. Avrei dovuto rientrare e basta. Metterlo al suo
posto con due parole e stop. Usare il telefono, gridare. Tutto quello
che mi aveva insegnato mio padre si era rivelato inutile. A che serve
essere la figlia di un poliziotto allora?!
Il ragazzo si era avvicinato e un alito di birra e vino mi arrivò
all'olfatto e storsi il naso.
<< Sei così bella... >>, disse con fare mieloso.
<< Non toccarmi. Mio padre è un poliziotto! >>, lo
minacciai.
<< Oh, quante storie per un bacetto >>, disse e io mi
ritrovai ancora contro il muro. La sua mano sul mio viso e io cominciai
a piangere, temendo quello che poteva accadermi. Ero stupida, ma non
fino a quel punto. Ero indifesa e dovevo ammetterlo a me stessa. La
paura mi dominava tanto da essere sicura di essere fatta di essa.
Cercai di scacciare le sue mani inutilmente e mi strinse i fianchi con
fare possessivo.
E poi... la mia vita cambiò.
Fu un attimo. Uno solo.
Il mio aggressore era steso a terra, rantolante. Io gli occhi
spalancati, il respiro mozzo, il battere del mio cuore a livelli
minimi, rischiando un collasso. Non riuscivo a urlare, a muovermi. Ero
diventata di ghiaccio.
Il mio aggressore era morto. Non in un attimo, no. Lentamente, sotto i
miei occhi.
Da cosa?
Da un altro ragazzo. Chino su di lui, la bocca alla gola, non la
staccava come se ne avesse bisogno. E poi capii perché, compresi e
vorrei non averlo mai fatto.
Damien
La città sotto i miei occhi sembrava viva, pulsante. E non era mai
cambiata.
Fissare New York da un grattacielo è uno spettacolo, seduto sul tetto,
la notte. Ovviamente non tutti hanno tale coraggio.
Guardai l'orologio che avevo al polso, vecchio di dieci anni. Era
arrivato il momento di cambiarlo.
Mezzanotte. Era ora di andarmene via da lì, non volevo passare tutta la
notte su quel tetto.
Guardai sotto di me e stavo calcolando la distanza della caduta e poi,
mi lanciai. Atterrai senza problemi, un salto leggero come sempre.
Invisibile. Dovevo essere invisibile
Camminando cominciai ad avvertire una sensazione che conoscevo troppo
bene. Mi portai le mani alla gola e storsi il viso. << No, fa che
non sia come penso >>.
Invece lo era. E per quanto desiderassi che non lo fosse, dovevo cedere
o altro lo avrebbe fatto per me.
Come spesso mi accadeva, mi pareva di divenire ancora meno... notabile.
Come se quella sensazione mi rendesse inavvicinabile. Quanto aveva
ragione l'istinto umano. Certo, devo dire che gli umani sono creature
che passano la vita desiderando di migliorare, di essere migliori degli
altri. Di vivere felici e non ci riescono mai. Non sono mai felici, mai
contenti. Altrimenti non sarebbero umani.
Non lo odiavo. A volte mi facevano pena per quella vita che si
costruivano e che tanto alla morte perdevano.
Io non conoscevo la morte e mai l'avrei conosciuta, perciò non potevo
parlare per esperienza. Più o meno...
Avevo percorso già cinquanta metri e alle mie orecchie giunsero passi.
Passi nervosi. Colsi una nota di panico. E altri passi, lamenti di un
naso rotto.
Curioso, mi avvicinai per capire cosa stesse succedendo. Sbuffai.
Un umano se la stava prendendo con una giovane umana, forse diciotto
anni. Gli umani sanno essere malvagi.
Lei era carina, dovevo ammetterlo anche se le ragazze umane non le
guardavo. Lui il classico idiota che crede di poter avere tutte le
ragazze del mondo. Glielo leggevo in faccia.
Era impregnato di alcool il suo fiato, lo avvertivo.
L'umana non mi interessava e stavo per andarmene quando l'odore arrivò
alle mie narici. Il naso sanguinante aveva lasciate tracce di sangue
per la via ed erano... deliziose. Guardai l'umano che intanto aveva
messo le mani sulla ragazza.
Se avessi fatto quello che avevo in mente, dovevo uccidere anche lei.
Forse era meglio lasciar perdere: probabilmente sarebbe morta lo stesso
ma meglio lui che per mano mia.
Ma non ci riuscivo. Era troppo tardi. Mi dispiaceva per la ragazzina,
però. Sperai non fosse figlia unica.
Strisciai lungo la parete, osservando la scena, con un mezzo sorriso
rilassato. Poi, scattai.
Non mi vide neanche. Riuscì a capire qualcosa quando si ritrovò contro
il selciato. Alla mia vista, stava per strillare e non fece in tempo.
I miei canini affondarono nella sua pelle dura che trafissi senza
problemi. Le vene erano vicine e le raggiunsi in dieci secondi,
affondando ancora di più i canini nella pelle. I gemiti di dolore erano
gorgogli fastidiosi che avevo imparato a non udire come se non
esistessero. Non avvertii nemmeno uno strillo della ragazza, forse si
era pietrificata. Il sangue del ragazzo non era dei migliori ma mi
accontentai. Era dolce e caldo quanto bastava. Anche salato ogni tanto.
Bevvi più a fondo e l'umano soffriva ne ero sicuro. Il sangue sulla mia
lingua cominciò a diminuire man mano per finire del tutto. Lo mollai e
mi pulii dal rivolo di sangue che usciva dalla mia bocca, le labbra
erano appiccicose.
Non ero fiero di me stesso e allo stesso tempo ne ero contento. Il
sangue dentro di me mi faceva sentire benissimo come se fossi sotto
l'effetto di qualcosa. Ma sapevo anche cosa accadeva una volta bevuto
da poco.
Mi decisi a calcolare la ragazzina. Era ancora contro il muro. Il suo
cuore era quasi fermo, non lo sentivo quasi. Magari moriva per lo
spavento.
Era pallida quasi quanto me, gli occhi dilatati.
Era bella, non carina.
Doveva provenire dal locale da come era vestita. I lunghi capelli
castano scuro, liscissimi, erano un po' sconvolti. Il colore naturale
era una di una tonalità leggermente scura. Era magra, forse un po'
troppo. Guardai per bene il viso tondo. Aveva un bel naso. Gli
occhi erano belli: grandi, dolci e azzurri, luminosi. Anche se
arrossati e sgranati per la serata che si stava rivelando l'ultima
della sua vita. Rimasi a fissarli più del dovuto, e scossi la testa,
per riprendermi.
Mi alzai e mossi un paio di passi.
<< Non toccarmi >>, ripeté lei come se fossi ancora il suo
primo aggressore.
<< Non preoccuparti. Non soffrirai come ha sofferto lui >>,
la consolai.
Lei scosse la testa, questa volta il respiro le accelerò come il cuore.
<< Cosa... cosa... vuoi da me? >>.
<< Sfortunatamente, sei nel posto sbagliato, al momento
sbagliato. Non ti avrei toccata se non fossi una testimone scomoda
>>.
<< Non voglio morire! >>, disse lei, con le lacrime
sulle guance. Strizzò le palpebre e due lacrime rotolarono fino a
terra. Le guardai cadere, un po' combattuto. Dentro di me, la
battaglia.
“Uccidila, uccidila, uccidila!”,
mi sussurrava una voce ammaliante.
Una piccola, ma presente, parte mi comandava di girare i tacchi e
lasciarla vivere.
Troppo piccola.
Le sfiorai i capelli e lei prese a piangere ancora di più. Non si
muoveva, doveva essere morta di spavento.
La guardai negli occhi, a dieci centimetri dal suo viso e mi fermai a
guardarli più del dovuto. Scossi la testa. Che mi prendeva?
<< Lasciami andare >>, supplicò lei, il trucco
completamente sciolto.
Forse potevo lasciarla andare...
La mia distrazione mi fu fatale. La ragazzina pareva tanto spaventata
ma era una che non si arrendeva. Mi tirò in pugno che non mi scalfì e
si fece male. Agitò la mano in aria, la bocca spalancata, trattenendo
un'imprecazione.
La mia decisione di due secondi prima svanì. Il pugno non le aveva
rotto niente ma le aveva aperto piccole ferite, minuscole ma
sufficienti a far uscire una goccia di sangue. D'istinto mi portai la
sua mano alla bocca. Cercò di impedirmelo, ma ero troppo forte per lei.
Si arrese, forse rendendosi conto che ormai era inutile combattere.
O magari era sotto il mio influsso. Il mio tono dolce e calmo,
rassicurante, la rendeva un po' meno spaventata. Comportandomi nel modo
opposto sarebbe morta d'infarto. Così non poteva fuggire.
<< Fai parte di una setta satanica? >>, riuscì a chiedermi,
la bocca asciutta.
<< Uhm... >>, sussurrai. << Sono dannato, ma non
faccio parte di una setta >>.
Guardò il cadavere a terra, dissanguato e una pozza di sangue
sfuggitami i primi secondi. Poi guardò la sua mano e poi me.
Il suo sangue era molto ma molto più delizioso di quello del primo. Era
una ragazza, e le ragazze hanno il sangue più buono. Lo sanno tutti. Il
suo non era male. Una goccia mi confermò che avevo ragione. Un sapore
che esplodeva come una festa nella mia bocca. Eh sì. Ormai era senza
scampo: anche volendo non potevo lasciarla andare. Era troppo tardi.
Ero diventato l'angelo nero che l'avrebbe portata via. Dovevo cercare
di farle male il meno possibile, questo dovevo concederglielo.
Lei aveva storto la bocca quando ne avevo catturato una goccia con le
labbra.
<< No, non ci credo >>, boccheggiò. << Tu sei...
sei... un vampiro >>.
<< Che genio, Einstein. E ti dirò anche il mio nome: Damien
>>.
Angolo!
Questa storia ho cominciato a scriverla circa un mesetto fa ed è la mia
prima storia sui vampiri anche se non fantasy. Dato che ho la pessima
abitudine di scrivere senza sapere dove andrò a finire, aspettatevi di
tutto XD. Chi ha già letto le mie storie ne sa qualcosa!
Come ho già detto, questa è la prima storia sui vampiri, quindi
abbiante clemenza se farà, come dire?, un pò schifetto! Datemi le
vostre opnioni!
Baci!
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