Salve a tutti! ^__^
Una piccolissima introduzione prima della Fict vera e propria...
Non sono nuova a questo tipo di storie ma questa è forse la
prima che finalmente mi decido a pubblicare su questo sito. Tutte le
idee che avevo avuto in passato mi erano sempre sembrate inadatte...
Non che questa sia la Fan Fiction del secolo o cosa. Anzi, devo
ammettere di non esserne particolarmente soddisfatta, quando ho
iniziato ad idearla era ben diversa. Forse nella mia testa era persino
migliore.
Devo anche dire, però, in mia difesa, che per quanto sia un
vero fenomeno a farmi filmini mentali, mettere questo tipo di
ragionamenti per iscritto è ben più arduo. Voglio
dire, non ho mai nemmeno tenuto un diario segreto proprio per questo! :P
E' la primissima Fict introspettiva che scrivo, e devo ammettere che
non è nemmeno il mio genere preferito. Tuttavia, adoro Glee
e penso che il personaggio di Kurt sia qualcosa di assolutamente
GENIALE, e da tutto ciò è inspiegabilmente nata
in me la malsana voglia di scrivere e pubblicare questa storia.
Forse perchè finora nella serie non è stato dato
eccessivo spazio ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti. O quantomeno,
non quello che gli avrei dato io.
Mi è venuto spontaneo chiedermi cosa potesse provare dentro
di sè una persona come lui... e da tutto ciò
è nata questa storia.
Avrei voluto che risultasse un tantino migliore di quello che
effettivamente è, ma ad ogni modo spero che possa comunque
piacervi. Almeno un pochino :)
Che altro dire? Buona lettura!
P.s. Giusto per mettere le mani avanti, la mia non vuole essere una
presa di posizione di alcun genere nè una denuncia
nè nulla di simile. E' semplicemente un tentativo di
immedesimazione in un personaggio, perciò ho esposto quelli
che, a mio parere, potrebbero essere i suoi pensieri.
Chiunque è liberissimo di pensarla diversamente e non deve
per questo eventualmente sentirsi offeso da ciò che ho
scritto. ;)
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< Io vado Kurt, ci vediamo
stasera!> mi urla mio
padre mentre esce dalla porta di casa.
Gli faccio eco, salutandolo a mia volta dal secondo
piano.
Io vado Kurt.
Tre semplici parole, che per me hanno però un significato
ben preciso.
Via libera.
Aspetto di sentire la porta d’ingresso chiudersi alle sue
spalle, poi raggiungo la mia scrivania con la velocità di un
ghepardo, cosa che
solitamente non mi appartiene affatto, e premo il pulsante PLAY del mio
I-pod.
Solo pochi secondi, ed ecco che tutta la stanza si
riempie di musica. E che musica, signori.
La divina. L’unica ed inimitabile.
Beyonce.
L’adoro, semplicemente.
Sorrido, mentre il mio corpo comincia ad abbandonarsi a
quella melodia meravigliosa, quasi come ipnotizzato. E’
qualcosa d’irresistibile,
ben più forte di me e della mia volontà. Anche
se, effettivamente, faccio ben
poco per oppormi al richiamo della musica.
Mentre Beyonce, come un’ammaliante incantatrice, tenta il
suo immaginario interlocutore promettendogli che “stanotte sarà la sua ragazza birichina”,
io mi lascio andare in una
danza che di virile ha ben poco, complice l’assoluta
solitudine.
Non che debba nascondere nulla a mio padre. E’ ben
consapevole di quale sia la mia situazione personale, e in ogni caso la
mia
omosessualità è più lampante di un
faro in una notte oscura.
Ma questo non significa comunque che si senta
particolarmente a suo agio nel vedere il suo unico figlio sculettare
come una
cheerleader. E ad essere onesti, la cosa non entusiasma neanche me.
Non sono certo la classica checca stereotipata ed
esibizionista, la riproduzione della ridicola immagine che i mass media
danno
di noi gay.
Sono solo un... ragazzo particolare, diciamo.
Amo la musica, amo ballare, so vestirmi bene e mi piace.
Ma questo non fa di me un’oca starnazzante che approfitta di
ogni paio d’occhi
si ritrovi davanti per esibirsi in una qualche patetica testimonianza
di
femminilità.
Mi lascio andare solo quando sono immerso nella pacifica
solitudine della mia stanza. Solo qui posso sentirmi libero di fare
ciò che
voglio e di essere chi desidero, senza per questo rischiare di essere
buttato
nel cassonetto dei rifiuti da un paio di stupidi energumeni.
Chiamano me effeminato. Eppure io li vedo negli
spogliatoi, ad ungersi il corpo di creme su creme, ad usare chili di
gel per
sistemarsi la chioma, ad agghindarsi con magliette e jeans
all’ultima moda. A
pavoneggiarsi davanti allo specchio, facendo bella mostra dei loro
muscoli e
della loro espressione più “acchiappa
femmine”.
E poi sarei io la checca?
Continuo a ballare nella mia stanza, ad occhi chiusi,
seguendo solo il ritmo proveniente dalle casse acustiche. Completamente
abbandonato, finalmente libero.
< Ahi!>
Sapevo che il mio viaggio alla cieca sarebbe durato poco.
Riapro gli occhi per fissare lo sguardo sulla causa di
quell’improvviso dolore al ginocchio.
< Stupido coso> borbotto contro lo spigolo del
cassettone.
Mi chino leggermente per massaggiarmi la gamba.
Il dolore ormai è già passato, resta solo la
scocciatura
per essere stato bloccato sul più bello.
La musica cambia improvvisamente. Una nuova voce
sostituisce quella di Beyonce, una melodia diversa risuona tra le
pareti della
mia stanza. Christina Aguilera inizia a cantare la sua
“Reflection”, con quella
voce acuta e potente che la contraddistingue.
Alzo lo sguardo, e vedo il mio riflesso sullo specchio di
fronte a me.
Guarda caso.
Guardami. Puoi
pensare che stai vedendo chi sono realmente, ma non mi conoscerai mai.
Come ti capisco, cara Christina.
Ti capisco eccome.
Sollevo la schiena, rimanendo in posizione eretta. Lo
sguardo fisso allo specchio qualche metro più in
là, tutto il resto del corpo
immobile.
Lui, lo specchio. L’amico su cui ogni giorno faccio
affidamento. L’unico del cui giudizio mi fidi.
Il complice silenzioso dei miei innumerevoli cambi d’abito
per trovare la mise perfetta, dei miei spettacolini di danza e canto.
Il
giudice supremo del mio look.
Eppure anche lui, come tutti gli altri, non mi conosce.
Vede solo la superficie esterna, l’involucro.
Ma non conosce il vero Kurt Hummel. Non sa cosa si agiti
nella sua anima, cosa vortica irrefrenabilmente nel suo cervello, cosa
fa
battere il suo cuore.
Come tutti gli altri, pensa di conoscermi solo perché
vede ciò che mostro al mondo.
Ma la maschera che tutti vedono non è ciò che io
sono.
Sospiro, sistemandomi una ciocca di capelli che mi era
scivolata davanti agli occhi.
Già, chi sono io?
Forse è questo il problema principale, forse questo
è il
motivo per cui nessuno conosce il vero me.
Perché
fondamentalmente non lo conosco nemmeno io.
Non posso farmene una colpa. Dopotutto, sono solo un adolescente
in piena crisi esistenziale.
E’ come se il mio presente ed il mio futuro fossero
avvolti da una nuvola nera, che mi impedisce di vedere. Non ho idea di
cosa mi
aspetti negli anni a venire, chi diventerò, quali
cambiamenti subirà la mia
vita. Quale sarà il mio destino.
Non so neanche cosa mi potrà succedere da una settimana a
questa parte.
E non so chi sono adesso. Cosa sono diventato, se sono
diverso da ciò che ero qualche tempo fa.
Forse sono sempre lo stesso ragazzino che si rinchiudeva
in camera per sfogliare “Vogue”, mentre il padre lo
credeva intento a giocare a
qualche stupido videogioco di lotta.
Forse sono ancora quel bambino che accampava ogni volta
una scusa diversa per non giocare a calcio con tutti gli altri
maschietti del
vicinato, e preferiva osservare le bambine e le incredibili avventure
che
mettevano in piedi con le loro bambole, tentato di unirmi a loro e
frenato solo
dalla consapevolezza che mio padre poteva uscire di casa da un momento
all’altro e scoprirmi.
Non ho idea di chi io sia.
So che questo tipo di crisi tocca almeno un buon 50/60
per cento di tutti i ragazzi della mia età. E’
normale, il futuro spaventa, e
la crescita è un qualcosa di così improvviso ed
ingestibile che nessuno sa bene
come fronteggiarla.
Ma la mia “estrosità”, chiamiamola
così, non fa altro che
creare ulteriore confusione.
Mi avvicino lentamente allo specchio, per potermi
osservare meglio. Come se guardandomi più da vicino
riuscissi a trovare le
risposte a tutte le mie domande, ai miei interrogativi, ai miei dubbi.
Come se quella superficie riflettente potesse aiutarmi a
scrutare il fondo della mia anima.
Ma non è così.
Il vetro mostra solo ciò che vedo tutti i giorni. Quel
viso che conosco fin troppo bene.
Ma non mi aiuta a capire cosa ci sia dietro di esso.
C’è solo una cosa che so per certo di me stesso.
Kathy Bates nel film “Pomodori verdi fritti” si
definiva
“troppo giovane per essere vecchia e troppo vecchia per
essere giovane”.
Ecco ciò che io sono, ciò che sono sicuro di
essere.
Troppo donna per
essere uomo, troppo uomo per essere donna.
Non vi è definizione per uno come me.
Perché le mie sembianze maschili m’impediscono di
essere
definito “ragazza”. Ma sono decisamente troppo
effeminato perché i miei compagni
mi considerino un uomo.
Le mie labbra si contraggono inconsapevolmente.
Dannazione, perché effeminato poi?
A me piacciono i ragazzi, ok. Potete considerarlo
sbagliato, deviato, malato, quello che vi pare. Questione di punti di
vista.
Per me è la normalità. Per me è
l’inevitabilità. Il mio gusto personale mi
spinge verso i maschi. E a mio parere, non c’è
nulla di sbagliato. Né di
corretto.
La libertà dopotutto è questo, no? E’
scegliere ciò che
si preferisce, ciò che ci piace. Anche se non sappiamo
perché ci piace. E
nemmeno siamo costretti a saperlo, spesso è qualcosa
d’irrazionale ed
incontrollabile. Anzi, lo è sempre.
Chi ha detto che gli uomini devono amare le donne e
viceversa? C’è forse qualche regola scritta,
qualche legge?
Gesù Cristo invitava ad “amare il prossimo tuo
come te stesso”.
Genericamente. Non diceva “tu donna ama il prossimo tuo uomo
e tu uomo ama il
prossimo tuo donna”.
L’amore può assumere qualunque forma, sempre amore
resta.
E come tale, non va condannato.
Uhm, forse mi sono spinto un po’ troppo in là coi
miei
ragionamenti... non volevo sciorinare una difesa a favore
dell’omosessualità.
Non mi sento in dovere di difenderla, semplicemente perché
non andrebbe
attaccata.
Ad ogni modo, io sono così.
Sono un ragazzo a cui piacciono i ragazzi.
Punto.
Ma perché definirmi “effeminato”?
Perché additare le mie
inclinazioni femminili come un insulto?
Io non scimmiotto le ragazze, non vado in giro indossando
minigonne e tacchi, squittendo come un topolino ed imbottendomi il
reggiseno di
carta igienica per simulare due protuberanze che non possiedo.
Sono solo un comune ragazzo che ha interessi atipici
rispetto agli altri.
Eppure, non sono l’unico a far parte del Glee Club. Non
sono il solo che balla e canta, indossando costumi di scena e dimenando
i fianchi.
Anche Puck e Finn lo fanno. E loro sono due machi,
tecnicamente parlando.
E non mi pare che gli altri ragazzi siano sciatti,
trascurati e poco concentrati sul proprio aspetto esteriore. Anzi,
proprio gli
stessi energumeni che ogni giorno mi sollevano di peso per gettarmi in
mezzo
alla spazzatura sono estremamente più vanesi di quanto sia
io.
Sorrido al mio riflesso. Sorrido al mio vecchio amico
specchio.
Mi sbagliavo su di lui, prima.
Lui non è come tutti gli altri. Lui sa esattamente chi
sono.
E me lo sta mostrando proprio in questo momento.
Sono un ragazzo come tutti, solo più estroso.
Sono un omosessuale, e non me ne vergogno.
Sono Kurt Hummel. E
mi va benissimo così.
Sono ciò che sono. E non vorrei essere nulla di diverso.
L’orologio sul comodino mi segnala che devo incamminarmi
verso scuola, se non voglio arrivare tardi.
Senza che il sorriso abbandoni le mie labbra, mi dirigo
verso la scrivania, stacco l’I-pod dalle casse e vi collego
gli auricolari, che
poi mi porto prontamente alle orecchie, per non perdere neanche un
secondo del
brano di Lady Gaga che è appena partito.
Raccolgo lo zaino da terra e mi avvio verso la porta
della mia stanza.
Prima di varcarla, lancio un’ultima occhiata allo
specchio.
Mi scruto con attenzione, facendo un giro su me stesso.
Semplicemente
perfetto.
Faccio l’occhiolino al mio doppio, che dalla superficie
riflettente ricambia a sua volta.
< Ciao amico!> esclamo, prima di scendere le scale
ed immergermi in una nuova giornata.
Un’ennesima giornata da Kurt.
E non potrei chiedere
di meglio.
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