I'm coming up for air
Attenzione: il presente scritto ha come protagonisti persone
realmente esistenti e vicende di pura fantasia. Non vi è alcuna pretesa di
verità o verosimiglianza. Nessun diritto legalmente tutelato s’intende leso.
Nessuno scopo di lucro. Nessun intento di offesa nei confronti dei soggetti
citati. Tutti i diritti riservati spettano ai loro titolari.
Partecipante al "Dodici Mesi di Fedeltà" Contest
Oh! come è diventato difficile fare la scrittrice! Però è sempre bello riempirsi la bocca di
termini inappropriati!
Note dell’autrice in fondo alla pagina.
Con affetto.
Vostra Nai…
Dedicata ad Erisachan e Keiko.
Loro sanno perché.
I’m coming up for air…
Nella vetrina il
suo riflesso non aveva colore. Il viso era stanco lo stesso, però, stanco e
tirato come se fossero giorni che non dormiva o mangiava decentemente.
Beh, il problema
non era quello. Non gli mancava il sonno, non gli mancava l’appetito e sua
moglie era sempre stata brava e pronta a farlo sentire come un re quando a casa
lo coccolava di ritorno da viaggi lunghi mesi.
Quello che
mancava al riflesso traslucido nel vetro era ciò che stava dall’altra parte
della vetrina. Sopra uno scaffale. Insieme a nove piccole scatole tutte simili
tra loro...per la precisione proprio sopra il numero “4” segnato in rosso su un
cartellino di cartone spesso. Non era una gran cosa, quella che gli mancava,
era solo una piccola confezione quadrata, blu, con l’immagine di un’eclissi in
nero ed un titolo in bianco.
I’m coming up
for air.
E pensare, si
disse Steve Hewitt sorridendo, che era un pezzo che non arrivavano così in alto
nelle classifiche di vendita inglesi.
Mani nelle
tasche, cappello calato sugli occhi, si voltò per tornare lungo la strada che
aveva già percorso.
***
Brian respirava.
Non era una cosa da poco e questo comportava che gli desse molto fastidio il
fatto che tutti, lì intorno, fossero certi del contrario e gli rendessero
l’operazione immensamente più complicata. Sì che lui ci si era messo d’impegno
ad ignorarli, peraltro; seduto nel suo angolo, in aeroporto, sfogliava
malamente le pagine di una rivista in francese ed ogni tanto gettava occhiate
raggelanti al proprio batterista, tutto preso dall’urtante attività di
richiamare quanto più possibile l’attenzione su di sé con schiamazzi e risate
sguaiate. All’ennesima battuta entusiasta che scappò al ragazzino, Brian non ce
la fece più. Chiuse la rivista con uno scatto e la buttò sulla sedia di fianco
a sé, prontamente lasciata vuota dall’intero entourage che sapeva ben interpretare
le sue espressioni e capire quando era utile rispettare la “fascia di sicurezza
Molko” evitando di entrare nel suo spazio vitale senza preventivo permesso
scritto.
-Portalo fuori.-
ordinò il cantante in tono basso, voltandosi a Stefan che gli sedeva di lato,
un paio di poltroncine più giù verso l’ingresso.- Fagli fare un giro, portalo a
fare pipì nelle aiuole di fronte, compragli un osso, ma levamelo da davanti o
lo ammazzo e rimando il suo cadavere a pezzi a Los Angeles.- suggerì
freddamente.
Stefan gli
lanciò un’occhiata da sopra l’orlo dei Ray-Ban ma non disse nulla e non si
mosse, aspettando che un’illuminazione divina suggerisse al cantante che tra
venti minuti massimo sarebbero stati su un volo diretto in Inghilterra e che,
comunque, portare Steve in giro per l’aeroporto tra fan e giornalisti a caccia
di foto non sarebbe stata una buona idea visto che era visibile come una
cocorita in un pollaio. L’illuminazione divina raggiunse la mente del cantante,
peraltro, perché sbuffò ma non reiterò la richiesta e si limitò ad agitarsi
impaziente sulla sedia mentre Steve sbraitava – in modo alquanto volgare tra
l’altro – il proprio apprezzamento per le gambe di una delle hostess che
stavano passando in quel momento davanti la porta a vetri della sala di attesa
VIP.
-Lo ammazzo.-
ribadì Brian spiccio, posando la fronte sulla mano e massaggiandosi leggermente
le tempie per contrastare il mal di testa incipiente che avvertiva.
-Brian.- lo
richiamò Stefan pacato, peraltro nuovamente intento alla stessa identica
occupazione che lo stava impegnando prima che l’amico cercasse la sua
attenzione. E cioè studiare annoiato le funzioni del proprio cellulare.
Brian gli scoccò
un’occhiataccia in tralice, accavallando le gambe ed odiando tutti i divieti di
fumare che colonizzavano le pareti di quel postaccio. Stefan non lo guardò, ma
avvertì il suo astio nervoso con l’empatia che ormai caratterizzava ogni loro
iterazione e sollevò di nuovo gli occhi, mettendo contemporaneamente via il
telefono nella tasca del giubbotto di pelle.
-Rilassati.- lo
rimproverò quieto come sempre.
Il cantante
sbuffò, storcendo il naso in una smorfia da ragazzina annoiata e posando il
mento sul palmo aperto della mano giusto per voltargli il viso e non
ricambiargli lo sguardo.
-Come diavolo abbiamo fatto a prendere un
moccioso nella band?!- sbottò all’improvviso, acido e velenoso come una vipera.
Stefan sospirò,
sollevandosi lentamente in piedi e sistemando la giacca.
-Porto Steve a fare
un giro.- concesse dopo una rapida valutazione dei pro e dei contro delle
situazioni che gli si prospettavano davanti.
Brian ghignò un
sorriso soddisfatto che il bassista gli avrebbe volentieri fatto rimangiare a
schiaffi, ma ebbe la decenza di non dire niente e l’altro preferì ignorarlo ed
avvicinarsi al proprio batterista un istante prima che quello si mettesse ad
importunare un distinto signore in giacca che gli sedeva accanto e lo fissava
terrorizzato già da un po’.
Brian si
rilassò. Gli bastò vedere le porte a vetri richiudersi silenziose dietro i due
e buona parte del fastidio che provava – e del suo mal di testa – scomparve.
Aveva le sue
ragioni per essere nervoso, del resto! Cazzo, odiava dover correre da un lato
all'altro del mondo a quella maniera, odiava
dover passare più tempo su un aereo che con i piedi ben saldi a terra. Odiava gli aerei! La circostanza - che Alex gli aveva già fatto notare
svariate volte - che fossero un male necessario per chi svolgeva un lavoro come
il suo non lo sfiorava affatto; quello era uno di quei momenti in cui gli
piaceva credere che «lavori come il suo» valessero esclusivamente a dargli dei
diritti e nessun onere. Fatto sta che se voleva tornare in Inghilterra gli
toccava salire su un aereo. Ciò pertanto, aveva tutte le sue ragioni per essere
nervoso. E non volere una cocorita starnazzante attorno!
Alex rientrò
nella saletta VIP girando uno sguardo circolare e sorpreso e realizzando
velocemente l'assenza di buona parte della band che aveva il compito di
amministrare; si concentrò sull'ultimo componente in vista e lo fissò con la
propria espressione più genuinamente interrogativa.
-Oh, saranno in
bagno a scambiarsi effusioni sulla tazza di un cesso.- mentì Brian
disinvoltamente ed in tono flautato.
Alex sospirò, lasciò
cadere la borsa sulla poltroncina di fianco al cantante ed il giubbotto su
quella accanto e scoccò una seconda occhiata scettica al proprio
interlocutore.In tanti anni di rispettabile carriera come manager dei Placebo
aveva sviluppato una certa familiarità con la “fascia di sicurezza Molko” e gli
attacchi di bile del cantante avevano smesso da un pò di intimorirla. Sapeva
leggerci attraverso con una certa facilità, per la verità.
-Che diavolo hai
combinato?- chiese, cercando sui visi del resto della troupe la conferma alla
propria intuizione.
Brian si
accigliò.
-Li ho
mangiati.- scandì velenosamente.
-Brian...-
iniziò la manager con pazienza.
Ma aveva
decisamente superato il livello di guardia ed il bruno scattò in piedi con un
movimento secco, cacciando una mano in tasca e l'altra sulla testa. Sfilò le
sigarette dal giacchetto, inforcò gli occhiali da sole e svicolò a destra della
donna per raggiungere a falcate larghe e nervose l'uscita della saletta.
-Ma che
diavolo...?!- si lasciò scappare Alex, mani ai fianchi e sguardo fisso alla
schiena rigida dell'altro, in rapido allontanamento.
***
A Brian Molko le
ricorrenze non piacevano. Avendo avuto una vita sufficientemente complicata per
gran parte della propria esistenza - e questo al di là del facile schermo che
il successo, una buona dose di ricchezza ed una discreta fama possono creare
tra te e la visione di te che ne hanno gli altri - non era il genere di
individuo a cui piaceva vivere nei ricordi. Anzi. Anche nella musica era uno
che superava le cose e tirava avanti. Aveva tirato avanti in talmente tante di
quelle situazioni, risollevandosi invariabilmente ogni volta che la gente
attorno a lui lo dava per spacciato, che anche le cronache in note che redigeva
e pubblicava con la band gli diventavano indifferenti non appena il momento che
le aveva generate scivolava abbastanza lontano da lui. Quindi decisamente non
era uno che facesse troppo caso alle ricorrenze.
A volte arrivava
all'assurdo di dimenticare anche il proprio compleanno, tanto che dovevano
essere Helena o Stefan o Alex a rivolgergli uno squillante “Tanti auguri!” che
lo lasciava interdetto finché non si girava verso il primo calendario a
disposizione e realizzava che era il 10 Dicembre, un'altra volta. Del resto,
non amava troppo nemmeno invecchiare e, quindi, non era particolarmente felice
neppure della sollecitudine della sua compagna o dei suoi amici nel ricordargli
che era un male a cui non poteva proprio mettere rimedio.
In certi casi,
si era reso conto con il tempo, era lui stesso a voler dimenticare le cose,
comunque. Quando doversele ricordare era oggettivamente troppo fastidioso - di “dolori” Brian Molko si
rifiutava di ammetterne nella propria vita, non dava abbastanza importanza alle
cose (quelle diverse da lui, s'intende) da potersi riconoscere ferito da queste
- ed allora era molto più semplice rimuoverle ed impegnare la testa con altro.
C'era sempre qualcosa di più urgente e più serio che non riflettere. Riflettere
era un'attività da concedersi solo quando di spazio nella mente - e nello
stomaco, da qualche parte - non ce n'era più a sufficienza e si doveva per
forza tirare fuori qualcosa e metterlo su carta.
Tuttavia, anche
se c'erano ricorrenze che non ricordava - o perché non gli interessava o perchè
non voleva interessarsene - quelle
arrivavano invariabilmente ogni anno. Perfino quando, come in quel caso, non
erano nemmeno così distanti nel tempo da meritare una qualche celebrazione e
perfino quando - come in quel caso - aspettarsi una celebrazione proprio da lui
era ridicolo e vagamente pretenzioso. Fatto sta che per l'ennesima volta i suoi
amici avevano manifestato in modo abbastanza evidente che un'altra ricorrenza
scomoda era arrivata invariabile.
Ricorrenza, magari, era un termine un pò
ampolloso.
Però era il 14
Febbraio del 2006 quando tutto era cominciato.
Aspirò il fumo.
Era già da un pò che guardava dritto davanti a sè, attraverso la lente scura
degli occhiali, un mondo che era dello stesso colore della cenere. Un pò come
se la sigaretta bruciando si fosse portata via anche la consistenza materiale
di una realtà che non riusciva ad interessarlo. Brian Molko non voleva pensare,
e mentre ostinatamente svuotava la mente, erano proprio i pensieri ad
accavallarsi, l'intuizione empatica del motivo per cui Alex o Stefan quel giorno
non lo assecondassero come avrebbe voluto o del perchè tra i tecnici
serpeggiasse quel malumore depresso e deprimente che lo irritava dal profondo.
Per certi versi la stessa intuizione si spinse ancora più in là, ma Brian la
fermò molto prima che potesse decifrare la matrice esatta di quell'irritazione.
Espirò il fumo
in faccia ad una vetrina in cui una ragazza bruna, magrissima e strizzata in un
abitino di dimensioni da bambola scompariva in mezzo ad un profluvio rosa di
pupazzi di peluche, sembrava lei stessa un giocattolo fuori misura che un padre
ricco avrebbe comprato per la preziosa figlioletta annoiata di ritorno da un
viaggio di affari all'estero. Brian era un esperto di regali di quel tipo,
avevano colorato tutta per intero la sua infanzia lussemburghese fatta di
assenze del padre e di ritorni di cui perdeva in fretta la cognizione. Forse era
per quello che non soffriva poi troppo a dover partire e lasciare a casa la
propria donna, se lui era sopravvissuto benissimo non dubitava che suo figlio
stesso avrebbe tratto giovamento da quella distanza.
-Oh Dio, pa'!-
cinguettò rapida una voce al suo fianco.
Brian trasalì in
modo istintivo, quel tono squillante, incerto per l'età ancora indefinita di
una preadolescente, non gli riusciva abbastanza anonimo e, se pure avrebbe
preferito continuare a credere che fosse solo l'abitudine a mille ed una voci
tutte simili a farglielo dire, la verità era molto più scomoda. Ed anche più
assurda.
Nel sopprimere
sul nascere un sorriso arrabbiato, si nascose dietro la sigaretta, tenendo il
viso fisso alla vetrina e cercando mentalmente la strada più veloce per una fuga
dignitosa.
-Guarda com'è
bello quell'orso!- continuò la voce in modo impietoso, soprattutto perchè a
questo punto arrivò anche una figurina mora, dai capelli lunghi e le gambe
lunghissime, a darle un viso che aveva fin troppo di familiare.
Brian sospirò,
la sua rassegnazione divenne evidente ancora prima di sentire una seconda voce,
calma e bassa, rispondere in tono divertito.
-Sì, Emily, è
bellissimo, ma tua madre potrebbe uccidere entrambi se ci presentassimo da lei
con quell'affare in braccio.
La delusione
della ragazzina era così evidente mentre schiacciava il musetto infantile al
vetro che Brian se ne sentì nonostante tutto intenerito e stupidamente pensò
che, forse, a due anni di distanza, alle cose si potesse mettere un punto fermo
e ripartire da lì.
-Non penso che
questo dovrebbe davvero fermarti, Emily.- le disse sorridendo a mezzo.
Ad essere onesti
non sapeva nemmeno lui cosa avesse cercato. Forse solo di instillare nella
piccola la vena polemica di una rivoluzione acerba contro l'istituzione familiare.
Quasi sicuramente di ricevere una qualche reazione dall'uomo alle proprie
spalle.
Ma arrivò prima
quella di lei. I bambini ci mettono davvero poco a dimenticare le ricorrenze,
meno dei genitori in realtà.
-Brian!- esclamò
sgranando gli occhi e, nonostante tutto, Brian si trovò a riflettere che
somigliavano a quelli di suo padre anche nella cenere incolore che percepiva da
dietro le lenti degli occhiali da sole.
Li tolse
comunque.
-Ehi,
principessa.- la salutò con un sorriso decisamente più sincero, piegandosi a
stringerla per poterle dare un bacio sulla guancia morbida.- Come sei
cresciuta, signorina!- le concesse lusinghiero.
Lei gli si
appese addosso con l'entusiasmo disinteressato della sua età, strillando la
propria gioia nel dondolare attaccata alle sue spalle e Brian rise, tenendola
su per la vita ed assecondandola nel suo gioco.
Poi l'altro uomo
si spostò nel loro campo visivo.
-Ciao, Brian.
Lui non aveva
tagliato i capelli, erano lunghi come lo erano sempre stati, la stessa aria
trasandata e sciatta di sempre, lo stesso sguardo spento, come se non gli
importasse davvero di nulla, le mani infilate nel cappotto enorme, nessuna
espressione sul viso se non un leggero fastidio ed un'attesa di cui Brian aveva
difficoltà a capire il senso. Rimise a terra Emily, staccandosi gentilmente dal
suo abbraccio per raddrizzarsi di fronte all'altro; la plastica di sempre,
quella della convenienza, tornò a rivestire il suo sorriso ed i suoi modi con
l'efficienza impeccabile di svariati anni di allenamento.
-Ciao, Steve.-
ricambiò lasciando trasparire solo una punta dell'ironia con cui avrebbe
preferito rivolgerglisi.
Anche se le
battute acide rimasero solo in sospensione tra loro, entrambi le avvertirono
con la stessa ferocia e giunsero alla stessa conclusione circa l'opportunità
che quell'incontro casuale non si fosse mai verificato.
Ma il caso è un
gioco che non scegli.
***
Emily si era
fatta convincere in fretta. Era bastato un orso di peluche, un bacio e mille
rassicurazioni sul fatto che sarebbe andato a trovarla quanto prima. Sua madre
aveva fissato il marito e Brian mentre gliela restituivano, il silenzio fin
troppo denso del primo e la parlantina di circostanza del secondo ripetevano
uno schema che in passato le era diventato familiare. Non ci badò, accolse la
figlia e recepì le raccomandazioni del compagno con la stessa tranquillità
serena che aveva imparato a sfoderare davanti alle peggiori tempeste. Non era
mai stato un rapporto sereno quello all'interno dei Placebo, tra Steve e Brian,
non si erano mai affrontati se non su un piano di parità, ed anche prima che
tutto degenerasse quel particolare da solo bastava a creare scoppi di bufera
improvvisi i cui effetti si protraevano per giorni e giorni.
Loro due si
erano allontanati subito dopo. Brian aveva ricambiato il saluto a mano aperta
che Emily gli rivolgeva da lontano e Steve aveva storto il naso alla scena ma
si era astenuto dal commentare finché l'altro non aveva riso di lui ed aveva
preteso quello stesso commento. Erano già in vista del bar, Steve si mise a
sedere al bancone e Brian si arrampicò sullo sgabello di fianco al suo.
-Vorrei capire
come fai a farli innamorare tutti di te.- confessò il primo con forse un po’
troppa amarezza a colorare la frase.
Brian si chiese
comunque se fosse una domanda, per quanto retorica, o l'ennesima critica che
doveva lasciarsi scivolare addosso. Ma in fondo non è mai un bene lasciarsi
scivolare addosso le parole di qualcuno di cui ci importa ancora.
-Semplice. Mento
sempre.- rispose, quindi.
Steve si lasciò
scappare un sorriso che non mostrava nessuna gioia e Brian si voltò ad ordinare
caffè per entrambi in un francese come sempre splendido, perfino con
quell'accento che di francese aveva ben poco.
-Le hai portate
a Parigi per San Valentino!- riprese il cantante in tono ammirato.- Pensa, io
invece sono qui il giorno del compleanno della madre di mio figlio...
-Non sei mai
stato bravo con queste cose.- gli ritorse Steve senza cattiveria.
Brian annuì.
-Helena, grazie
a Dio, non lo considera importante.- commentò subito dopo.
-Helena ha
imparato a non considerare importante niente di quello che non poteva
aspettarsi da te.- fu la battuta decisamente meno gentile che seguì
quell'affermazione.
Non fosse stato
per la verità intrinseca di quelle parole, probabilmente Brian avrebbe reagito
in modo ben diverso dalla risata educata che si concesse e che soffocò dietro
il dorso della mano nell'appoggiarsi con i gomiti al bancone. Non si preoccupò
di replicare, in ogni caso.
-E voi? come
va?- si sentì chiedere.
Fu un po’ il fatto
che quella domanda fosse stata “sofferta” - il tempo passato tra il silenzio di
Brian e l'arrivo di due caffè neri ed odorosi era stato scandito con precisione
dal brusio del televisore che aveva apparentemente catturato l'attenzione di
entrambi - ed un po’ il fatto che, quando arrivò, fu decisamente priva di
troppe cose e decisamente piena di
tante altre...un affetto neanche troppo velato ed una curiosità che non
riusciva invandente per nulla. Brian ci mise un attimo a mettere a fuoco di
cosa Steve gli chiedesse.
Perchè andava
alla grande. I Placebo erano in vetta alle classifiche come era successo solo
in passato, all'indomani di un esordio che era stato tanto musicale quanto spettacolare, avevano riconoscimenti dai
fan, dai critici, dal mondo intero. Erano ovunque in un modo in cui Steve aveva
sempre sperato di esserci quando ancora suonava con loro. Quindi andava alla
grande ed era anche sotto gli occhi di tutti.
Per cui non era
di quello che stavano parlando.
E siccome a
Brian le domande scomode non piacevano nemmeno se “dall'altra parte del
microfono” c'era un...amico di sempre,
si ritrovò comunque a nicchiare ed a cercare di nuovo, per la seconda volta in
un'unica giornata, una via di fuga da una situazione fastidiosa e decisamente
troppo impegnativa.
-Il nuovo è un
gran casinista.- commentò apatico prima di avvicinare il caffé alle labbra.
Steve rise e
Brian seppe di essere stato scoperto. Sorridendo nel posare la tazza, si disse
che era anche normale che fosse successo e non riuscì ad arrabbiarsi come
avrebbe voluto.
Il 14 Febbraio
del 2006 l'album stava per uscire. Cody era nato da poco e Brian era convinto
che la sua storia con Helena fosse ad un passo dal solito finale tragico a cui
il copione di sempre lo aveva abituato. I suoi genitori gli ripetevano in
continuazione che non sarebbe mai stato davvero in grado di tenersi stretto
qualcosa, di realizzare qualcosa, e si sa che alla fine, a furia di sentirti
ripetere un concetto, finisci per convincerti che sia davvero così e ti arrendi
alla comodità di una routine quasi imposta che il tuo subconscio adotta in
automatico. Helena, per certi versi, non aveva fatto eccezione, quando il gioco
era diventato troppo impegnativo, quando il suo “sono incinta” aveva preso la consistenza urlante e scalciante di un
moccioso di poche ore, Brian aveva sentito con precisione quel seccante prurito
alle mani che preannunciava il bisogno immediato di nicotina e quello, mediato,
di aria nuova. La differenza, se
c'era stata, era passata tutta per lei, per Helena, per la sua ostinazione di
donna adulta e consapevole che compie le proprie scelte solo dopo averle ben
ponderate. Lo sapeva, nel farsi ingravidare, di starsi infilando da sola con la
testa in un cappio, quindi aveva preventivato l'idea di restarci soffocata ed
aveva valutato l'opportunità di rischiare.
Fatto sta che in
quel momento Brian non poteva saperlo. Tutto ciò che lui avvertiva era il
bisogno di tagliare per l'ennesima volta un legame che si era fatto
eccessivamente stretto ed i cui contorni non riusciva ad afferrare appieno, ed
avevano un bel dire Alex o i ragazzi che era “stupendo vederlo con Cody in braccio! Brian sembra tanto felice!”,
la verità era che ogni sacrosanta volta in cui qualcuno gli chiedeva di quel
marmocchio lui pensava solo “e che cazzo ne so? mica mi appartiene!”.
Non erano
pensieri che gli rendessero merito - fosse stato uno che del merito se ne
fregava qualcosa - e cosa ben peggiore erano pensieri - ed eventi - che si innestavano su qualcos'altro. Un qualcosa che
aveva preso il via già durante la stesura di “Meds” ma che tutti loro avevano
voluto rimandare a quando fossero stati più tranquilli per poter valutare bene
di cosa si trattasse. Ed in realtà, come inevitabilmente deve succedere in
questi casi, avevano solo rimandato lo scoppio al momento in cui avrebbe fatto
più danno.
Il 14 Febbraio
2006 tutte queste cose si erano concatenate assieme in un calderone in
ebollizione di tensioni, che aveva accompagnato come fuochi d'artificio pronti
ad esplodere l'inizio della festa di compleanno più grandiosa che la mente di
un partner annoiato ed in crisi tardo-adolescenziale potesse escogitare per
rendere degna gloria alla madre di suo figlio. Brian ci aveva tenuto a ribadire
centinaia di volte, nel corso delle settimane precedenti, che doveva essere un
party fantastico, di quelli da lasciare tutti di stucco; ci aveva tenuto a
ribadire che avrebbero dovuto esserci proprio tutti e che non si sarebbe dovuto
badare a spese; ci aveva tenuto a ribadire talmente tante cose che, non fosse
stato lui ed Helena non fosse stata ben conscia di come fosse lui, sarebbe stato strano che poi si fosse
disinteressato del tutto di vedere come le sue disposizioni venivano eseguite e
la festa prendeva forma. Anche se non poteva sapere che gli splendidi orecchini
di brillanti che aveva già avuto in dono erano frutto del buon gusto di Alex -
un occupatissimo Brian l'aveva praticamente costretta ad andarli a comprare per
lui adducendo mille ed una scuse sul mixaggio della x canzone nuova, possibile
primo singolo (e poi ne avevano scelta una completamente diversa, Steve se lo
ricordava ancora) - Helena era abbastanza sveglia da accogliere l'arrivo della
mattina del proprio compleanno con la disillusione tipica delle donne
intelligenti e da rivolgere ad un compagno che si apprestava ad uscire per
andare a lavoro la raccomandazione semi-ironica di non dimenticarsi del party
da lui stesso “organizzato”. Brian le aveva scoccato un'occhiata scettica da
sopra una spalla e poi aveva deciso di non cogliere ed era uscito.
Fatto sta che il
vecchio detto secondo cui “il buongiorno si vede dal mattino” si era rivelato
vero per l'ennesima volta.
Alla festa aveva
finito per prendersi una sbronza colossale. Era bastata un'allusione di troppo
da parte di qualche amico, un intervento a sproposito dei suoi genitori che
chiamavano per sapere come stessero Helena ed il bambino, lo sguardo un pò
troppo ansioso di suo fratello che Alex aveva lasciato s'imbucasse alla festa
senza chiedergli prima se avesse voglia di vederlo. Brian aveva iniziato a bere
un bicchiere dietro l'altro con la consapevolezza di stare solo cercando la
scusa per allontanarsi da lì. Helena era bellissima, i brillanti di Alex la
facevano risplendere come fosse lei stessa un gioiello e Cody, conteso dalle
braccia di baby-sitter ed amici da qualche parte nel salone, era il più bel
bambino del mondo con i vestiti azzurri da principino delle favole e quegli
occhioni enormi che sorridevano sempre a tutti. Lui aveva voglia di vomitare.
-Brian.- lo
aveva investito a quel punto la voce di Steve, proprio mentre cercava di uscire
fuori in terrazza a fumare in pace.
Si era voltato,
registrando per prima cosa l'arrivo a ruota di Stefan dietro il batterista e
per seconda l'occhiata di Alex dal fondo della sala, che preannunciava
chiaramente anche il suo, di arrivo, a breve.
-Dobbiamo
parlare.- aveva scandito Steve ignorando il resto.
Stefan era
nervoso, Brian lo aveva percepito immediatamente.
-Beh, vi spiace
se andiamo fuori?
Visto il plurale
nella domanda, Steve si era voltato ad incrociare gli occhi dello svedese, ma
non era parso particolarmente felice che fosse lì.
-Non sperare che
me ne vada.- aveva affermato Stefan rapido, a togliere al batterista qualsiasi
possibilità di obiezioni sul punto.
Brian aveva
ritenuto il discorso chiuso ed era uscito per primo in terrazza.
***
-Questo caffé fa
schifo.- Steve rimise giù la tazza con una smorfia in accordo alla frase e si
voltò a guardarlo ancora.- Come mai da queste parti?- gli chiese con
un'innocenza che lasciò Brian senza fiato.
Poi ragionò sul
senso della domanda - che più che altro significava “sei solo o sei qui con gli
altri per un concerto?” - e recepì quello che Steve non aveva detto ad alta
voce: per quanto fosse informato su di loro, no, non passava il proprio tempo a
leggere in internet ogni notizia utile per sapere sempre dove/cosa/perchè
stessero facendo. Sorrise.
-Abbiamo avuto
un paio di show ieri e l'altro ieri. Ce la stiamo prendendo comoda per tornare
a casa, ma volevo arrivare entro sera per dare ad Helena il mio regalo.-
confessò pianamente.
-Cosa le hai
preso?
Brian ridacchiò.
-Sono rimasto
sul banale.- ammise.- Gioielli...e un profumo nuovo.- scrollò le spalle come a
negare alla cosa l'importanza che avrebbe meritato. In realtà sperò di
prevenire una seconda battuta che potesse fare leva sulla rassegnazione di
Helena alle sue cattive abitudini.
Steve però non
aveva intenzione di infierire.
-Poco tempo per
pensarci, eh?- gli disse invece, con quella complicità tipica di maschi
«sposati» che cercano di far felici le proprie mogli incastrando questo lavoro
con quello più redditizio che dà da mangiare alle loro famiglie.
Era un concetto
talmente ridicolo che scoppiarono a ridere praticamente all'unisono.
-Beh,
comunque...va tutto bene.- si decise a rispondere Brian, sentendosi
improvvisamente meno indisposto nei confronti di un incontro scomodo
organizzato da un Caso un pò troppo «attento» alle ricorrenze.
-Ci speravo-
ammise Steve con un sorriso sincero.- Ve lo meritavate, tu e Stefan.
-E tu no?- si
ritrovò a chiedere Brian, inopportuno come sempre. Si morse la lingua, non avrebbe voluto.
Su quella
terrazza il 14 Febbraio 2006 faceva un freddo terribile. Sotto c'era Londra,
c'era un multicolorato caleidoscopio fatto di luci che si riflettevano sul
Tamigi e poi nel cielo, appuntandosi come stelle ad un mantello che
l'inquinamento luminoso della città rendeva scuro ed uniforme anche di notte.
Non c'erano più stelle nel cielo della City, c'erano solo i riflessi
aritificiali sull'acqua sporca del fiume e le anime multicolori di una città
che non dormiva. Brian si era appoggiato pesantemente alla balconata in pietra,
alle sue spalle Stefan si era allonato di qualche passo e Steve era rimasto a
presidiare una portafinestra da cui il terzetto si aspettava a momenti l'ingresso
a passo di carica di una manager sull'orlo di una crisi di nervi. Alex li
fiutava i “cazzi acidi” quando erano lì ad un passo dal verificarsi, nessuno di
loro sperava di averla fatta franca al suo sguardo interlocutore, non
sfoggiando la peggior espressione colpevole che potesse vantare nel proprio
repertorio, e tutti e tre ne sfoggiavano di altamente compromettenti quella
sera.
-Dobbiamo
parlarne seriamente e risolvere questa storia.- aveva esordito Steve.
-L'abbiamo già
risolta!- aveva scoccato Stefan sorprendo tutti, sia per la velocità sia per la
velenosità con cui lo aveva fatto- L'album esce con la EMI, ricordi?!
-Sì, ma...-
aveva provato ad intromettersi Steve.
-Stronzate.-
aveva commentato spiccio Brian, interrompendolo con la buona grazia di sempre.
Poi si era nascosto dietro sigaretta ed accendino ed aveva circostanziato
altrettanto brusco- Tanto sciogliamo comunque il contratto.
-Cazzo, Brian, è
una decisione che dobbiamo prendere assieme!- lo aveva aggredito Steve a quel
punto. Stefan aveva annuito e Brian se n'era accorto nell'alzare il viso verso
di lui in cerca di un sostegno che sapeva già che non avrebbe trovato. Aveva
sbuffato il fumo, ma solo per tirare fuori dal petto la rabbia cattiva che gli
cresceva dentro.- Devi piantarla con questa convinzione che sia tu e sempre tu
a sapere cosa sia meglio o semplicemente giusto fare!
-Non mi pare di
essermi mai sbagliato finora,- aveva cinguettato il cantante socchiudendo gli
occhi in faccia all'altro con aria innocente.- e poi visto che tanto per cambiare
sarà il mio culo ad andarci di mezzo...
-Spiacente di
deluderti, Brian, ma questo tuo egocentrismo del cazzo ha rotto!- aveva
berciato Stefan.
Se non fossero
stati giorni che quel copione si ripeteva variando esclusivamente l'argomento
di conversazione, Brian ci sarebbe rimasto male: non era abituato a non vedersi
spalleggiato in tutto dal proprio bassista - e migliore amico - ma era qualcosa a cui si stava sforzando di fare
il callo, visto che sembrava che Stefan avesse da dirgliene per tutti i precedenti
quindici anni di amicizia indiscussa. Quindi non aveva reagito. Aveva incassato
il colpo ed era rimasto alla porta a sentire il resto della sfuriata, con la
peggior faccia tosta che potesse mettere su e con tutta la convinzione intima
che era riuscito a racimolare in mezzo all'alcool che aveva trangugiato.
-Fino a prova
contraria, i Placebo sono ancora una band ed è la band a rischiare un flop di
proporzioni colossali!- aveva proseguito implacabile lo svedese.
Steve aveva
scosso la testa con un sorriso storto sulla faccia.
-Oh, andiamo!-
era sbottato acidamente.- Non prendiamoci per il culo! Non stiamo parlando dei
problemi con la EMI!
-E di che cosa
staremmo parlando, Steve?- lo aveva interrotto Brian atono, disinteressato
nemmeno il discorso non riguardasse affatto lui.
Era stato come
infilare la testa sotto l'acqua ed ostinarsi comunque a voler respirare.
***
-Sai Brian,
all'inizio non credevo che ti saresti arrabbiato così tanto con me. Ed ammetto
di esserne stato anche felice, per certi versi.
Era
un'affermazione abbastanza strana da riuscire a strappargli uno sguardo
sorpreso. Brian si era voltato a cercare di decifrare la sua espressione, ma
Steve sembrava sereno mentre osservava il fondo scuro del caffè, rigirandosi
lento la tazzina tra le mani. Così a lui non era rimasto che aspettare che si
spiegasse.
-All'inizio di
tutto...intendo dire, quando mi avete chiesto di tornare a suonare con i
Placebo...tu per i primi tempi mi rivolgevi a stento la parola se non erano
occasioni “pubbliche”.
Brian sorrise.
-Sì, lo
ricordo!- sbuffò divertito.- Sono sempre stato un gran cafone!- confessò poi
vivacemente.
Steve gli
ricambiò lo sguardo ed il sorriso ma si strinse nelle spalle.
-Era quello che
pensavo, e lo dissi anche a Stefan.- continuò pianamente.- E lui mi rispose
che, in realtà, eri arrabbiato con me perchè vi avevo lasciati “soli”.
Non credeva che
potesse risultare come una doccia fredda. Di quella storia a lui il bassista
non aveva mai detto nulla, non lo sapeva neppure che Stefan lo avesse smascherato
con tanta semplicità con Steve. Cercò di sembrare disinvolto mentre annuiva,
fingendosi distratto, e tornava a bere da una tazzina praticamente vuota,
trovando in quei gesti la scusa per non dover fornire conferme o smentite al
proprio interlocutore.
A pelle avvertì
che qualcosa era variato impercettibilmente, era come trovarsi ad alzare
nuovamente una barriera invisibile tra sè e l'altro e sapere che è una difesa
istintiva, che non si vorrebbe nemmeno attuare.
-E' stato allora
che ho cercato un modo per litigare con te.- proseguì Steve, senza notare
affatto quel cambiamento.
O forse
intuendolo fin troppo bene, si disse Brian posando giù la porcellana con un
suono leggerissimo di tazzina e piatto. Con un sospiro pesante prese atto di
come dopo quindici anni fosse impossibile per una maschera mantenere una
qualche integrità agli occhi di chi l'ha osservata troppo a lungo.
-Te lo ricordi
per cosa abbiamo litigato la prima volta?
Steve era
realmente divertito, a Brian stesso sfuggì un sorriso al ricordo di due ragazzini già in ritardo sulla vita,
Emily che era una realtà appena arrivata a sconvolgere un mondo di sogni che
Steve aveva costruito su basi troppo poco solide. E Brian, i suoi egoismi di
allora, le sue paure di sempre, le stesse che lo portavano a tenere lontane
quelle persone su cui sentiva di non poter fondare il proprio mondo...
-Alla fine ho
avuto ragione io a non darti fiducia.- si sentì mormorare.
Si aspettava
qualcosa, una ripresa dei vecchi rancori magari – quelli che in due anni
avrebbero dovuto essere sopiti ma che ancora si risvegliavano se qualcuno, Steve, faceva tanto da mettere il dito
su una ferita rimarginata male. Di sicuro non si aspettava che lui sorridesse,
pacificamente, e scrollasse le spalle.
-Possiamo
vederla così, sì.- gli concesse.
Mentre lo faceva
Brian capì anche che non era vero, non aveva avuto ragione allora – non gli
interessava neppure averla, voleva solo tenerlo ad una “distanza di comodo” che
non gli facesse sembrare troppo grande il vuoto di un nuovo abbandono – e non
ce l’aveva ora, nel rinfacciargli il passato prossimo che aveva portato quel
vuoto quando meno se lo aspettava.
-Steve, io…-
iniziò. Ma siccome non aveva mai imparato a chiedere scusa, non fece nessuna
differenza neppure quella volta e le parole morirono lì dov’erano.
Era una fortuna
davvero che, come aveva detto Steve per primo, le persone attorno a lui fossero
come Helena, disposte a non aspettarsi niente di più di quello che lui era in
grado di dare.
La mano di Steve
sulla spalla lo costrinse a voltarsi. Soprattutto perché arrivò un po’
imprevista e lo sorprese, non si erano sfiorati nemmeno per sbaglio da quando
si erano reincontrati ma Brian cominciava a capire che l’altro non era disposto
a concedergli nessuna distanza di comodo, non dopo che tutto, almeno per lui,
era stato detto e fatto e si poteva comunque restare amici. Una cosa a cui non
riusciva ad abituarsi, non a ridefinire gli spazi dell’amicizia, lui era il
classico tipo da “tutto e subito” e “solo a modo mio”. Lui comunque ritirò la mano
senza aggiungere niente, era solo un modo gentile di dirgli che aveva capito.
-Di sicuro
avremmo dovuto capirlo allora che stavamo instaurando un pessimo rapporto.- ci
scherzò su- Facci caso, da quel momento è diventato il nostro modo standard di
comunicare.
-Le tue
paternali?!- sbuffò Brian, accennando un mezzo sorriso sghembo.
-O i tuoi
capricci da prima donna.- ritorse Steve allo stesso modo.
Brian incassò
con una risatina.
-Touché!- concesse facilmente, sollevando una
mano in segno di resa.
-…Brian.- si
sentì chiamare in tono incerto. Sollevò ancora gli occhi, per incrociare quelli
di Steve e non trovarli, impegnato com’era a scavare dentro di sé quelle
parole.- Mi dispiace…di non aver trovato un modo diverso per parlare con te.-
confessò.
I'm coming up
for air...
Brian annuì.
All’altoparlante una hostess annunciò il loro volo, si ritrovò in automatico ad
alzare il viso cercando il punto da cui proveniva la voce metallica della
donna; quando riabbassò gli occhi Steve era tornato a guardarlo.
-Dovete andare,
eh?- intuì.
-Mh.- concesse
senza neppure provare con una parola più lunga ed articolata. Armeggiò con la
tasca dei pantaloni per tirare fuori il portafoglio e pagare i caffè.
-È così
disastroso quello nuovo?- si sentì domandare in tono leggero.
Saltò giù dallo
sgabello, tirando il giaccone sul sedere ed inforcando di nuovo gli occhiali
scuri.
-No, Steve.
Siamo io e Stefan a non essere più abituati a stare noi due da soli.- rispose
sibillino, fingendo un’ironia che non provava affatto e nascondendola dietro
uno dei propri migliori sorrisi di plastica.
Allungò il
passo, puntò alla sala Vip in cui aveva lasciato gli altri e, mani in tasca,
non si voltò più indietro.
Il 14 Febbraio
2006 Steve Hewitt, Brian Molko e Stefan Olsdal erano in tre su una terrazza, a
Londra, e sotto di loro la City intera li ignorava proseguendo il proprio
viaggio verso la vita. Il loro viaggio, invece, segnava una battuta di arresto.
Mentre i passi
cadenzati e rapidi di Alex si avvicinavano al vetro della portafinestra, Steve
aveva guardato Brian.
-Stiamo parlando
del fatto che non siamo più una
band.- aveva scandito lento e triste.
E forse proprio
perché lui sapeva che era vero, gli era sembrato strano vederlo una volta di
più frapporsi tra sé ed Alex, voltandosi appena sentito che la porta si apriva.
Era sempre stata rassicurante la schiena di Steve, dritta e solida tra lui ed i
problemi…la trovava rassicurante perfino in quel momento, la voce di Alex
troppo alta e stridula, arrabbiata, Steve che le diceva qualcosa che lui non
capiva e quell’idea che gli rimbombava in testa, nel silenzio di Stefan, nella
sua assenza fatta di una lontananza anche fisica – seduto distante, nascosto
nell’ombra di un dondolo tra i rami di una pianta, dietro il fumo di una
sigaretta. L’idea della fine di qualcosa, l’idea di aver raggiunto il punto
ultimo e di non avere la forza…la voglia di ricominciare da lì. In tutto
questo, pensare che Steve era ancora lì a fronteggiare il momento poteva essere
rassicurante. Anche se adesso avrebbe dovuto imparare a farlo da solo…
Nel tornare ad
immergere il viso nell’apnea traslucida della festa, Brian Molko aveva tirato
un respiro profondo.
Qualcuno aveva
chiesto ad Helena – a voce alta, in tono provocatorio – come riuscisse “a tollerarlo”. Lei si era voltata, lo
aveva guardato, guardato davvero, e
non era servito altro, a nessuno dei due, per capire che era da quel punto che
si sarebbe ripartiti. Dalla luce artificiale di due orecchini di brillanti, dal
silenzio di una discussione a troppe voci e dai cocci di una vita intera da
reincollare.
-Beh, lo so che
non è un granché!- aveva risposto lei assecondando lo scherzo e suscitando la
risata cortese della sala. Poi aveva sollevato lo champagne in un brindisi
immaginario di cui lui era l’unico destinatario, anche se già non lo guardava
più- Che volete che vi dica,- aveva replicato la sua voce, bellissima e sicura
– non è bello ciò che è bello, è bello
ciò che piace!
***
-Papà.- si sentì
chiamare. Emily tirò fuori la testa da dietro l’orso di peluche, camminando
attenta per non inciampare mentre raggiungevano il taxi fermo ad aspettarli in
seconda fila.- Brian è andato via?
-Sì, avevano un
po’ di fretta.- le rispose, togliendole poi l’incombenza di cercare un modo per
incastrare l’orso tra sé e la portiera ed aprendole lui l’auto per farla
salire.- Ma non preoccuparti,- le sorrise mentre lei si sistemava sul sedile
posteriore, accanto alla madre.- appena torniamo a Londra andiamo a trovarlo.-
promise.- Non immagini neppure quanto fosse arrabbiato con me per non averlo
fatto finora!
I’m coming up
for air!
“I’m coming up
for air…”
MEM
2010
Angolino del perditempo:
Per tutti coloro che, pazientemente, han fatto la
fatica di arrivare fino a qui.
Credo di aver partorito – dopo svariati secoli, lo
ammetto – il mio personalissimo elogio funebre a ciò che l’abbandono di Steve
Hewitt è stato per i fan dei Placebo. Quelli che li conoscevano “da prima”, per
intenderci.
Un po’ di chiarimenti sono dovuti.
A differenza di quel che viene fuori da questa – e
da altre – mia storia e che mi è già stato contestato aspramente da un lettore
offeso in un diverso contesto (me ne dispiaccio, ma ritengo anche che ognuno
sia libero di scrivere ciò che vuole e ciascuno di leggere ciò che gli
aggrada), non odio affatto Steve Forrest (Junior, come lo chiamo scherzosamente
– a volte – o più velenosamente, altre). Ho personificato in lui una tristezza
che faccio fatica ad abbandonarmi alle spalle. Questa storia, in un certo qual
modo, è un punto fermo sulla strada di una “guarigione”dell’anima di cu, a chi
legge non credo importi alcunché (ed a ragione).
Bando alle ciance, sono tristemente consapevole del
fatto che si tratta di una delle mie classiche storielle, di quelle che –
correttamente – passano sotto il silenzio di una astrusità immotivata ed
inconcludenza patologica che le rende aliene per i lettori. Dunque lo confesso,
le scrivo per terapia personale e le pubblico per narcisismo congenito.
Spero sia stata comunque di vostro gradimento.
Nel ringraziare dell’attenzione concessa saluto voi
tutti con l’affetto di sempre.
MEM
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