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Svegliarmi si rivelò un’atroce tortura, le
palpebre erano pesanti, le tempie pulsavano e la gola ardeva.
Ma la
cosa peggiore, dannatamente peggiore, fu non riconoscere il luogo dove
mi trovavo né lo scomodo letto che mi aveva accolta.
La
stanza era piccola e poco illuminata; un fascio di luce bianca, che
arrivava da una piccola finestrella al di sopra della porta, mi permise
di scorgere un comodino, una sedia e un piccolo armadio, oltre al letto
di ferro su cui ero seduta in quel momento.
Sentii
l’ansia salire, non ricordavo nulla e non riuscivo a capire
perchè fossi in quel luogo sconosciuto e non a casa mia;
cercai di fare mente locale pensando a cosa avessi fatto la sera
precedente ma la mia mente era vuota, l’unico ricordo che
avevo era di aver ordinato la pizza poco prima delle venti e di aver
fatto una doccia nell’attesa.
Abbassai
lo sguardo e scoprii di indossare il mio pigiama blu, ma i miei piedi
erano scalzi e, frugando con gli occhi per la stanza, non trovai
traccia di alcun vestito.
Mi
alzai e quasi caddi per un improvviso capogiro, il pavimento di
ceramica era gelato e mi fece rabbrividire; aprendo l’armadio
trovai, con sollievo, le scarpe che usavo per fare jogging, insieme a
qualche ricambio di biancheria e ad un maglione.
Nessuna
borsa, nessun effetto personale, nessun altro vestito, niente
cellulare, portafoglio o chiavi di casa. E soprattutto: ancora nessuna
idea di dove fossi.
Deglutii,
ancora più nervosa, e cominciai a respirare a fatica,
sentendo la paura stringermi in una morsa; infilai il maglione e le
scarpe e mi avvicinai alla porta, temendo di scoprire qualcosa di
agghiacciante.
La
porta si aprì con uno schiocco sordo e un lieve cigolio,
rivelandomi un corridoio bianco e molto illuminato, tante porte uguali
e nient’altro.
Avevo
paura di fare anche solo un passo o un respiro, una paura immensa,
perché non riuscivo a capire né a ricordare e
sentivo di essere in pericolo.
Mi
guardai attorno per interminabili minuti prima di decidermi ad
abbandonare la stanza, ma dovevo uscire da lì, dovevo
trovare un telefono e chiamare qualcuno.
Valutai
mentalmente che direzione prendere e alla fine optai per
raggiungere la porta in fondo al corridoio a sinistra; camminai
cercando di fare il minimo rumore possibile e mi sembrò di
impiegare ore per fare neanche venti metri.
Con
il cuore a mille e il respiro spezzato allungai la mano e tentai di
aprire quella porta scura, senza risultato.
Era
chiusa a chiave, chiave che chiaramente non era nella toppa; mi girai
sbuffando e sentendo il panico crescere, l’unica alternativa
era provare con l’altro lato del corridoio.
Percorsi
una cinquantina di metri e seguii la svolta a destra, trovandomi
così in un altro pezzo di corridoio, non illuminato e ancora
più lungo.
Mi
strinsi le braccia al corpo reprimendo un brivido, sia di freddo che di
terrore.
Guardandomi
costantemente indietro, in quel vuoto e silenzio inquietanti, mi avviai
verso il fondo, dove mi attendeva una porta bianca.
Il
suono delle mie scarpe da ginnastica contro il pavimento, per quanto
tenue, era quasi assordante, così come il battito furioso
del mio cuore.
Ero
troppo giovane per avere un infarto ma temevo di essere una candidata
papabile, visto il numero di pulsazioni al secondo e la morsa che
sentivo dentro.
La
maniglia di ottone era ghiacciata a contatto con le mie mani sudate per
l’ansia; provai ad abbassarla, invano.
“E’
inutile, sono tutte chiuse.” Mi mancò il respiro
al suono di una voce sconosciuta e mi girai di scatto schiacciandomi di
schiena contro la porta.
Una
figura era ferma in piedi a qualche metro da me, non distinguevo i suoi
tratti nella penombra ma dalla voce era un uomo.
“Chi
sei? Cos-cosa vuoi da me?” Rantolai in preda alla paura
crescente.
“Potrei
chiederti la stessa cosa, non eri qui ieri e gli altri giorni, ero
solo.” Di cosa diavolo stava parlando e chi era?
“Dove
siamo? Perché siamo qui?” Non sapevo se mi avrebbe
o meno fatto del male ma avevo bisogno di sapere, di ottenere una
qualche risposta.
“Non
ne ho idea, sono qui da qualche giorno, almeno credo… Senza
un orologio o una finestra non è facile capire quanto tempo
sia passato.” Rispose schioccando la lingua scocciato.
“Io
non capisco…” Mormorai flebile, sentendo gli occhi
riempirsi di lacrime.
“Benvenuta
nel club.” Rispose sarcastico lo sconosciuto, che
già non tolleravo.
“Cosa
c’è dietro alle altre porte?” Domandai,
in fondo doveva saperlo se si trovava veramente in quel luogo da giorni.
“Sono
tutte chiuse a chiave, a parte quella dove dormo e un bagno…
e probabilmente quella dove eri tu…”
Osservò, avvicinandosi a me lentamente.
Mi
schiacciai ancora di più contro la porta, terribilmente
impaurita e indifesa.
“Cosa
vuoi fare?” Domandai, sentendomi comunque ridicola: se era un
maniaco non mi sarei certo potuta difendere con delle stupide domande.
Si
fermò al suono delle mie parole e alzò le mani in
segno di resa, poi indietreggiò nuovamente.
“Non voglio spaventarti, torniamo alla luce? Almeno possiamo
vederci in viso.”
Sibilai
un “sì” e attesi che si incamminasse per
poi seguirlo titubante; quando svoltai anche io, qualche passo dopo di
lui, nel corridoio illuminato finalmente vidi il suo volto.
Era
giovane, forse aveva qualche anno più di me ma era difficile
da capire, il suo viso era stanco e solcato da profonde occhiaie, i
capelli erano sconvolti e indossava un paio di vecchi jeans e un
maglione sbilenco.
“Non
ti volevo sembrare insensibile, sono solo distrutto e sto impazzendo in
questo posto; posso capire come tu ti senta, la confusione e la paura
quando ci si sveglia qui sono totali.”
Parlò
lentamente, con tono stanco, guardandomi intensamente negli occhi.
“Io
non ricordo nulla… non riesco a ricordare nulla di ieri
notte, sempre che fosse davvero ieri…” Cominciavo
a chiedermi anche quanti giorni fossero passati in realtà
dai miei ultimi ricordi certi.
“Ho
sentito un rumore qualche ora fa, quindi credo che fosse il momento in
cui sei arrivata qui.” Alle sue parole sentii un moto di
rabbia crescere.
“Perché
non sei uscito dalla stanza per vedere cosa accadeva?” Gli
chiesi d’impeto.
Mi
sorrise amaro prima di rispondere. “Mhm… Non
conosci le regole, deve arrivare ancora il primo biglietto
quindi…”
“Che
regole? Di che biglietto parli?” Ero esasperata e finii con
l’alzare la voce.
“Calmati,
agitarsi non serve, l’ho imparato a mie spese…
Ogni tanto arriva un biglietto nella camera, c’è
una fessura strana in una parete ed entra da lì, ci sono
delle istruzioni da seguire e, credimi, è meglio
seguirle…” Crollai a terra in ginocchio, il peso
di tutte quelle assurdità era troppo per me.
“Ehi,
tranquilla, andrà tutto bene.” Si piegò
verso di me aiutandomi a rialzarmi e mi guidò, inerme, verso
una porta.
La
aprì e accese la luce rivelando un piccolo bagno, mi
sospinse verso il lavandino e mi consigliò di bagnarmi il
viso e di fare grossi respiri.
Scomparve
per pochi minuti e ritornò con una bottiglietta
d’acqua, che diede sollievo al bruciore immenso che sentivo
alla gola.
“Andiamo
nella tua stanza, vedrai che ci sarà già un
biglietto.” Mi avvisò e il panico mi invase; non
avevo idea di che istruzioni fossero scritte in quel foglio che,
secondo lui, avrei dovuto seguire alla lettera.
Ritrovare
la stanza non fu difficile, era l’unica porta socchiusa; mi
bloccai prima di entrare, considerandola come una prigione in cui ero
stata intrappolata.
Mi
sorpassò ed entrò per primo, accendendo la luce;
lo seguii e notai subito un foglio giallo abbandonato sul pavimento.
Fu
lui a raccoglierlo e a leggerlo mentre io seguivo attentamente i tratti
del suo viso in attesa di un qualche cambiamento di espressione, che
non arrivò.
Lo
accartocciò gettandolo in un angolo.
“Nulla
di nuovo, lo stesso che ho ricevuto anche io; quando senti una sorta di
sirena devi chiuderti dentro a chiave e infilarla nella fessura sotto
la porta, inutile barare… ogni tot ore accadrà e
dopo troverai in fondo al corridoio cibo e acqua, dovrai poi lasciare
il vassoio in bagno appena finito di mangiare e qualcuno lo
toglierà quando porterà quello nuovo. Se ti stai
chiedendo chi sia questo qualcuno non lo so nemmeno io, ho provato ad
urlare e ad offenderlo, ho provato anche a non seguire le istruzioni ma
ho ottenuto… diciamo nulla di buono.” Il suo
discorso mi lasciò ancora più sconvolta,
cominciai a temere che non sarei mai uscita da quel posto, sempre che
fossi sopravvissuta.
“La
chiave ti verrà restituita qualche minuto dopo, sempre
attraverso quella fessura da cui passano i fogli, non so cosa ci sia
dietro ma non si vede nulla e viene chiusa subito dopo.”
“Che
cosa ho fatto di male?” Chiesi, a me stessa, accasciandomi a
sedere sul letto, e dando libero sfogo alle lacrime.
“Ehi,
non hai fatto nulla, troverò il modo di farci uscire, te lo
prometto.” Mi strinse a sé e, dopo una prima
titubanza, mi lasciai andare tra le braccia di quel ragazzo sconosciuto.
“Non
so nemmeno il tuo nome…” Osservai qualche minuto
dopo, tirando su con il naso e staccandomi lievemente da lui.
“Jason,
mi chiamo Jason… tu sei?” Mi sorrise gentile.
Ma
non feci in tempo a rispondere che il rumore di una sirena
riecheggiò nel corridoio: doveva essere il fantomatico
segnale.
“Devo
andare.” Si alzò da accanto a me, scattando come
una molla, e raggiunse la porta.
“No,
ti prego!Non lasciarmi sola!” Esclamai in preda al panico.
Si
girò, mentre stava già aprendo la porta, mi
guardò e sospirò per poi acconsentire; lo vidi
chiudere a chiave e infilarla sotto la fessura della porta.
“Ora
fai silenzio, chiunque sia non apprezza il rumore.” E storse
il naso infastidito, con una mezza smorfia di dolore sul viso.
Deglutii
pensando a cosa potesse essergli accaduto prima del mio arrivo e
afferrai con le mani spasmodicamente la coperta del letto per scaricare
la tensione.
Sentii
dei passi e il rumore di qualcosa di metallico che scivolava sul
pavimento, forse i vassoi con il cibo; i passi si fecero sempre
più vicini e si fermarono, pochi istanti dopo riecheggiarono
nuovamente scemando.
Trattenni
il respiro finché non calò nuovamente il
silenzio; Jason era rimasto tutto il tempo in piedi dandomi le spalle.
Improvvisamente
si girò e mi sorrise, gli sorrisi rilassandomi
anch’io nuovamente, per quanto possibile.
“Cosa
stavamo dicendo Rose?”
Mi chiese, avvicinandosi.
“Co-come
fai a sapere il mio nome? N-non ho fatto in tempo a
dirtelo...” Balbettai mentre il terrore e la consapevolezza
mi invadevano e Jason, chiunque egli fosse, era ormai ad un passo da me.
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