Autore:
Eliezer.
Titolo: Il poeta dagli occhi dipinti
Tipologia: Introspettivo
Genere: Drammatico
Avvertimenti: One-Shot
Rating: Verde
Credits:
Note dell’autore: Il protagonista viene portato al campo di
concentramento di
Legino. Beh, c’è poco da dire… ho
deciso di incentrare la storia sul tema della
Soah. Anche se probabilmente non c’erano bambine con il nome
di “Denise”, l’ho
inserito lo stesso per motivi personali, che magari
specificherò nel momento
della pubblicazione. Ho cercato di non collocare lo sviluppo in un
punto
preciso della guerra, ma di lasciare vaga la questione, visto che il
testo è
soprattutto introspettivo.
Il poeta dagli
occhi dipinti
Ero solo un
povero cantastorie.
Mi strapparono dalla strada, la mia casa, senza pietà.
Distrussero tutto quello che avevo.
Poco, in effetti. Ma lo distrussero.
Nel camion che ci portava a Legino, piansi.
Non per me, ma per coloro che non avevano avuto il tempo di ascoltare
le mie
storie.
Quelle che raccontavo da sempre.
Le narravo, le sentivo scivolare fuori dalle labbra come se le avessi
create
io.
Eppure erano di altri. Poeti anch’essi, ma ignoti. Magari
anche morti.
Piangevo, ma per tutti i bambini che non avrebbero mai conosciuto la
storia di
Nonno Gelo, o quella dell’Anatra bianca.
Pensandoci, non piansi troppo.
Dopo aver sprecato qualche lacrima, sorrisi al pensiero di avere ancora
un po’
di tempo da trascorrere con le mie amate parole.
E poi, ci sarebbero stati bambini al campo. Avrei potuto raccontare a
loro le
mie fiabe preferite.
Eccome, se c'erano bambini.
Le mani graffiate dal filo spinato che troppe volte avevano cercato di
oltrepassare, le voci rauche per il continuo chiamare mamma e
papà, gli occhi
arrossati dal pianto straziante di chi non sa far altro che disperarsi.
Denise era una di quei bambini. Urlò mentre le tagliavano
via i riccioli dorati
e quando le ordinarono di spogliarsi.
"Questo vestito ti fa proprio sembrare una principessa" le sussurrai
al piccolo orecchio, una sera.
"E' la casacca a righe che devono indossare i prigionieri" rispose
"Le principesse non indossano mica questa robaccia"
Aggrottai le sopracciglia, allontanandomi per guardarla meglio.
"Casacca?" chiesi, quasi sconvolto "Io non vedo nessuna casacca!
E quali righe? Il tuo è un vestito da principessa!"
Si guardò il vestito e dopo un pò scosse piano la
testa.
"Dici di no, Denise?" le sussurrai, avvicinandomi di nuovo.
"No, signore. Non sto indossando nessun vestito da principessa:
è solo la
casacca dei prigionieri, questa" rispose, gentile.
"A me non sembra" insistetti "Non vedi qui, un velo di tulle
sulle spalle? E la gonna! Oh, che splendida principessina!"
Fece un piccolo sorriso, magari immaginandosi vestita così
come la stavo
descrivendo.
Io la vedevo. I capelli non erano corti, e non indossava una casacca
larga e
sporca.
I boccoli biondi ricadevano leggeri sulle spalle, mentre i piedini
calzavano
delle scarpe blu, seminascoste dal vestito violetto.
"Sono davvero bella come mi descrivete?" chiese, rabbuiandosi un
pochino "Non vedete i capelli corti? Ed i piedi sporchi?"
"Questi capelli ti stanno davvero molto bene, maestà"
sorrisi "E
i piedi se anche fossero sporchi, non li vedrei: sono coperti da queste
bellissime scarpette blu!"
Si guardò i piedi nudi e sporchi di terreno.
"Davvero vi piacciono le mie scarpe blu, signore?"
Non avevo
bisogno di molto: mi
sarebbe bastato un pasto al giorno ed una coperta per la notte, ma
ammetto di
aver saputo farne a meno. Il lavoro non mi pesava troppo, davvero. Mi
accorgevo
delle braccia stanche e delle cosce brucianti solo la sera quando,
finalmente,
riuscivo a rannicchiarmi nel mio buco. Quando c’era un
po’ di tempo, magari la notte,
chiamavo a raccolta tutti i bambini e raccontavo loro alcune delle mie
storie
preferite. Si divertivano. Eccome, se si divertivano! Gli occhi
sembravano
brillare d’oro: non riuscivano a vedere la morte che li
circondava. E le
orecchie, anche se per poco, non riuscivano ad udire gli spari, neanche
troppo
lontani. Le bambine come Denise dimenticavano di essere rinchiuse in
campi di
concentramento, e magari sentivano ancora il solletico dei capelli
sottili
sulle spalle.
Ne ero orgoglioso.
Ricordo una sera fredda ed umida.
“Ogni mattina, il falegname andava a lavorare
presto” stavo raccontando, sotto
lo sguardo assonnato di adulti e bimbi. “Una giorno, mentre
stava per tagliare
il ramo di un albero, si sentì
chiamare…”
Mi alzai dal pavimento, nonostante il dolore alle gambe.
”«Non tagliarmi! » urlò
l’albero.” Spalancai gli occhi, fingendo stupore.
“Il vecchio gli chiese perché non avrebbe dovuto
farlo, e l’albero gli rispose
che se l’avesse risparmiato, avrebbe esaudito un suo
desiderio”
“Davvero?” chiese il bambino affianco a Denise.
“Davvero!” Esclamai “E ti dirò
di più! Il vecchio chiese di diventare un ricco
colonnello!”
Con grande sforzo mi piegai sulle gambe, per guardare meglio i loro
visi.
“Tornò a casa, ma non era più una
vecchia capanna. La sua umile dimora si era
trasformata in una bella casetta, e lui era diventato un colonnello,
uno di
quello che si rispetti!”
Una fitta mi attraversò la colonna vertebrale, ma non ci
badai.
“Entrato in casa, raccontò l’accaduto a
sua moglie. A sentire la storia, la
vecchia si infuriò con il marito!”
Vidi Denise aggrottare le sopracciglia, con disappunto.
“Perché, vi chiedete?”
I bambini annuirono, troppo presi dalla storia per parlare.
“La vecchia era avida! Mandò subito il marito a
chiedere all’albero di farli
diventare zar e zarina”
Un bambino con numerosi graffi sul viso, alzò la mano.
“Lo zar è più potente del
colonnello?” chiese.
“Certo, e la vecchia moglie del falegname voleva tutto per
sé!” risposi,
sorridendo.
Sapere che, anche se per poco, abbandonavano quelle quattro mura
gelide, mi
faceva essere orgoglioso di quello che ero.
“Il falegname fece di nuovo per tagliare l’albero,
ma quello gli chiese ancora
una volta di non farlo. Il vecchio gli ordinò di far
diventare lui zar e sua
moglie zarina, e l’albero
acconsentì…”
Alzò la mano anche Denise.
”Non ce ne sono di alberi così, qui?”
”Certo che no!” intervenne un ragazzino
“Cosa vuoi che ci sia, qui dentro?”
”Non sono sicuro che sia così” risposi.
Vidi tanti piccoli occhi illuminarsi. Decisi di spegnerli prima che
fosse
troppo tardi per tornare indietro.
“Certo, in questo campo non ci sono alberi del
genere” chiarii, avvicinandomi
al ragazzo che aveva parlato. ”Ma tu cosa intendi per qui?”
Indossava la solita, fredda, sporca casacca a righe.
Lo vidi portarsi una mano sul viso, pensieroso.
”Qui, nel mondo in cui viviamo noi” rispose, infine.
Lo guardai con disappunto e mi sedetti accanto a lui.
”Anche il vecchio falegname e sua moglie vivevano in questo
mondo. Dove,
altrimenti?”
”Nel mondo delle fiabe che ci raccontate ogni sera”
cantilenò, un po’ annoiato.
”Tutte le fiabe che vi racconto sono ambientate in questo
mondo!” esclamai,
stringendogli un braccio.
”Ma avete appena detto che alberi del genere non
esistono!” esclamò.
”Non esistono qui fuori, questo è vero.”
Sussurrai “Ma cosa ci interessa di
quello che ci circonda? Tutto quello che ci serve, l’abbiamo
dentro. Qui”
Poggiai una mano sul petto del ragazzo, sentendo il battito accelerato
del suo
cuore, troppo fragile per quel posto.
”Il cuore” sussurrò Denise.
”Esatto” sorrisi “Ed il cuore non
è lì a pulsare per far piacere ai signori
lì
fuori, che ogni giorno ci svegliano a colpi di bastone!”
esclamai, mantenendo
una calma forzata.
”Il cuore è lì per guidarci, per
parlarci, per consigliarci qual è la cosa
giusta da fare. Basta imparare ad ascoltarlo e a fidarsi delle sue
parole, per
imparare a non aver più paura di nessuno”
Calò un silenzio riflessivo. Nessuno stava più
pensando alla storia della
vecchia avida, ne ero certo.
In quel preciso istante mi venne da piangere, come era successo nel
camion.
Tutti quegli occhi, tutti quei pensieri, tutte quelle speranze, tutti
quei
cuori. Sarebbero finiti tutti nei forni, uno dopo l’altro.
Sperai che nessuno
si accorgesse degli occhi rossi, del naso gocciolante e
dell’espressione che,
anche se per un solo istante, avevo assunto.
”Con la storia della vecchia avida continueremo domani
notte” annunciai.
Diedi le spalle al mio pubblico.
”Sogni d’oro, angioletti”
Tossì di nuovo, sempre più forte.
Era la terza notte che rimaneva nascosta.
”Passami la coperta”
Gli occhi erano lucidi di febbre, la fronte scottava come non mai.
”Hai fame, Denise?”
Annuì debolmente, sorridendo appena.
Anche io sorrisi, facendo cenno ad uno dei ragazzi di passarmi la
scodella
quasi vuota.
Mentre la imboccavo, tossì ancora una volta.
”Tu…” sussurrò “Tu
hai già mangiato?”
Allargai il sorriso più falso che avevo.
”Certo, piccolina. E anche da un po’”
mentii.
Approfittavo della sua mancanza di lucidità per proteggerla
da quello che le
stava accadendo.
Tutti sapevano che quella che stava masticando era la mia cena, per
questo mi
guardavano con compassione. Non parlarono.
Finì di mangiare e, con uno sbadiglio, mi chiese di
raccontarle una storia.
Sulle spalle mi pesavano la fame, la sete, il buio, il sonno, ma
nonostante
questo iniziai a raccontare di come la principessina di Francia avesse
come
miglior amico un topolino.
”NUMERO 5482!”
Mi svegliarono urlando.
Ero io. Era il mio numero quello che stavano chiamando.
Mi alzai e, confuso, mi diressi verso il soldato che ancora urlava.
”Sei stato chiamato per un lavoro extra, oggi”
Annuii, pur avendo capito la metà delle parole da lui
pronunciate.
”Vieni con me!”
Lo seguii.
Il sole ancora non si era affacciato sulle nostre teste rasate.
Che avesse paura? Che ci avesse abbandonati? Che neanche lui avesse
più il
coraggio di spiare le nostre vite schiacciate?
Pensieri del dormiveglia mattutino, niente di più.
Camminammo lungo il confine segnato dal filo spinato per un bel
po’, salimmo
dei gradini, fino a che non mi ritrovai di nuovo al chiuso.
Puzzava. Quella stanza puzzava maledettamente.
Mi guardai attorno, e solo allora capii.
C’erano degli scaffali. Erano pieni di fogli.
Dei sacchi. Alcuni anche rovesciati a terra, che rivelavano il loro
macabro
contenuto.
Capelli.
Rabbrividii, spostando lo sguardo in cerca di qualcos’altro
che mi desse la
conferma di quello che stavo pensando.
Tavoli di legno pieni di occhiali, scarpe, cappelli.
Mi si mozzò il fiato.
Eccoli: davanti a me, loro.
I forni.
Avevano inghiottito i miei bambini, i miei spettatori!
Avevano posto fine alla fede, alla speranza, alla vita che scorreva
nelle vene
di migliaia di persone!
Le bocche spalancate, una dopo l’altra, sembravano ghignare,
ridere! Di coloro
che avevano annientato, di coloro che stavano per annientare. Persino
di me
che, furioso, li minacciavo con lo sguardo.
”Avanti, bastardo, al lavoro!” urlò il
soldato.
”Riordinare i fascicoli in ordine alfabetico!”
ringhiò “Mi hanno detto che sai
leggere, quindi muoviti con questi fogli!”
Si chiuse la porta alle spalle, lasciandomi, solo, in un posto di morte.
Quanti, erano entrati in quella stanza immensa, e non ne erano mai
usciti?
Quanti, avevano urlato pietà, senza che nessuno li
ascoltasse?
Quanti, senza nemmeno capirlo, erano stati uccisi per colpa della
pazzia
dell’uomo?
Quanti, i bambini che si erano portati una mano al naso, sentendo
l’odore di
carne bruciata, e si erano tappati le orecchie, ascoltando le grida di
chi
ancora sentiva il sangue bollire ed il corpo accendersi di un calore
innaturale?
Urlai. Probabilmente strappai gran parte delle carte che mi era stato
detto di
riordinare.
Feci per tirare indietro i capelli ricci che prima mi arrivavano le
spalle, ma
le mie mani incontrarono solo il vuoto. Mi graffiai la nuca, fondendo
parole e
bestemmie, preghiere ed urla.
Caddi, inciampando sui miei stessi piedi. Feci battere i pugni per
terra, mi rotolai
sul pavimento, alzando una nube di polvere.
Ma non era solo polvere, ecco il bello.
Erano lì, tutti lì, coloro che erano morti.
Sottili granelli di cenere nera.
Eppure c’erano.
Sulle dita, sul viso, sulle gambe. Mai come in quel momento li sentii
così
vicini.
Sentivo le loro voci: mi chiedevano di raccontare il finale di qualche
meravigliosa storiella.
Udivo i loro respiri sottili: erano il vento che si abbatteva
rumorosamente
sulle vetrate.
Vedevo i loro occhi: in ogni oggetto, in ogni colore.
Mi sedetti sul pavimento, le gambe strette al petto.
Rimasi a riflettere su come fare per salvare coloro che non erano
ancora stati
trascinati lì dentro, su come proteggere la mia Denise.
Così piccola, così debole.
Quella volta no. Non mi scappò neanche una lacrima.
Poggiai le mani a terra, raccolsi la cenere che riuscii a trovarvi.
Con l’indice la sfregai sulla palpebra destra, sfumando man
mano che mi
avvicinavo all’arca sopraccigliare.
Feci lo stesso con l’altro occhio.
Risi. Come un pazzo che ha appena ritrovato la libertà, ma
risi.
Da quel momento ci sarebbero stati loro sul mio viso.
Io sarei stato la bocca, le parole. Loro il viso, lo sguardo.
Perché è inutile continuare a fingere: se non si
sono visti gli occhi, se non
si sono sentite le urla, se non si è provato il freddo, la
paura, non sarà mai
possibile dire davvero” Capisco
quello
che hai vissuto”
Gettai lontano i fascicoli, mi lanciai verso i sacchi di
capelli.
Li guardai, flosci, scuotersi sotto il minimo soffio di vento.
”uQQuando
il falegname tornò a
casa, lui e sua moglie erano diventati zar e zarina”
sussurrai.
Feci scorrere le dita sulle scarpe ammassate su uno dei tavoli di
legno.
”Ma ancora una volta la vecchia gli disse di tornare nel
bosco e ordinare
all’albero di farli diventare immortali!”
Tornai con le mani sul pavimento, gattonando come un bambino.
”Perché, vi chiedete?”
Alzai la voce, continuando a rotolarmi a terra.
”Beh, vi ripeto che la vecchia moglie del falegname era
avara!”
Raccolsi altra cenere, l’ammucchiai nella mano e la guardai
pensieroso.
”Il falegname tornò
dall’albero” ricominciai, sussurrando
“Gli ordinò di far
diventare immortale lui e la moglie, altrimenti avrebbe tagliato il suo
tronco”
Un po’ di cenere mi scivolò dalle mani,
svolazzando prima di toccare nuovamente
terra.
”L’albero si infuriò, e decise di non
obbedire al volere del falegname” urlai,
perché tutti mi sentissero “Ma decise di
trasformarli entrambi in orsi!”
Mi alzai, lasciando che la cenere scivolasse via dalle dita.
”E’ questa la storia della vecchia avara,
bambini” conclusi.
”Dovete imparare ad essere felici di quello che avete, vi
servirà molto per il
futuro”
Futuro.
Quelle ceneri non avrebbero avuto futuro o, almeno, non più
nel loro corpo.
Io sarei stato il loro futuro. Io li avrei portati in giro, ad ammirare
le luci
e le strade di nuove città!
Io, io, e solamente io, avrei potuto continuare a vivere, facendo
vivere loro
in me.
Solo io, nessun altro.
Ne erano
morti, di bambini.
Senza pianti, senza fiori, senza preghiere.
Erano morti così, come topi in gabbia.
Ma Denise no.
Lei morì in una notte gelida, accerchiata dagli altri
bambini.
C’era un uomo, un prete, che si offrì di celebrare
una piccola messa in suo
onore, nel bel mezzo della notte.
Era tra le mie braccia ancora forti, quando mi chiese di ascoltare per
l’ultima
volta una delle mie storie.
Parlai con voce ferma. Le raccontai tutto quello che potevo, fu la mia
esibizione più meritevole.
La più sofferta.
Non aveva più la forza di ridere. Si accasciò tra
le mie braccia, la testa
piegata all’indietro, nel bel mezzo della storia di Baba Jaga.
Non ne avrebbe mai conosciuto il finale.
Solo allora mi permisi di piangere..
Allora sì, che potevo vederla! Ancora più
chiaramente, persino.
Il vestito da principessa, i capelli lunghi e dorati, le scarpette blu
che
tanto desiderava.
”Ricordati di me, lassù” sussurrai,
chiudendole gli occhi.
Venimmo liberati il giorno dopo.
Riuscimmo a fuggire, nel bel mezzo di un bombardamento.
Ancora mi chiedo: perché io?
Perché io sono sopravvissuto, e non lei?
Lei, così piccola, con tutta una vita da scrivere.
Perché io, povero cantastorie a cui avevano portato via
tutto?
Perché?
La guerra finì, e a quel punto fui libero di vivere come
avevo deciso quella
mattina, nella camera dei forni.
Raccontavo la storia della piccola Denise e quella di tutti loro.
I bambini, i miei spettatori.
La mia vita, il mio unico modo di sfuggire alla realtà: il
mio pubblico.
Dovevo tanto a quei bambini, e fu doloroso liberarmi della cenere che
avevo
ancora sul viso.
Prima di iniziare a raccontare, dipingo gli occhi.
Non ho più bisogno delle ceneri per sentirli vicini: adesso
mi basta il ricordo
degli occhi curiosi e dei visi punteggiati da lentiggini, per farmi
continuare
a raccontare.
I capelli mi sono ricresciuti. Ho di nuovo i ricci lunghi fino alle
spalle, ma
non mi piace raccoglierli in una coda. Che spiacevole sensazione,
quella di non
sentirli più solleticare sulle spalle!
Oggi gli occhi li dipingo di blu, fumando il colore dal basso verso
l’alto.
Blu come il cielo che ogni notte mi chiude gli occhi.
Blu come e onde che si sentono infrangersi sugli scogli.
Blu come le tue splendide scarpe da principessa.
Ho paura di imparare ad odiare. Ma cosa m’importa
dell’amore, se ogni giorno un
bambino muore?
Tu non credi, Denise?
C’è già folla, lo spettacolo deve avere
inizio.
Ascolta, ascolta anche tu: sono sicuro che questa storia ti
piacerà un sacco.
”Conobbi una bambina, tempo fa. Aveva dei riccioli biondi che
le sfioravano le
spalle, ed indossava un vestito violetto, con del tulle sulle spalle. I
suoi
piedini calzavano delle meravigliose scarpette blu, che mi disse le
fossero
state donate dal re d’Inghilterra…”
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