•
Prologo
•
-
Uruha -
La
vista di quel volto fu come una lenta e pacata sinfonia che comincia
con deboli strumenti a fiato, timidi pizzicati di violini, un appena
accennato borbottio di contrabbasso.
Il
volume di quella sinfonia crebbe pian piano; le labbra furono
l'introdursi vivace dei flauti traversi, gli zigomi alti un deciso
cambio di carattere nelle viole e nei violini, la prorompente cascata
dei suoi folti capelli neri l'entrata delle percussioni.
Il
cosiddetto colpo di grazia si presentò a me come il paio d'occhi più
magnetici in cui fossi incappato nella mia esistenza.
Un
prorompente attacco di trombe e tromboni, violini impazziti, flauti
rapiti dal ritmo serrato delle percussioni, i tamburi rombanti, m'era
perfino sembrato di sentire delle chitarre acustiche che mi
riempivano la mente delle loro pentatoniche, le loro doriche e
aeloie.
L'ultima
nota aveva vibrato nell'aria, incidendo il silenzio con la sua densa
e grave corposità.
«Mi
perdoni, non l'ho vista.»
In
realtà l'avevo visto fin troppo bene. Era decisamente...complicato
non vederlo, anche se faceva di tutto per passare inosservato. Nel
delicato paesaggio color pastello di Kyoto lui spiccava come un'oasi
in mezzo al deserto: vestito di nero da capo a piedi, se ne stava
immobile come una statua, mentre il mondo girava attorno a lui. Era
troppo incredibile per non
essere notato.
Quando
lo urtai barcollò leggermente, e quegli occhioni guizzarono rapidi
come saette in mille direzioni.
Non
avevo mai visto occhi del genere.
Le
sue iridi erano di un azzurro stupefacente; un azzurro-grigio quasi
trasparente, che si piegavano al volere di un paio di pupille color
inchiostro, grandi ed ingenue.
Mi
sembrò di vedere in quegl'occhi un cielo piovoso d'autunno.
«Oh,
non si preoccupi. Neanche io avevo visto visto lei.»
La
sua voce fu un imprevedibile colpo di grazia.
Mi
parlò con voce tranquilla e pacata.
L'inquietudine
di quegl'occhi s'era placata e ora essi erano vuoti e spenti, come
scollegati dalla spina che li aveva resi tanto fulgidi pochi attimi
prima.
«Sì,
mh, okay. Beh, mi scusi ancora.»
Lui
mi fece un grazioso cenno col volto, lo sguardo incollato alla mia
spalla.
Perché
non mi guardi in volto angelo?
Cercai
rapidamente qualche scusa che mi costringesse a rivolgergli
nuovamente la parola, nella speranza di vedere il suo sguardo nel
mio. Avrei potuto chiedergli se si fosse male, quando il suo
improvviso cambio d'espressione mi bloccò le parole in gola.
Mi
allontanai in fretta da quella creatura, quasi spaventato da tanta
bellezza.
Mi
ero svegliato col mal di testa quella mattina: il dolore sordo mi
pulsava nelle tempie, martellando come la grancassa di una batteria.
Ultimamente
capitava molto spesso. La notte sognavo Maiko, sognavo quello sguardo
da bambina, sognavo le sue labbra carnose e il suo corpo magro e la
mattina mi svegliavo con il cranio attraversato da milioni di schegge
gelide.
Maiko.
La
mia Maiko se n'era andata, mi aveva lasciato indietro e solo,
e io dovevo ancora rendermene conto.
Mi
infilai sotto una doccia gelida senza neanche togliermi il pigiama e
quello mi si incollò alla pelle. Il lento martellare crebbe
d'intensità, fino a raggiungere livelli insopportabili, prima di
scemare veloce com'era aumentato.
Quando
entrai in cucina avvolto da un accappatoio bianco, il telefono
accanto al frigo lampeggiava.
«Kouyou,
sono Yasuko, chiamami.»
«Sono
Kawada. Chiamami quando puoi.»
«Kouyou,
sono io...» una pausa lunga un sospiro inframmezzò il terzo
messaggio in segreteria «...tuo padre chiede tue notizie. E le tue
sorelle...» altra pausa «...chiamaci. Ti prego, Kouyou,
chiamaci.»
«Shunsuke.
Manoscritto.»
Ridacchiai.
Il mio manager era sempre molto avaro di parole, in particolar modo
al telefono: a taluni poteva sembrare un essere viscido e mellifluo,
ma era un uomo eccezionale, professionale e totalmente dedito al suo
lavoro, che svolgeva con impeccabile precisione.
Era
stato l'unico, e di questo non avrei mai smesso di ringraziarlo, ad
ignorare la mia perdita. Semplicemente mi aveva inondato di una così
gravosa mole di lavoro che non avevo quasi avuto tempo di pensarci.
E
ciò mi era stato di fondamentale importanza.
Sommerse
il mio vile piano -di cui molto probabilmente aveva sentito il fetido
odore solo a guardarmi in faccia la prima volta che mi aveva visto
dopo la Sua scomparsa- con interviste, apparizioni in tv e
alla radio locale; sapeva che non mi sarei mai permesso di fare
brutta figura in pubblico e sfruttò questa mia vanità per togliermi
dalla testa quel tarlo maledetto.
Il
suo successo fu palese.
La
prima ed unica volta che ripensai al suicido, dopo quella folle
settimana, rimasi talmente spaventato che ingollai tanti calmanti da
rimanerne quasi stordito, riuscendo quasi a raggiungere l'obiettivo
che mi ero prefissato giorni prima e che solo quella sera avevo
totalmente abiurato.
Solo
Shunsuke aveva capito che il reale
motivo di quel mio gesto era stato dettato dal bisogno di spegnere il
mio cervello e smettere di pensare almeno per qualche ora, e non
dalla voglia di togliermi la vita.
Ciononostante
bastò rivedere il Suo volto in una foto, una domenica mattina
in cui, preso dall'impeto dell'ispirazione, cercavo dei fogli bianchi
in un cassetto, perchè mi accorgessi realmente
di averla persa per sempre.
E
così era cominciata quell'atroce serie di incubi, quelle emicranie
da flebo, i pomeriggi prigioniero delle violente fitte che sembravano
squarciarmi il cervello in due, rannicchiato sul mio letto in
lacrime, le apatiche giornate passate a camminare silenzioso e cupo
come un'ombra nel mio appartamento.
Il
cielo era nuvoloso quella mattina.
Lo
osservai con indolenza dalla finestra della cucina, prima di rendermi
conto che erano giorni che non facevo la spesa e che gli spuntini
della rosticceria sotto casa che Shunsuke mi portava quotidianamente
non sarebbero bastati a lungo.
La
carcassa del mio ultimo pranzo rendeva ancora più desolante la mia
cucina.
Con
una flemma che io stesso trovavo snervante
mi spogliai dell'accappatoio e indossai degli abiti puliti,
sciacquandomi poi accuratamente il volto e pettinando con indolenza i
mie lunghi capelli scuri.
A
Maiko erano sempre piaciuti corti.
Io
li avevo fatti crescere dopo la sua partenza.
Febbraio
quell'anno era freddissimo.
Mi
infagottai in un'ingombrante serie di magliette e maglioni, che
coprivano a stento il mio corpo magro e uscii nel gelido abbraccio
invernale.
Sulla
via del ritorno capitai nel parco.
Quel
posto non aveva mai rappresentato altro per me, se non un semplice
giardino pubblico, verde e pulito come lo erano migliaia di altri
luoghi del genere.
Tuttavia
ne conoscevo a memoria la sommità della grande fontana che
troneggiava nel mezzo di quei folti ciliegi. Si vedeva così
nitidamente dalla finestra del mio salotto, anche nei giorni di
nebbia, che avevo perso pomeriggi interi a guardare l'acqua che ne
sgorgava incessantemente; il resto della struttura era coperto dalle
fronde degli alberi, ma la cima era impressa a fuoco nella mia mente.
Mi
prese l'incredibile voglia di vedere la base di quella sorgente;
abbandonai la spesa in mezzo al marciapiede e mi diressi ad ampie
falcate verso l'interno del parco, con la gioia malcelata di un
bambino a Natale.
L'interezza
della fontana era così semplice e sobria da lasciarmi senza fiato.
Feci
qualche piccolo passo indietro, quasi folgorato da quella comune
visione e inciampai nella svolta decisiva della mia esistenza.
-
Aoi -
Ebbi
un attimo di folle smarrimento, quando mi venne addosso.
Abituato
com'ero a camminare costantemente sul filo del rasoio, anche il
minimo colpo di vento mi faceva trasalire, come fossi una timida
fogliolina ancora tenacemente attaccata al suo ramo ma destinata a
venir sopraffatta dal mondo.
«Mi
perdoni, non l'ho vista.»
La
sua voce fu il calore dolcissimo di un fraterno abbraccio.
Cercai
di voltarmi verso dove avevo sentito provenire quella dolce e roca
melodia. Non era sempre molto semplice questo trucchetto per
nascondere la mia natura, ma per qualche istante di convenevoli
bastava largamente. Bastava fingessi di essere distratto, o freddo, o
indifferente, o un cinico bastardo che se ne frega di chi ha appena
urtato e il contatto visivo veniva a mancare. A mio vantaggio.
Perchè
ora non funzionava?
L'avrei
pregato di continuare a parlare finché non avessi indovinato
l'esatta collocazione dei suoi occhi.
Erano
vent'anni che sfioravo timidamente il mio corpo con lo scopo di
costruirmi un mentale modello di essere umano (avevo continuato a
toccarmi timorosamente anche quando mi ero messo con Ryo e lui mi
aveva lasciato libero di servirsi di lui per i miei esperimenti) e
sapevo approssimativamente dove stavano le cosiddette porte
dell'anima.
Ryo
diceva che i miei occhi erano impenetrabili lastre di ghiaccio,
gelose guardiane della mia anima.
«Oh,
non si preoccupi. Neanche io avevo visto visto lei.»
Riusciva,
quell'affascinante e misterioso sconosciuto a cogliere l'ironia nella
mia voce?
Stetti
in ascolto per qualche secondo, pregando gli dei affinché lo
facessero parlare ancora.
«Sì,
mh, okay. Beh, mi scusi ancora.»
Feci
un debole cenno col capo, imponendomi di placare il mio interesse.
Non
si poteva restare affascinati da una voce,
non in quel mondo meschino e corrotto. L'essere umano era una razza
ancora troppo violenta ed egoista perchè ci si potesse fidare
ciecamente del
prossimo.
Ero
arrivato a questa conclusione per esperienza, e l'ultima cosa che
volevo era infatuarmi di una voce come uno sciocco adolescente.
Lo
sconosciuto non mi interessava, per quanto la sua voce
fosse...particolare, graffiata e roca, non me ne importava niente
di lui.
Allora
perchè sentire i suoi passi sulla ghiaia rigare la calma piatta del
parco mi fece così male?
Il
mondo quel giorno era buio.
Di
un buio denso e corposo, come una guaina sigillata che chiudesse al
suo interno ogni cosa.
Il
vento mi sferzava il viso, freddo come l'aria che mi penetrava nelle
ossa. Sentivo i capelli sul volto.
Ryo
mi aveva detto milioni di volte che i miei capelli avevano il colore
dell'inchiostro e la stessa densa consistenza. Dell'inchiostro io
sapevo solamente che era liquido come l'acqua e che aveva lo stesso
colore delle tenebre.
Colore,
anche questo concetto mi era piuttosto astratto.
Ryo
diceva che il nero era il colore del buio.
Avevo
i capelli dello stesso colore del buio in cui ero avvolto? O Ryo
stava minimizzando? Conosceva veramente Il Buio? Quello che
lui chiamava “buio”, quando il suo Sole
tramontava, era lo stesso in cui la luce non era mai e mai sarebbe
arrivata? Era la stessa campana di piombo che mi avvolgeva da ormai
ventotto anni?
Avevo
smesso da mesi, ormai, di fidarmi di lui.
Per
quanto la cosa mi rendesse partecipe del mio triste, doloroso e
completo isolamento, non
potevo, non riuscivo a fidarmi di lui.
Sentire
la sua voce distorta in quella maniera dopo un anno mi aveva
semplicemente annientato.
Fu
l'unica volta in tutta la mia vita che ringraziai gli dei di avermi
fatto nascere cieco. Sarei morto di dolore se li avessi visti
abbracciati. Morivo ogni giorno a sentire
le loro mani intrecciarsi, le loro pelli sfregarsi; non so quante
volte avevo pregato di tornare indietro nel tempo, di tornare al
giorno in cui avevo timidamente chiesto a Ryo di accompagnarmi in
clinica per rimediare al mio errore: non gli avrei chiesto di
accompagnarmi e l'avrei lasciato prima di entrare nei melmosi
acquitrini di sofferenza in cui ero invischiato da circa due anni.
Sentirli
sospirare l'uno nelle labbra dell'altro, sentirli gemere l'uno il
nome dell'altro...mi stupivo io stesso di non essere svenuto dal
dolore.
Appena
fuori casa, tirai un respiro profondo. Tesi la mano verso sinistra,
dove sapevo -sapevo,
non vedevo- esserci lo steccato e lo afferrai, gioendo nel sentire le
schegge in rilievo solleticarmi il palmo.
Una
serie di fortunate coincidenze mi condusse al parco quella mattina.
Il
semplice afferrare lo steccato alla mia sinistra non fu così banale
come si può supporre: sarebbe bastato non trovarlo perchè tutta la
sicurezza che provavo si accartocciasse sotto il peso del terrore
che provavo verso il buio che popolava la mia vita fin da quando
avevo memoria.
Un
particolare modo di aver paura che avrebbe cancellato in un sol colpo
tutta l'angoscia che mi opprimeva; non ci avrei messo niente a
tirarmi indietro, appoggiare la schiena alla porta e aspettare al
buio che qualcuno si accorgesse della mia mancanza.
Era
la prima volta che uscivo di casa senza qualcuno. La prima in
ventotto anni.
Beh,
certo, se non si contava quella volta in cui avevo raggiunto il parco
assieme ad Aiko.
Scesi
gli scalini con una lentezza che chiunque avrebbe definito
esasperante, ma che nessuno avrebbe mai riconosciuto come panico.
Mi
sforzai infine di richiamare alla memoria l'esatta collocazione delle
strade, la sequenza di destra-sinistra-dritto
che avevo percorso assieme ad Aiko quasi undici anni prima. Non mi
era molto difficile. Non avendo la mente ingombra di milioni
e milioni di immagini giornaliere, potevo vantare un ottima memoria
anche per i dettagli più insignificanti, che conservavo gelosamente
fino all'ultimo.
Riconobbi
immediatamente il parco dove avevo incontrato Ryo la prima volta.
L'odore
di ciliegi era quello e ricordavo alla perfezione lo scrosciare
dell'acqua della piccola e muschiata fontanella.
Sorrisi.
Undici
anni che non mettevo piede in quel luogo e mi sembrava di averlo
visto solo il giorno prima.
Chissà come mai io e Ryo non
ci eravamo più tornati dopo quel giorno.
«Hai
davvero un bellissimo cane!»
Ryo,
perchè mi hai abbandonato?
«Cos'hanno
i tuoi occhi?»
Io
mi fidavo.
Eri
l'unica persona alla quale potevo chiedere aiuto senza temere che
questa mi ingannasse. Neanche della mia famiglia mi fidavo tanto.
«Lascia
che sia la tua luce.»
Ricordavo
la presenza di alcune panchine nel parco, e quando avvertii il loro
corpo metallico sotto alle dita quasi piansi dalla commozione.
Le
circumnavigai con attenzione, una mano tesa nel vuoto: non avevo
paura, ero certo che ci avrei trovato la nostra casa.
Il nostro albero era lì, la sua corteccia ruvida e dura non aveva
ceduto alle lusinghe del tempo.
Avevo
diciannove anni quando Ryo ci aveva scritto sopra i nostri nomi,
prendendomi una mano e facendomi sentire coi polpastrelli l'intaglio
nei nostri ideogrammi.
Gli
unici che avevo mai imparato in tutta la mia vita.
Se
mi avessero dato in mano una penna, avrei tracciato al buio i nostri
nomi come lui li aveva incisi sulla corteccia di quel vecchio albero.
Posai
le dita su quella ferita d'amore.
Poi
gli voltai caparbiamente le spalle, aggirai la panchina e venni
travolto in pieno dalla svolta decisiva della mia esistenza.
Continua...
Note
di Mya:
Due
paroline su questa nuova creaturina le devo assolutamente spendere.
Innanzitutto
devo scusarmi con BlackAngel.
Non
so se lo sapete, ma aveva
(...ha? Sta? °-°) scritto una fic con una tematica molto simile (si
chiama “Taste - Il suo sapore” e la trovo semplicemente
meravigliosa); personalmente la considero una scrittrice come poche,
semplicemente eccezionale, perciò mi sentivo quasi in colpa a
scrivere questa fic.
Anyway,
voglio sperare che nessuno consideri questa Fiction un plagio. È
stata partorita dalla mia mente, non ho fregato idee a nessuno,
solamente gli argomenti sono simili a quella scritta da BlackAngel.
Le avevo anche scritto una mail per avvertirla/chiederle il permesso,
ma forse non l'ha ricevuta. O forse la leggerà dopo. Sarebbe stato
più corretto attendere una sua risposta, ma non stavo più nella
pelle, spero mi perdonerai anche questo ^^
Ad
ogni modo, spero che non la infastidisca: la considero una fra le
migliori scrittrici del fandom (e non sono tante le persone iscritte
all'albo delle eccellenze, qua dentro) e non vorrei mai
che la prendesse come
un'offesa.
Anche
perchè, rileggendo quell'unico e doloroso capitolo, non credo di
essere capace di raggiungere un livello simile e quindi veramente
competere con quella meraviglia.
In
secondo luogo, la dedica.
Bene,
questa long è e sarà, dalla prima all'ultima virgola, di proprietà
di Aelite.
Ma
andiamo con ordine. Ricordate vero, quella piccola meraviglia di
“Snow Scene”?
Questa
è la sua controparte.
Dal
momento che se aspettiamo la shot Aoi-Uruha che mi aveva chiesto lei
stiamo freschi come surgelati, le offro in ringraziamento (come se
davvero sperassi di poterla far bastare) quest'idea che è lì da
mesi e che prima era destinata ad un altro fandom e che poi, dopo
aver adottato questo fandom
come secondo famiglia, avevo associata ad un gazepairing diverso.
Insomma, l'idea c'era, il resto l'ho costruito attorno ad Aelite,
tenendo conto dei suoi gusti e delle sue preferenze.
Per
quanto sia convinta che si scriverà praticamente da sola, visto che
è quasi un anno che sogno di scriverla, non prometto nulla riguardo
le tempistiche di aggiornamento. Al contrario di qualcuno
a caso
che scrive come un fulmine, io già sono lenta di mio, figuriamoci
con la catastrofica situazione scolastica che mi si para davanti al
naso. Quindi, in ultima analisi, abbiate pazienza.
Un'ultima
cosa.
Io
considero Uruha una persona inscrittibile.
Aelite sa di cosa parlo.
Non
sono capace, niente da fare. Ogni volta che devo scrivere di lui o
dal suo punto di vista mi viene il panico, al contrario di Ruki che
ormai ho adottato come protagonista-tipo delle mie fics (infatti era
lui l'iniziale protagonista di questa long).
E
ci sta che me le vado pure a cercare, dal momento che in questa
Fiction gli ho affibbiato un carattere a dir poco contorto.
Devo
ancora capire cosa esattamente in quell'uomo mi crei tanta
difficoltà, ma prometto di cercare di rimediarci. Nel frattempo,
abbiate pazienza (e due).
Il
titolo, Yami no
Hikari,
significa
letteralmente “La Luce dei Buio”.
Ringrazio
affettuosamente Jo-hime per l'aiuto *strizza*
Un'ultima,
microbica cosina.
Se
andate a vedere (magari utilizzando un documento di testo e non
contando ogni singola parolina come stavo facendo io prima che chichi
mi illuminasse sui miracoli di OpenOffice) vi accorgerete che in
questo prologo ci sono 1180 parole per Uruha e 1180 parole per Aoi.
Non
c'è nessun significato particolare, era solo uno sfizio che volevo
togliermi e che mi impegnerò per tramandare anche ai capitoli
successivi, per i quali prevedo la stessa divisione in due PoV.
Non
dico altro, altrimenti finisco con lo svelare metà della trama: mi
conosco anche fin troppo bene u.u
Fatemi
sapere che ne pensate.
Un
bacio,
Mya
|