Titolo://
Rating: Arancione /N-15
Personaggi: Cina (Yao Wang), Giappone (Kiku Honda), Corea del Sud (Im Yong Soo), Taiwan, Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Russia (Ivan Braginski)
Pairing Cina/Giappone
Genere: Guerra, Drammatico, Angst
Avvertimenti Non per stomaci delicati
Note:
//
Il fratellone sorride di nuovo
Yingkou, una piccola città sulla costa, nella penisola del
Liaoning, la stessa penisola dove proveniva anche Xua.
Xua era morto quasi un mese dopo il massacro di Port Arthur, nella
sua città natale. Yao Wang lo seppellì personalmente,
tra il fango, evitando di gettarlo in una qualche fossa comune o
lasciare che le fiamme lo divorassero.
Fiamme e fuoco, non aveva visto nient'altro dall'inizio della
guerra. Anche in quel momento la piccola cittadina sulla cosa stava
ardendo come un fiammifero.
“Dannazione! Ritiriamoci sul promontorio e spariamo da lì
a vista, aru!” gridò con quanto fiato aveva ancora in
corpo, alzando in aria il fucile come una bandiera di cui andare
orgogliosi.
“Wang! Non ce la faremo mai a raggiungerlo prima che i
giapponesi riprendano a spararci addosso!” “E allora
correte come non avete mai corso prima, altrimenti vi ritroverete la
schiena crivellata di proiettili!” Senza nemmeno finire la
frase prese a correre all'impazzata verso un alto promontorio che
sorgeva sul mare in tempesta, e che forniva ampi ripari rocciosi
dietro cui nascondersi e sparare contro i nemici.
Pioveva, ma non bastava a spegnere le fiamme o far indietreggiare
gli altri soldati. C'era un odore disgustoso nell'aria, un orrido
miscuglio tra carne bruciata, polvere da sparo e ferro. Non riusciva
ancora a capire come le sue gambe potessero ancora correre, provate
com'erano, piene di ferite e senza un briciolo di forza. Non ne
poteva più di quella guerra. Sarebbe impazzito se non fosse
finita la più presto. E una volta finita... no, quella volta
non bastava una tirata d'orecchi.
Si sarebbe arreso tempo prima, se il suo capo e il suo orgoglio
non glielo avessero impedito.
Si buttò a capofitto sulla ghiaia, sbucciandosi le
ginocchia, ma quel dolore non era niente, accucciandosi dietro ad una
roccia e puntando il fucile verso il luogo dove aveva previsto
l'arrivo dell'Armata Giapponese.
I pochi soldati rimasti imitarono il suo gesto, e come tigri
pronti ad attaccare attesero con impazienza l'arrivo del nemico, che
di sicuro non si sarebbe mai aspettato, o quasi, un attacco
dall'alto.
Chissà se Kiku è tra loro...
Da quel giorno non l'aveva più rivisto.
Ma era certo che tutte le sue parole erano state vane e non erano
servite a nulla, se non a farlo imbestialire di più.
“Eccoli là, i puttanieri giapponesi”
“Guarda come se la tirano, passeggiando sulle nostre spiagge
sporche di sangue!”
“State zitti e sparate, aru!”
I colpi di proiettili partirono, con un gran rumore, e da lontano
videro due giapponesi accasciarsi al suolo, inerti. In altri contesti
avrebbero esultato, ma due soldati erano troppo pochi rispetto
all'intera armata che aveva individuato la loro posizione e avevano
cominciato a rispondere al fuoco.
Forse era stato quasi un suicidio, o una pazzia sparare contro di
loro, ma a Yao non importava. Non importava più niente. Ormai
anche le grida di dolore, per quanto lo raccapricciassero, arrivavano
ovattate alle proprie orecchie. Era stanco, voleva solo che la
disperazione e la guerra finissero al più presto.
Continuò a sparare, mentre il suo sangue e quello dei suoi
alleati gli schizzava sul viso provato e sui vestiti laceri.
Un proiettile gli sfiorò la spalla, lasciando un taglio di
striscio che gli bruciava, ma continuò a sparare come un
robot. Una divisione giapponese cercò di risalire il
promontorio, ma lui fu più svelto, e sfilata una bomba a mano
dalla cintura e levata la sicura coi denti, la lanciò verso lo
sventurato gruppo, che saltò in aria tra il fumo e le grida di
dolore, il fango e il sangue che schizzavano ovunque.
L'odore del grasso bruciato era nauseante, e brandelli di membra,
carne organi e vesti, schizzavano ovunque, disgustosi, ma ormai Cina
non ci faceva più caso. Era orribile da dire, ma ormai ci
aveva fatto l'abitudine, e davanti a questi massacri ci aveva fatto
l'abitudine. Poi la notte vomitava tutta la bile che gli era rimasta,
dormiva poco e aveva gli incubi.
“Forza! Non dobbiamo permettere che ci raggiungano, aru!”
gridò con quanto fiato aveva in corpo, facendosi male al
diaframma. Si voltò, ma ormai della decina di uomini solo tre
erano rimasti in vita, ed erano feriti. Gli altri avevano fori di
proiettile ovunque, soprattutto in mezzo al cranio, e Yao sospettò
che avessero preferito il suicidio alla voglia di continuare a
combattere.
“Maledizione, aru! Maledizione!”
Tornò sui suoi passi, mentre altri giapponesi stavano per
raggiungerli. Corse veloce verso i sopravvissuti, incitandoli ad
alzarsi, prendendoli e scrollandogli le spalle, invano: quelli non ne
volevano sapere di fuggire, anche a costo di rimanere uccisi.
“Dai scappate! Mettetevi in salvo almeno voi, aru!”
Gridò disperato, scuotendo un soldato che stava per perdere i
sensi tanto l'emorragia ad un braccio era forte e non riusciva a
fermarla.
Uno sparo stavolta lo colpì tra le scapole, bruciando forte
e sanguinando come un fiume in piena. Faceva male, ma stringeva i
denti evitando di gridare di dolore. Non avrebbe mai permesso ai
giapponesi di sentire le sue urla.
“Cina, ci è stato ordinato da Giappone stesso di
catturarlo vivo. La prego di non opporre resistenza” sentenziò
freddo un soldato nemico puntandogli la canna del fucile contro.
“Al diavolo, aru!” Velocemente si puntellò al
terreno con le mani e le braccia e calciò il polso del
soldato, che mollò la presa sull'arma che venne scaraventata
lontano.
Non potè nemmeno riprendersi che altri fucili gli vennero
puntati contro, e due mani possenti gli bloccarono le braccia,
ritrovandosi su di sé almeno una decina di giapponesi che
tentavano di tenerlo fermo.
Yao continuò comunque a dimenarsi, scalciandoli colpendoli
al mento e al petto, alcuni schizzi di sangue lo colpirono in viso,
ma nonostante la foga con cui si difendeva i giapponesi erano troppi,
e lo immobilizzarono anche se non troppo facilmente, immergendogli la
testa nel fango.
“Branco di vigliacchi schifosi, bastardi, aru”
“Che ti succede, onii-san. Non è da te usare questo
linguaggio. Che ti è successo?”
La voce canzonatoria di Giappone gli violentò le orecchie,
ma non potè guardare in faccia il fratello, spinto con forza a
terra dai soldati che gli impedivano di vedere al di là del
suo naso.
“Kiku!”
Uno schiocco di dita e tutti i soldati lo liberarono
immediatamente, lasciandogli grossi lividi violacei sulle braccia e
sulle spalle, la scapola, ancora perforata dal proiettile, che gli
mandava al cervello violente scosse di dolore atroce.
Era lì, davanti a lui, che si mostrava in tutta la sua
magnificenza e superbia. Lindo e pulito lo guardava dall'alto al
basso. La giacca bianca ricadeva sulle spalle e le maniche vuote
ondeggiavano al vento di salsedine e polvere da sparo, mentre le
braccia erano incrociate al petto.
Sì, gli sembrava veramente un occidentale di tutto punto.
“Alzati” gli ordinò secco.
Cina ubbidì silenzioso, digrignando i denti, per via del
dolore e del orgoglio ferito.
La pioggia continuava a battere sulle loro teste, ma nessuno dei
due sembrava farci troppo caso.
“Quanti mesi sono passati dall'ultima volta, Chugoku?”
“Troppi. E questa guerra sta durando da ancora più
tempo, aru”
“E' ora di finirla, con una tua incondizionata resa, non
trovi?”
“Avevi promesso che avresti lasciato fuori da questa storia
i civili...”
“Proprio allora non capisci, Chugoku. Non è una lite
familiare questa!”
“Allora perché?”
Giappone non rispose, anzi. Lentamente mise la mano all'elsa della
katana e la sfilò dal fodero con un solo colpo secco.
Yao sapeva cosa lo aspettava. E fu felice che in quel momento
stesse piovendo. Così mantenendo il volto impassibile poteva
piangere senza far vedere le lacrime al fratello.
“Oggi finalmente sarò un uomo, no, onii-san?”
“Sì. Oggi sì”
Non si accorse del fratello che con un unico movimento gli fu alle
spalle.
Non si accorse della lama che gli tagliò la schiena,
squarciandola, lacerandola, il sangue che colava e schizzava via,
macchiando la candida giacca del giapponese.
Si lasciò andare. Ormai non sentiva dolore, tutta la
stanchezza aveva preso il sopravvento, e si era lasciato andare.
Cadde sulle ginocchia, e poi lasciò che anche il petto si
immergesse nella melma, insieme al viso. Il sangue continuava a
scorrere sulla schiena, copioso. Quanto mancava alla morte?
Quanto ancora doveva passare prima di smettere una volta per tutte
di soffrire. Sarebbe rinato prima o poi. Ora non voleva fare altro
che addormentarsi, in pace con se stesso.
Era triste, ma al contempo felice che il suo fratellino, come
aveva previsto, avesse avuto finalmente il coraggio di staccarsi da
lui, ferendolo. Era la prova che non era più dipendente da
lui, che era cresciuto, che era degno di venire chiamato Nazione.
Delle voci giunsero alle sue orecchie. Gli sembravano allarmate e
vagamente familiari. Ma non gli importava nulla. Nulla. Chiuse gli
occhi e si lasciò andare.
Com'era dolce la morte.
...
“... ma se sei tu l'idiota qui, Francia!”
“Senti chi parla, Arthur! Almeno io non me ne vado in giro
per l'Asia sventolando l'oppio ai quattro venti!”
“State zitti. Yao si è svegliato!”
Cina aprì lentamente gli occhi. Si ritrovò davanti
la faccia felice e sorridente di Russia, a pochissimi centimetri dal
suo viso. Troppo vicino! Non gli interessava sapere come fosse
arrivato lì e cosa fosse successo, voleva solo scrollarsi Ivan
di dosso.
“Levati di dosso, aru!” gridò, ma appena le
parole cercarono di uscire violente dalla gola, la voce gli uscì
fioca e debole, e sentiva dolori dappertutto.
“Ivan alzati! Non lo fai respirare, povero petit fleur”
La Russia si alzò dal futon dove Yao era adagiato. Era
tutto così candido e pulito che non gli sembrava vero. Si
sentiva riposato, e dolore alla schiena a parte stava relativamente
bene.
Francia si avvicinò ai due, sedendosi dalla parte opposta a
Ivan attorno a quello che era simile ad un capezzale.
Inghilterra invece si teneva a distanza, con le braccia incrociate
al petto e il viso arcigno.
Per lui, Cina poteva benissimo andarsene a morire da solo come un
cane in mezzo ad una prateria.
Se la cosa non avrebbe tratto vantaggi anche per lui non avrebbe
mai sacrificato ore di ozio per andare a salvare il cinese.
“Ch... che è successo?” domandò rivolto
a Ivan e Francis, piuttosto confuso.
“Ivan ti ha trovato morente su un promontorio, e ti ha
salvato la vita” Affermò il francese, sorridendogli
amabilmente, per donare un po' di affetto a Yao, che da tantissimo
tempo non ne riceveva. “Che ci facevate voi lì, aru?”
“Ma che domande! Siamo venuti a salvarti” “Siete
venuti di nuovo a prendermi delle terre, non é così,
aru?”
I due europei e il russo abbassarono lo sguardo imbarazzati.
Era vero, avevano fermato l'avanzata giapponese, ma si erano presi
i terreni conquistati e li avevano reclamati come propri. Ma alla
fine avevano posto fine a quella guerra senza senso, no?
“Preferivo farmi ammazzare piuttosto che farmi aiutare da
voi sanguisughe, aru”
“Chérie! Cerca di essere ragionevole! Noi ti abbiamo
salvato, abbiamo rimandato Giappone a casa e stipulato alleanze!
Abbiamo svolto tutto il lavoro sporco per te. Ci siamo presi solo una
piccola ricompensa...”
“Voi e Giappone avete rovinato la mia terra!”
“Sì, e allora?” Intervenne brusco il Regno
Unito, fulminandolo con lo sguardo. “Tanto morto o meno ci
saremmo presi lo stesso quei porti. Quindi ringraziaci se invece di
farti uccidere per mano del tuo little brother ti abbiamo salvato!”
Ci fu un lunghissimo silenzio.
Non avevano il diritto, quei due stupidi ingordi europei, di
rubargli la terra. Eppure non poteva negargli di dovergli la vita.
Stinse violento le lenzuola e fissò con le lacrime che gli
pungevano gli occhi Russia, uno strano ultimo appiglio.
“Anche tu? Anche tu hai fatto come loro, aru?”
Ivan sorrise amabilmente, un sorriso che Cina aveva imparato a
riconoscere come falso.
“Sì. Ma io posso vendicarti, Yao. Se solo tu me lo
chiedi, attaccherò Giappone!”
“NO! Basta guerre!” gridò Cina disperato
guardandolo supplichevole.
“Hai sofferto molto ultimamente. È meglio che ti
riposi ancora un po” Sussurrò Francia accarezzandogli la
testa cercando di calmarlo.
“Che è successo a Corea e Taiwan?” domandò
febbrilmente.
“Che vuoi che gli sia successo? Giappone continuava ad
attaccarti solo per avanzare verso Meimei. Ne ha preso il controllo.
E adesso anche lei non è più con te. Non abbiamo potuto
impedirgli di portarsela a casa!” rispose Inghilterra freddo,
quasi sbeffeggiatore, mentre anche l'ultimo barlume di speranza di
Yao si spense.
“Ah... ho capito...” mormorò lasciando cadere
la testa sul cuscino, con un tonfo, in preda all'angoscia, mentre
sentiva il caldo delle coperte del futon avvolgerlo.
Sentiva Francia e Russia vicini, il primo che gli accarezzava la
testa e il secondo che gli stringeva la mano, entrambi, per la prima
volta, senza doppi fini.
“U...un ultima cosa. Voi c'entrate qualcosa col cambiamento
di Kiku, aru?”
“Sì” Ammise Francis. “Siamo stati noi ad
insegnargli le tattiche militari e ad aiutarlo a creare un esercito.
Pensavamo che l'usasse solo in caso di difesa”
Cina smise di parlare, lasciandosi coccolare dalle carezze del
biondo, fissando il vuoto.
Inghilterra sbuffava, stanco di quella situazione. Era annoiato e
nascondeva ai tre davanti a lui che aveva sempre sostenuto Giappone
in quella guerra, e non provava nessuna pietà per Yao.
Si appoggiò alla finestra, fissando fuori il giardino della
casa di Cina, dove si erano stabiliti finchè il padrone non si
fosse ristabilito. E per sua immensa sfortuna ciò non sarebbe
accaduto molto presto.
Intravide un cavallo avvicinarsi alla pagoda, un bellissimo
destriero bianco. Curioso, Arthur allungò il collo per poter
vedere meglio quel ragazzo che sembrava simile ad uno dei suoi
cavalieri medievali da come cavalcava, e riconobbe sotto la giacca
bianca l'esile figura di Kiku Honda.
“Ehi! We have guests” sogghignò rivolto a
Francis e Ivan, ma anche Yao alzò lo sguardo sorpreso, non
capendo però ciò che l'inglese aveva appena detto.
Il russo aggrottò le sopracciglia, arrabbiato, sorridendo
maligno e alzandosi verso la porta afferrò un piccone, di cui
Cina ignorava l'esistenza in un angolo della sua stanza.
“Ci penso io a lui, non ti preoccupare Yao!”
“No aspetta! Fatelo entrare, aru!” Lo bloccò il
cinese alzando la voce.
“Perché?” Domandò ingenuamente il russo,
afferrando il piccone con due mani “Ti ha fatto del male e
adesso viene da te come se nulla fosse. Ed è la quinta volta
da quando sei qui!”
“Fallo entrare. Per favore Ivan, aru” ripetè
supplicante ed atono, mentre qualcuno bussò lievemente, come
se avesse paura di ciò che lo attendeva al di là di
quella porta. Russia fissò senza capire lo sguardo vuoto della
persona che desiderava di più al mondo, in quel momento di
debolezza. Poi aprì la porta, trovandosi faccia a faccia con
un Giappone spaventato della sua vista.
“Ciao, Giappone!” Sorrise digrignando i denti e
fissandolo minaccioso, brandendo il piccone con forza.
“K-k-konicchi wa, Rosshia-san” balbettò
spaventato, intimorito dalla presenza inquietante del russo. “Cina
si è svegliato?”
“Sì. E se fosse per me ti farei passare tutto quello
che hai fatto subire a lui. Forse anche di peggio! Ma ritieniti
fortunato del fatto che tuo fratello è molto più
comprensivo e di buon cuore di quanto non lo sia tu, Kiku” E
così dicendo si scostò dalla porta, facendogli segno di
entrare indicandogli la via con l'attrezzo.
Il giapponese entrò timoroso seguito da Russia come se
fosse un carcerato fino nella stanza di Yao.
Lo vide, sdraiato sul letto, bendato da capo a fondo, con diverse
fasce che gli coprivano la schiena, così fragile che sarebbe
bastato poco per ucciderlo definitivamente. Francia gli era accanto e
lo guardava con disprezzo, mentre Inghilterra sembrava totalmente
indifferente alla scena.
Pensare che era stato lui a ridurre il fratello maggiore in quel
modo gli faceva salire i conati di vomito in gola. I rimorsi e i
sensi di colpa lo avevano assalito la stessa notte in cui l'aveva
ferito a morte alla schiena e l'aveva abbandonato a sé stesso
senza donargli nemmeno un primo soccorso. Se Russia e gli europei non
fossero intervenuti forse il suo onii-san non sarebbe mai stato lì
davanti a lui.
“Potreste lasciami solo con Giappone per favore?”
Domandò Cina mettendosi seduto sul futon compiendo un notevole
sforzo fisico, la schiena gli bruciava come se fosse in fiamme.
“Non se ne parla! E se poi ti fa ancora del male?”
Ribattè Francis contrariato aggrottando un sopracciglio
biondo.
“Non mi farà nulla, aru. E ora potete cortesemente
uscire dalla mia stanza per un po'?”
L'ordine secco fece sussultare il francese, che anche se a
malincuore si trovò costretto ad uscire, mentre il Regno Unito
aveva accettato felicemente l'invito, e Ivan tentennava sulla soglia
sorridendo stringendo ancora il piccone.
“Tutti e tre” aggiunse sorridendo amabilmente, e
Russia ubbidì, rimanendo comunque dietro la porta chiusa
pronto ad assalire il giapponese se solo avesse sentito un lamento o
un grido del suo Yao.
“Ciao, onii-sama”
“Nihao, Giappone”
Nonostante Cina stesse -ancora una volta- sorridendo, Kiku rimase
sorpreso dalla freddezza con cui gli aveva rivolto la parola.
“Volevo... chiederti scusa. So che magari ti sembrerò...
crudele. Prima ferirti e poi domandare il tuo perdono. Ma mi sono
sentito... così in colpa. Pensavo di averti perso per sempre.
Sono stato uno sciocco. E se vorrai punire la mia colpa, accetterò
qualsiasi punizione”
Kiku si inginocchio al fianco del cinese, chinando il capo in
segno di umiliazione.
Yao glielo accarezzò, sorprendendolo una seconda volta. Si
aspettava pugni, insulti, schiaffi e chissà cos'altro. Ma mai
carezze.
“Dice il saggio; L'uomo che fa il male e ne ha vergogna ha
nell'anima la possibilità di redimersi. L'uomo che fa il bene
e vuol farlo sapere a tutti ha nell'anima la possibilità di
perdersi, aru”
sospirò sorridendo, contento che, in fondo, il suo
fratellino era rimasto in fondo al cuore sempre lo stesso. Non
avrebbe di certo dimenticato tutto ciò che Giappone gli aveva
fatto durante quella guerra, a Corea e a Taiwan. Però il fatto
che era venuto da lui significava già moltissimo, e Cina era
troppo morbido per permettersi di provare rancore verso una persona
amata.
“Il saggio dice anche; colpisci te stesso prima, per capire
il dolore che daresti. E io...”
“La guerra è finita. Sei diventato una nazione vera e
propria, ed un uomo. Quello che è stato ormai non si può
cancellare, aru” lo strinse a sé in un abbraccio. Non
era più il suo fratellino, era un uomo che non aveva più
bisogno di lui. Ma a quanto pareva aveva ancora bisogno delle sue
coccole.
Kiku singhiozzò appena sulla manica di Yao, per poi
asciugarsi velocemente le lacrime, troppo orgoglioso per mostrare la
sua debolezza.
“Come va la schiena? Fa male?” Domandò fissando
un altro punto della stanza.
“Un po', ma va tutto bene ora, aru” Rispose Cina
sincero continuando a coccolarlo.
Sembrava sinceramente pentito.
Dopo pochi minuti Kiku si rialzò, incamminandosi
velocemente verso l'uscita.
“Te ne vai di già, Giappone?” domandò il
cinese adagiando le mani bendate sulla coperta.
“Questa é stata la mia ultima visita, Chugoku. D'ora
in avanti io e te siamo nazioni rivali”
“Ostinato come sempre, eh Ju Hua?”
Il giapponese si fermò sulla soglia, rabbrividendo a
sentire quel soprannome con cui lo chiamava il cinese quando era
piccolo, e ancora giocava insieme a lui.
“Vorrà dire che aspetterò il giorno in cui
smetteremo di essere rivali con ansia, aru!”
Kiku non rispose, e piangendo dentro l'animo diede un addio
silenzioso al suo Liàn Hua, prima di uscire dalla stanza.
Il peso nel suo petto era diminuito, e l'aver ottenuto il perdono
da Cina aveva affievolito il suo senso di colpa. Ma le mani erano
ancora macchiate del suo sangue. Suo e quello di tutto il popolo
cinese.
Ne sarebbe passato ancora di tempo, prima di redimere tutti i suoi
peccati come aveva detto Yao poco prima.
Ma sapeva che il suo onii-san stava bene, che era sopravvissuto
anche a lui, che si era comportato come un mostro. E che lo aveva
perdonato.
Avrebbero combattuto ancora, e ancora, nei corso dei secoli. Ma
non avrebbe mai più deluso il suo fratellone. Non gli avrebbe
più fatto del male, nemmeno durante la più sanguinosa
delle guerre. Non l'avrebbe più permesso.
E in cuor suo anche lui sperava che il giorno in cu si sarebbero
seduti nuovamente ad un tavolo a giocare a mahjong, a ridere e
scherzare insieme ai loro fratelli come un tempo arrivasse il più
presto possibile.
“Sayonara, onii-chan”
“Zàijiàn, dì dì”
l
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