Prima di
iniziare a leggere, un paio di avvisi.
Il primo è che questa storia è una spin-off di
Verderame, la mia precedente fanfiction e se non l'avete letta,
potreste rimanere piuttosto disorientati dalla situazione e da diversi
riferimenti all'interno del testo.
Il secondo è che si tratta di una storia totalmente
estemporanea perché stavo lavorando a tutt'altro fino a che
sono inciampata nell'iniziativa di Carnevale di Fanworld e, come
sempre, non ho resistito alla tentazione di partecipare.
Rimando ulteriori commenti al prossimo capitolo.
Ah, e un grazie particolarmente sentito alla mia beta, whateverhappened per essere sempre tanto disponibile con me.
Buona lettura!
Disclaimer:
I personaggi e gli elementi creati da J.K. Rowling presenti in questa
fanfiction sono suoi e solamente suoi, il resto della storia
è tutto una mia invenzione. Questa storia non è
scritta a scopo di lucro.
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Capitolo I
Diagon Alley, 6 febbraio
“Sentenza senza precedenti.”
Così la chiamava la Gazzetta
del Profeta e i giornalisti di mezzo mondo magico.
Per Marietta Edgecombe, invece, erano solo una manciata di parole senza
significato messe in bocca a un qualsiasi esponente del Wizengamot.
«La Nuova Moratoria non è una scorciatoia del
Ministero per ridurre drasticamente il lavoro degli Auror,
anzi!» ribadiva la voce del qualsiasi esponente in questione,
ronzando le parole attraverso la vecchia radio sulla scrivania.
«E’ un provvedimento a lungo discusso e ponderato
dal Ministro, dal Wizengamot e dai responsabili della sicurezza magica
inglese. A seguito di due condanne in tribunale rivelatesi errate in
seguito, il Ministro vuole assicurarsi che la giustizia non si
trasformi in autocrazia: la Costituzione Magica del 1654 dichiara
esplicitamente che il Wizengamot fu creato per garantire la
libertà di tutti e il rispetto di ciascuno, ma la condanna
di due innocenti quali erano Earnest Kettleback e Clare Rufford ha
dimostrato che la linea acquisita…»
Marietta spense la radio, seccata.
Aveva smesso di farsi coinvolgere emotivamente dalla politica del mondo
magico molto tempo prima, ma sentir parlare un membro del Wizengamot di
Earnest Kettleback e Clare Rufford come degli unici innocenti finiti ad
Azkaban negli ultimi tempi la irritava profondamente.
Prese una busta dalla scrivania: era arrivata quella mattina dal Canada
e Marietta l’aveva aperta senza nemmeno staccarla dalla zampa
del gufo, tanto era impaziente.
Fissò la grafia sottile e spesso sbavata che la ricopriva:
Roger Davies non era mai stato un gran calligrafo.
Non siamo stati anche io
e te un Earnest Kettleback e una Clare Rufford, Roger?, si
chiese silenziosamente. Non
abbiamo passato nove mesi rinchiusi laggiù a scrutare il
cielo fuori dalle sbarre di quelle fessure che i carcerieri chiamavano
finestre?
Certo, dopo la Seconda Guerra Magica non c’erano
più i Dissennatori a trasformare Azkaban in un inferno
d’incubi e visioni, ma rimaneva comunque una prigione grigia,
fredda e spoglia.
E solitaria, aggiunse Marietta, chiudendo gli occhi e ricordando il
peso del silenzio. Roger era entrato ed era uscito da quella fortezza
inaccessibile con lei, ma per il resto dei nove mesi non
l’aveva più visto né sentito.
Duecentosettanta giorni sola con se stessa.
Forse, se prima del processo non si fosse riconciliata con il suo
passato, accettando ciò che era stata e sarebbe diventata,
non ce l’avrebbe fatta a superare quel lungo lasso di tempo
senza impazzire. Ma c’era riuscita. E c’era
riuscito anche Roger.
«Marietta!»
Marietta sobbalzò e si voltò di scatto: la
vecchia stufa in ghisa nell’angolo del solaio in cui abitava
si era messa a borbottare con una voce familiare.
«Oscar?» fece lei, riconoscendo il volto confuso
tra le fiamme nello sportello della legna. «Cosa
succede?»
Il viso del suo vecchio datore di lavoro fece una smorfia deformata dal
fuoco morente. «Detesto parlare attraverso la tua stufa:
è veramente stretta. Perché non ti trovi un posto
dove vivere che abbia un camino?»
«Lo farò quando anche tu lascerai quella tua
enorme cantina piena di umidità e puzza di tintura e ti
troverai qualcosa di più salutare» rispose lei,
ridacchiando e accoccolandosi di fronte alla stufa.
Oscar sospirò e un tizzone ardente rimbalzò sul
pavimento di legno scheggiato. Marietta si affrettò a
calpestarlo con un piede prima che appiccasse fuoco a tutta la stanza.
«In realtà temo che il momento in cui
lascerò quel posto per qualcosa di meglio sia più
vicino di quanto pensassi» disse mestamente il vecchio.
«Peccato, perché mi ci ero affezionato.»
Marietta aggrottò la fronte. «Cosa intendi
dire?»
Oscar fece un sorrisetto enigmatico e il suo viso già pieno
di rughe s’increspò, facendo spiccare i suoi occhi
limpidi. «Indovina!»
Marietta rifletté, perplessa. Oscar era un pittore e se un
tempo, quando le famiglie Purosangue erano numerose e
l’usanza di farsi ritrarre era diffusa, guadagnava parecchio,
ora era povero in canna e aveva a malapena i soldi per pagare lei che
gli faceva da assistente e tuttofare. Quindi come avrebbe potuto
lasciare la cantina dove viveva per un altro posto, se di
più economici non ne esistevano?
«E’ morto qualcuno che ti ha lasciato in
eredità un appartamento? Dei soldi?»
ipotizzò.
«No» fece il vecchio, gongolante. Sembrava
divertirsi molto a farla provare a indovinare.
«Hai ricevuto qualche offerta allettante per un
quadro?»
Oscar ci pensò un attimo su prima di rispondere.
«Non ancora.»
Marietta sospirò. «Oscar, se è un altro
dei tuoi voli pindarici di fantasia, non c’è da
sperarci troppo perché…»
«Non è un volo pindarico di fantasia! Non mio,
almeno» ribatté lui.
Marietta si accigliò. «E di chi, allora?»
«Vieni qui e te lo mostrerò. Non hai ancora letto
la Gazzetta del Profeta,
stamattina, vero?» chiese lui, eccitato.
Marietta alzò le spalle. «No, mi è
bastata la radio. Perché?»
«Vieni e lo saprai» rispose Oscar, ridacchiando
come un bambino che ha appena ricevuto in regalo il giocattolo che
tanto desiderava. «Veloce!» aggiunse, e
sparì, lasciandosi dietro solo informi fiammelle blu morenti.
Marietta sospirò, chiuse lo sportello della stufa e
s’infilò il giaccone rattoppato, l’unico
che possedesse. L’autorità ministeriale aveva
sequestrato i suoi abiti e i suoi effetti personali quando era entrata
ad Azkaban e alla sua uscita gliene erano stati restituiti solo la
metà. Aveva provato a protestare, ma le era stato risposto
che, a causa di un qualche disguido con le targhette numerate, tante
delle sue cose erano state assegnate ad altri detenuti e non ci si
poteva fare niente. Marietta se n’era andata rassegnata e
determinata a non avere mai più a che fare con il Ministero
della Magia per tutto il resto della sua vita.
Uscì dalla botola che costituiva l’ingresso al suo
solaio, scese le scale della pensione fatiscente in cui abitava,
evitò una vecchietta incartapecorita che abitava sotto di
lei e che stava salendo in quel momento le scale con una borsa piena di
uova di rospo dal cattivo odore e raggiunse l’atrio.
Fuori, lungo una delle vie meno prestigiose e più rintanate
di Diagon Alley, il freddo la aggredì come gli artigli di un
Avvincino: la nebbia era talmente fitta che persino l’insegna
del pub di fronte era solo una macchia di colore poco distinguibile nel
grigiore del mattino.
Si avviò sospirando lungo il selciato costellato di piante
ed erbacce che affioravano dal terreno: gli addetti alla Manutenzione
Cittadina passavano di lì solo una volta all’anno.
Dalla pensione dove abitava al casale in rovina dove si trovava la
cantina di Oscar c’erano solo dieci minuti, ma bastarono a
far contrarre a Marietta un raffreddore coi fiocchi.
Scese le scale di legno ed entrò nello scantinato
starnutendo sonoramente.
«Finalmente! Pensavo non arrivassi più!»
la accolse Oscar, impaziente. Quel giorno sembrava ancora
più piccolo e curvo del solito, eppure sotto la vecchia
redingote color melanzana pareva sprizzare entusiasmo da tutti i pori.
Marietta tirò su con il naso e si sfilò la
giacca: là dentro era umido, certo, ma almeno il camino
accanto a cui troneggiavano i numerosi cavalletti da lavoro di Oscar
impediva alla stanza di assumere temperature polari. E pensare che
erano già a febbraio, ma l’inverno non accennava
ancora a diminuire la sua morsa sull’isola britannica.
«Che cos’è tutta questa
impazienza?» chiese Marietta, perplessa. «Hai vinto
alla Lotteria della Gazzetta
del Profeta?»
«Meglio!» dichiarò Oscar.
«Leggi!»
E le infilò in mano una copia della Gazzetta del Profeta
di quel giorno, mostrandole un trafiletto sotto la sezione “Arte di Parte”,
la rubrica sull’arte e la fotografia del giornale.
« “…La
nuova mostra sulla storia delle scope…”
» cominciò Marietta.
«No, non lì; sotto!» fece Oscar,
indicandole la riga esatta.
« “…Un’opera
sensazionale, di grande espressività e perizia pittorica; il
chiaroscuro e le tinte blu, grigie e rosse utilizzate rivelano
un’inventiva fuori dal comune e il soggetto emana dai difetti
di superficie una bellezza interiore di rara fattura. Se dovessi fare
una stima del valore della Vergine del fuoco, senza dubbio la collocherei tra
i duemila e i tremila galeoni…” La Vergine del fuoco?
Che cos’è?» chiese Marietta, perplessa.
Oscar fece un sorrisetto strano, la prese per una manica e la
trascinò verso una tela coperta da un panno bianco.
«Ricordi quando ti chiesi di provare a posare per un
ritratto?»
«Sì, fin troppo bene. Non so nemmeno
perché insistesti tanto, dato che non potrebbe esserci un
soggetto peggiore di me per un quadro» rispose Marietta,
sfiorandosi inconsapevolmente la grossa ustione che le apriva sul volto
una macchia rossastra. «Non vedo, comunque, cosa
c’entri con questo il quadro di cui parla il
giornale.»
«C’entra perché il tuo ritratto
è quel quadro» rispose Oscar, e scoprì
la tela nascosta.
Marietta trattenne il fiato, sconvolta: dalla tela un viso serio dagli
occhi grandi e intensi e i lunghi capelli ricci la scrutava con
distacco, come se stesse fissando qualcosa di molto lontano. E quel
viso era il suo, per quanto l’ustione fosse un po’
meno estesa della realtà.
«Che cosa…?» balbettò,
frastornata.
«L’ho finito tre giorni fa e l’ho portato
alla galleria di Nocturnal Square, quella dietro alla Gringott: il
custode, Jacques, è un mio amico e l’ho convinto a
lasciarmi esporlo lì con quello di altri artisti
più famosi. Salvador Russian, il critico della Gazzetta del Profeta,
l’ha visto e ne è rimasto così colpito
che ha deciso di scriverci un articolo e di fargli una foto: guarda,
c’è anche sul giornale. Vedi?»
Marietta abbassò lo sguardo sulla pagina e vide i propri
occhi ricambiarle lo sguardo da una piccola foto a lato della colonna
che non aveva nemmeno notato.
La didascalia, in piccolo, recitava: Vergine del fuoco, di Oscar
Hugo. Modella anonima.
«Non ho dato loro il nome della modella, anche se hanno
insistito per saperlo. Avrei dovuto?» chiese lui, preoccupato.
Marietta scosse il capo, ancora troppo sopraffatta per poter parlare.
«Tremila galeoni, Marietta» mormorò
Oscar, esaltato. «Ti rendi conto di cosa significa?»
Marietta non rispose.
No, non se ne rendeva conto; o, perlomeno, non ci riusciva: un quadro
con il suo viso stimato a quella cifra era qualcosa di impossibile da
concepire.
Il suo viso, quello stesso viso che per anni aveva nascosto al mondo,
che per anni aveva occultato, che aveva stravolto, sprofondandolo di
proposito nella fiamma viva del Fuoco Draconiano. Il suo viso che
odiava, che temeva, che disprezzava. Il suo viso, che Roger le aveva
accarezzato una notte, senza saperne le reali fattezze. E che Ruben
Armstrong le aveva curato con tutto l’amore della sua anima
silenziosa e introversa.
Vergine del fuoco.
Marietta fissò il suo ritratto, che sedeva nel quadro con
aria impassibile, come se ormai niente del mondo la riguardasse. Come
se il fuoco che l’aveva toccata da così vicino
avesse bruciato ogni tristezza, ogni paura, ogni traccia di rancore o
di colpa. Come se l’avesse purificata.
Vergine del fuoco.
Un titolo azzeccato.
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