CONQUER THE WORLD
CONQUER THE WORLD
*
Il suo sguardo è fisso nel mio. Ha gli occhi di
un rosso fuoco, rendendolo paradossalmente più glaciale.
Perché non ho mai fatto caso a questo
particolare inquietante?
Forse perché ero più impegnato ad osservare quel
sorriso di scerno perennemente stampato sul suo volto.
*
Il puzzo della morte
penetrò prepotentemente nelle sue narici, diventando l’unico odore che riusciva
a percepire. Avrebbe dovuto vomitare, sentire il poco cibo che era riuscito ad
ingurgitare risalirgli l’esofago fino a riversarsi nuovamente ai suoi piedi.
Invece no, era troppo abituato a quel tanfo, troppe volte lo aveva nauseato in
quella valle dimenticata, in un angolo disperso sull’intero Pianeta.
Questa volta, però, aveva
un profumo famigliare, la morte, che si era portata via con sé forse l’unico
legame di sangue che aveva ancora col mondo. Era tutto solo, adesso.
I suoi occhi erano vitrei,
mentre osservava le luci poco più sotto di lui, dove la vallata si trasformava
in una splendida città variopinta. L’aveva guardata spesso, dall’alto di quella
rupe, domandandosi come potesse esserci tanta differenza tra loro e
quelli della sua razza.
Lasciò ondeggiare i piedi
nel vuoto, seduto su una roccia, ponendosi mille domande. Perché, a differenza
di quella gente, il suo popolo era destinato a morire? Per quale motivo dovevano
perdere le loro madri e i loro padri, i loro fratelli. Se lo chiedeva spesso, in
realtà. Spesso gli capitava di pensare a quanto fosse ingiusto quel luogo.
Le sue scarpe, fabbricate
blandamente da una pelle d’animale, furono la causa della caduta di una piccola
roccia. E lui la guardò cadere, discendere a valle e rotolare fino agli alberi
poco distanti. Non aveva fatto molta strada, ma era riuscita ad avvicinarsi alla
città molto più di lui. Amara riflessione, tristemente reale.
“Ho fatto, anche tuo padre
è stato seppellito” Annunciò la voce di un uomo alle sue spalle. L’energumeno,
pochi passi dietro di lui, restò a fissare la scarna schiena del ragazzo.
Piccolo e minuto per appartenere ad un popolo di colossi. Era magro, molto. A
prima vista non mostrava i suoi quindici anni, pareva quasi più giovane per
quanto era piccolo e smilzo.
L’omone si avvicinò
lentamente al più giovane, decidendo di accomodarsi accanto al ragazzo, volgendo
anch’egli uno sguardo fugace alle luci cittadine. Lui, il giovane, osservò
distrattamente le mani del compagno. Erano ricoperte di sangue e terriccio,
costretto a scavare senza l’ausilio di alcuno strumento. Le unghie erano
spezzate in più punti e, la mano destra, contava solo quattro dita. L’aveva
persa durante una battuta di caccia, quando la belva che stava catturando si era
improvvisamente tramutata in predatore, mordendogli la mano e staccandogli il
mignolo con ferocia. In compenso, gli era stato raccontato, l’indumento che
portava era stato ricavato dalle pelli di quello stesso animale.
Il ragazzo, guardò le sue
mani, in condizioni non migliori. Anche le sue erano lerce, ma almeno aveva il
set completo di dita. Chissà fino a quando sarebbe durata. Posò lo sguardo serio
sulla città, ancora una volta, come se quelle miriadi di luci fossero quasi una
condanna.
“Fino a quando moriremo di
fame, Spinach?”
Domandò all’improvviso il ragazzino, senza degnare di un solo sguardo
l’interlocutore. Aveva ancora davanti agli occhi il volto di suo padre, morto di
recente, sfigurato dalla fame e dalla malattia che lo aveva colpito. Non sapendo
nemmeno cosa fosse un medico quel banale raffreddore gli era stato letale, tanto
era debole. Quando aveva trasportato il corpo del genitore su quella rupe, dove
seppellivano i loro compagni, era riuscito a sentire tutte le ossa premergli
contro la schiena. E dire che era un uomo di corporatura robusta, quando era in
vita.
L’altro sospirò, guardando
distrattamente le luci con una certa noncuranza, quasi come se, la vista
dall’alto, non lo interessasse più. L’aveva osservata troppo spesso. “E’ per
questo che andiamo a caccia, ragazzo. Per mangiare” Gli spiegò l’omone dal volto
gentile, sebbene sfigurato da una brutta cicatrice che gli partiva dalla fronte
e terminava sul mento, nella parte sinistra del viso. Di come se la fosse
procurata non si rammentava nemmeno. Aveva troppi sfregi da ricordare. “Per
mangiare, certo. Ma loro non hanno di questi problemi” Gli fece notare il
giovane, frusciando la coda con nervosismo. Spinach osservò distrattamente
l’estremità del ragazzo, arrotolando la propria attorno alla vita, com’era sua
abitudine. “Questo perché loro hanno ciò che chiamano tecnologia” Spiegò
semplicemente, incrociando le braccia al petto, consapevole di aver dato prova
di una grande saggezza e, soprattutto, di conoscenza. Cosa rara, per un Saiyan.
Il giovane corrugò la
fronte, impensierito da quell’affermazione. Strinse i denti, assumendo
un’espressione quasi rabbiosa, e l’altro se ne accorse. “Potrebbero condividerla
con noi e invece ci lasciano morire di fame come cani” Sentenziò infine,
alzandosi con uno scatto deciso. Spinach, al contrario, lo guardò
tranquillamente, poco interessato ai suoi scatti d’ira o, più che altro,
semplicemente abituato. “Dovremmo scendere a valle, rubare la loro tecnologia e
sterminarli tutti!” Sbottò infine il più giovane, gesticolando in maniera
nervosa. E l’altro sospirò, ottenendo il risultato di tranquillizzare il
compagno. “Sei ancora troppo giovane, Vegeta. Noi Saiyan non potremmo mai
gestire la tecnologia degli Tsufuru” Gli spiegò l’energumeno, alzandosi e
passando amichevolmente una mano tra i capelli dell’altro, di un particolare
color castano. “Stronzate! Basterebbe riuscire a…” “Vegeta, smettila di
fantasticare. Pensa solo a cacciare e a procurare il cibo per il nostro popolo.
Il Capo ti sarà riconoscente come lo è con tutti” Fu il suggerimento dell’amico
che, zoppicando, si avviò verso il caseggiato a diversi metri di distanza.
Vegeta, corrugato, fissò l’altro allontanarsi di qualche passo. “Il Capo è un
coglione. Ci porterà tutti a morte certa” Constatò con rabbia, serrando i pugni.
“Muoviti adesso, ragazzo!
Voglio tornare al villaggio. Mio figlio potrebbe nascere da un momento
all’altro” Gli urlò dietro lo zoppo, senza guardare il più giovane, facendogli
un cenno di muoversi con la mano monca. E lui si voltò ancora verso la città, ne
studiò le luci per un attimo, prima di raggiungere il compagno e dirigersi verso
le loro capanne.
*
Sta ridendo anche adesso. Si diverte, maledetto
bastardo!
Gli dimostrerò di cosa sono capace, non mi farò
sconfiggere da lui.
Non davanti ai miei uomini.
*
Da quando aveva seppellito
suo padre, quasi otto anni prima, non si era più trovato nelle condizioni di
ricoprire di terra le membra morte di una persona cara. Questo perché non aveva
nessuna persona alla quale era particolarmente legato, non perché non ci fossero
state altre morti. Quelle c’erano sempre, giorno dopo giorno, a lui spettava
l’ingrato compito di buttare cadaveri in quella che era diventata una fossa
comune e maleodorante. Quando c’erano dei corpi da seppellire.
Spinach, per esempio, era
stato fortunato a tornare morente al campo. Era zoppo, menomato e quasi cieco da
un occhio, come molti altri; ma fino a qualche giorno prima era sempre tornato
vivo. Aveva cacciato con grande coraggio, portando a casa abbastanza selvaggina
da sfamare molti compaesani, sufficiente a lasciarli vivere qualche ora in più.
Quel giorno, invece, la fortuna l’aveva abbandonato senza remore, lasciandolo
tra le fauci di una belva feroce che aveva visto in lui una preda più succulenta
di quella che, entrambi, stavano cacciando. Vegeta aveva cercato di salvarlo,
facendo appello a tutte le sue forze. Aveva ucciso l’animale, ma per l’amico non
c’erano più speranze. Era spirato poche ore prima, tra atroci sofferenze causate
da ferite troppo profonde per poter essere curate con la semplice speranza.
Morto anche lui, quindi. Un
altro cadavere in mezzo a molti altri concittadini. E lui si era offerto di
trascinare la sua pesante carcassa fino alla fossa, sotterrandolo sotto il
terriccio senza troppa cura. Poi, come sempre, si era soffermato ad osservare la
città, che fluente cresceva di giorno in giorno. Ogni morto Saiyan che occupava
quella buca puzzolente e nauseabonda sembrava rappresentare un edificio in più
nel centro abitato. Come se le fondamenta di cemento venissero costruite sulle
loro carcasse.
Si allontanò da lì, infine,
con passo lento e pensieroso, lasciandosi alle spalle la figura di quel bambino
che, insistente, l’aveva seguito e che ora era riverso al suolo a rigurgitare il
poco cibo che aveva nello stomaco. Non era ancora abituato a tale scempio.
Troppo giovane, troppo piccolo per infossare il proprio padre. Ma prima o poi
era una cosa che capitava a tutti. E lui lo sapeva bene.
Vegeta non si fermò ad
aiutare quel ragazzino, non ne aveva alcuna voglia. Non era come Spinach, lui,
non era bravo a consolare con una pacca sulla spalla e con parole di
speranza. Speranza che non aveva, tra le altre cose. O che, quantomeno, viveva
in un luogo diverso su quello squallido Pianeta.
Si guardò le mani e le
pelli che indossava, osservando le chiazze di sangue che il cadavere aveva
lasciato su di lui. Questo lo indusse a cambiare traiettoria, a portarsi verso
il fiume che scorreva all’inizio della vallata. Anche da lì si vedeva la città,
dal lato opposto del canale che delineava il confine.
Dopo averla guardata per un
attimo, con ossessione sempre crescente, si chinò sull’acqua, sciacquandosi mani
e viso. Sommerse l’intero capo nel torrente, permettendo al flusso della
corrente di passargli tra i capelli sporchi. Sperando di poter lavare via
l’odore di fetido dalle sue narici. Immaginando di essere da tutt’altra parte,
in un altro mondo dove la fame e la carestia non uccideva i suoi vicini di casa.
Quando levò il capo, i suoi
occhi osservarono la superficie dell’acqua che scorreva su un letto dalle
sfumature rossastre, com’era il terreno di quel Pianeta, dando l’illusione che,
il liquido che vi fluiva, fosse sangue.
Solo dopo si accorse della
figura poco distante di un ragazzino, anch’egli intento a ripulirsi dalla
sporcizia e dal liquido cremisi che gli scorreva da una guancia ferita, da poco
cicatrizzata ma che gli avrebbe lasciato il segno per tutta la vita, quella che
gli restava almeno. Non doveva essere molto più giovane di lui, almeno così
pareva dall’aspetto. Era magro, come quasi tutti, ma decisamente più alto di
Vegeta, che nonostante avesse ormai quasi ventitré anni era ancora basso
rispetto agli altri.
Il giovane, dopo aver
seguito l’esempio del conterraneo, si lasciò cadere seduto sul terreno
rossastro, ansimante e un po’ affaticato. La fame avrebbe portato via anche lui
presto o tardi. Vegeta restò a guardarlo per pochi istanti, domandandosi per
quanto ancora sarebbe sopravvissuto. Si alzò in piedi, senza mai smettere di
fissarlo, poi rivolse lo sguardo a quelle stramaledette luci che, quasi
ironicamente, sembravano più brillanti mentre si riflettevano sulla superficie
dell’acqua. “Dimmi una cosa, da quanti giorni non mangi?” Esordì il più grande
dei due, intersecando le braccia ed immergendosi in pensieri inaccessibili. Il
ragazzo, dopo una prima incertezza, sollevò il capo, scrutando a sua volta
l’interlocutore con vago interesse. “Non ricordo” Ammise sincero, cercando
inutilmente di comprendere le intenzioni di quel ragazzo che non aveva mai visto
prima.
Vegeta restò in silenzio,
contemplando ancora la superficie dell’acqua e quelle luci che parvero accecarlo
ogni secondo che passava. “Come ti chiami?” Fu la domanda successiva, inducendo
l’altro ad inarcare un sopracciglio, prima di rispondere con un filo di voce,
“Bardack”. “Bene, Bardack, io e te oggi mangeremo” Stabilì perentorio, senza mai
soffermarsi a studiare il viso sfregiato dell’altro. Gli occhi del giovane
Bardack s’illuminarono di gioia, quasi non credendo alle parole dell’altro.
Eppure, istintivamente si fidò di lui, perché qualcosa gli suggerì che aveva
ragione, che quel ragazzo misterioso gli avrebbe salvato la vita. “Sai volare?”
S’informò infine Vegeta, osservando di sottecchi il compagno d’avventura che, un
po’ tremolante, riuscì ad alzarsi in piedi, annuendo. “Molto bene” Disse, prima
di issarsi in volo.
Quella notte, Vegeta e
Bardack entrarono nella grande città, sgraffignando qualcosa da mangiare,
qualcosa per sopravvivere. Si saziarono di ogni cosa potessero trovare, rubando
e razziando ogni sorta di cibo custodito nelle così dette tecnologie degli
Tsufuru. Quando tornarono a casa, tuttavia, si separarono in silenzio. Fu solo
un breve incontro, il loro, poi non si videro più, mai più. Le loro strade si
divisero per sempre, dimenticando l’uno l’esistenza dell’altro. Ma il destino è
una cosa imprevedibile. Mentre i due giovani guerrieri si apprestarono a vivere
le rispettive vite separatamente e diverse, eppure così simili, le vite dei loro
figli e delle generazioni seguenti erano intrecciate indissolubilmente l’una con
l’altra. Questa, tuttavia, è un’altra storia.
*
Mi lancio contro di lui, non posso farne a meno.
Devo combattere quel demone.
Devo ucciderlo per il bene di tutti, ma
soprattutto per il mio onore.
*
Si stava ancora curando le
ferite, quel giorno, quei pochi graffi che si era procurato durante l’ultima
battuta di caccia. Lesioni superficiali, nulla di permanente. La sua pelle era
stata più volte scalfita, ma mai nulla che potesse lasciare evidenti cicatrici
come la maggior parte dei Saiyan. Chi più, chi meno, avevano sfregi su tutto il
corpo per dimostrare l’eterna lotta per la conquista di un pezzo di cibo. Lui
no. Lui era sempre riuscito a sfuggire gli attacchi letali o mortali, limitando
i danni a poche e leggere ferite. Era un ottimo guerriero, lo aveva dimostrato
fin dalla più tenera età.
Uscì dalla sua capanna,
stringendo attorno al braccio una pezza, per marginare l’uscita di sangue. Poi
alzò il capo, osservando, come tutti, il ritorno dei guerrieri che erano stati
mandati a procurare il cibo. Li vide tornare a mani vuote, con facce abbattute e
qualche ferita in più. Stavano diventando sempre più deboli, tutti loro.
Il capogruppo si fece
coraggio, restando sulla soglia che portava all’interno della tenda che
apparteneva al Capo Villaggio. Esitò un istante, prima di entrare, inchinandosi
servile di fronte all’anziano che governava il popolo dei Saiyan.
La folla si radunò curiosa
alle sue spalle, sbirciando dalla porta lasciata aperta. In attesa di conoscere
una spiegazione per il fallimento odierno. Vegeta era tra loro.
Si appostò in prima fila,
fissando l’anziano Capo per qualche istante. Appena ebbe l’occasione di
scorgerlo si accorse, ancora una volta, di quando poco sopportava quel tipo. Era
il Saiyan più vecchio tra tutti loro, ma era anche l’unico che, oltre a pelle e
muscoli, aveva anche della carne a coprire le proprie ossa. Per diritto
acquisito, infatti, era sempre il primo ad assaggiare le prede che, altri,
cacciavano con fatica, spesso rischiando di non tornare a casa. Nessuno sfregio,
nessuna cicatrice, nessun arto mancante. E non per un’innata abilità, ma solo
per ozio e per un privilegio che gli era stato concesso solo per anzianità. Non
faceva nulla, tra l’altro, per il popolo che continuava a invocare cibo a gran
voce.
“Ho brutte notizie, Capo,
non c’è più selvaggina. Non ci sono più carni. Non c’è più cibo” Spiegò il
cacciatore, a capo chino. Attese pazientemente il responso dell’anziano. Lui, al
contrario, parve tranquillo, lasciando frusciare la vecchia coda alle sue
spalle, stuzzicando i denti cariati con l’osso dell’ultimo pezzo di carne che
aveva ingurgitato. “Sei sicuro? Forse siete voi che non sapete cacciare”
Pronunciò alla fine, costringendo il malcapitato al silenzio, così come anche il
popolo che alle sue spalle stava ascoltando la disquisizione.
“No, Signore, davvero non
c’è più niente” Si sentì di ripetere il Saiyan più giovane, deglutendo
sonoramente. Mentre un leggero brusio si levò dagli abitanti. “Osi
contraddirmi?” Domandò indignato il vecchio, sollevandosi dalla sua poltrona e
camminando lentamente verso l’avventuriero. Questi, però, restò in silenzio,
chiudendo gli occhi. Sapeva cosa sarebbe successo da lì a breve. Lo sapeva fin
troppo bene. Non era stato un animale a procurargli quell’orribile sfregio che
gli deformava la tempia sinistra, e che, per inciso, cominciò a pulsargli
dolorosamente.
Il Capo Villaggio si fermò
davanti a lui, sollevando il bastone che reggeva tra le mani, abbassandolo di
colpo e percuotendo il guerriero che, debole ed affamato, ricadde dolorante al
suolo. L’uomo ripeté l’operazione, issò nuovamente il bastone ma, questa volta,
si fermò ben prima di battere contro il cranio dell’inerme servitore.
A fermare il bastone fu la
mano di un giovane, che fino a quel momento aveva assistito alla scena in
silenzio tra la folla. “Ora basta” Dichiarò fermamente Vegeta, stringendo le
dita sul pezzo di legno, fino a quando esso non si spezzò per la pressione
esercitata dal ragazzo. “Come ti per…” Provò a replicare il vecchio, ma ancora
una volta fu il giovane cacciatore a metterlo a tacere. Levò una mano verso di
lui, irradiandola di luce propria. “Tu proprio non capisci, vecchio. Noi Saiyan
abbiamo bisogno di cibo, tanto cibo, e tu non stai facendo nulla per
procurarcelo” Tuonò, osservando l’altro di sottecchi, con uno sguardo che
avrebbe fatto rabbrividire chiunque, e il Capo Villaggio non fece eccezione. La
folla, intanto, si era zittita completamente, curiosa di sentire le parole di
quel giovane. Anche il guerriero tornò a sollevarsi dal terreno, asciugandosi un
rivolo di sangue che ora gli percorreva il viso. Una ragazza, che era tra la
gente, lo soccorse. Con ogni probabilità era la figlia del malcapitato.
“Se non vogliamo morire di
fame c’è un solo modo per trovare del cibo, lo sappiamo tutti…” Continuò il
coraggioso guerriero dall’aria determinata, “… Gli Tsufuru ne hanno in
abbondanza, dobbiamo prenderlo da loro”. Un brusio caotico cominciò a
diffondersi velocemente. Evidentemente era stato l’unico ad arrivare a quella
soluzione così ovvia.
“Gli Tsufuru?” Parlò ora
l’anziano Capo, spegnendo il chiacchiericcio e portando l’attenzione di tutti su
di sé. “Tu sei pazzo, i Saiyan e gli Tsufuru vivono su questo Pianeta da più di
un secolo e sono sempre stati in pace. Sarebbe una follia dichiarargli guerra”.
Vegeta lo fissò per un attimo, il vecchio stava tremando leggermente. Poi avanzò
verso di lui, afferrandolo per la pelliccia e sollevandolo dal suolo. “Hai
paura, vecchio? Temi forse la loro tecnologia e il loro numero?” Domandò, mentre
con il solo sguardo intimò ad alcuni guardiani di fermarsi. Loro che volevano
proteggere il Capo da quello che sembrava solo un pazzo delirante, si
pietrificarono dalla paura di fronte a quegli occhi così gelidi e insieme così
caldi. O forse era un’involontaria consapevolezza che quel ragazzo aveva
ragione.
“Noi Saiyan siamo più
forti, siamo guerrieri. Non potranno nulla. Inoltre… la luna si vede molto bene
quando è piena” Era tutto vero, tutto calcolato. Non erano solo dei
vaneggiamenti senza senso, erano le certezze studiate di un ragazzo che aveva
previsto tutto nei minimi dettagli.
L’aveva pensato tante
volte, immaginato, ipotizzato, qualche volta persino sperimentato, ma mai,
mai, lo aveva espresso ad alta voce. E ora che lo stava facendo tutti
pendevano dalle sue labbra. Cominciando lentamente a capire che aveva ragione.
Una ragione fottuta che l’aveva appena portato ad essere rispettato da tutta la
sua razza. E Vegeta lo sapeva, cazzo se lo sapeva. Sentiva gli occhi di uomini e
donne, vecchi e bambini, puntati sulle sue spalle. Riusciva quasi a vedere i
loro sguardi pieni di ammirazione e di dubbi. E sentiva i bisbigli appena
sussurrati, mentre lo incoronavano silenziosamente nuovo leader di un popolo che
aveva appena trovato una speranza. Poi vide gli occhi del vecchio capo, mentre
il terrore cominciò ad invadere il suo corpo grassoccio e raggrinzito. L’anziano
lo guardava sapendo perfettamente che lui rappresentava ciò che aveva sempre
temuto. La sua fine.
E così fu. Vegeta, sotto lo
sguardo di tutto il popolo, sollevò la sua mano, trapassando da parte a parte il
corpo flaccido del Capo Villaggio, mentre uno schizzo di sangue lo colpì in
pieno viso. E lui restò impassibile, anche quando, ritirato il braccio, osservò
le sue dita sporche di quel liquido vermiglio. Per la prima volta apprezzò quel
colore sulle sue mani. Lo eccitava.
“Da oggi io sarò il nuovo
Capo dei Saiyan” Dichiarò senza voltarsi a guardare gli altri guerrieri alle sue
spalle, che minuto dopo minuto fremevano per sentirlo parlare ancora. “E per
prima cosa dichiaro guerra a quei bastardi della città. Uccideteli,
sterminateli, massacrateli. Dobbiamo impossessarci della loro tecnologia e del
loro cibo. Lasciate in vita solo chi potrà esserci utile” Dispose, girandosi
lentamente, mentre fissò un viso dopo l’altro, constando la felicità e la
speranza con nasceva lentamente nei loro sguardi, nelle loro espressioni. Poi fu
un urlo di gioia.
La valle tremò quel giorno,
il Pianeta sussultò. Presto le sue terre si sarebbero macchiate di sangue e
violenza. Mentre una guerra, ormai inevitabile, stava scuotendo le fondamenta.
“Questa battaglia finirà
quando un solo popolo regnerà su Plant”.
*
Ha schivato il mio attacco, non una, ma ben due
volte.
Sono accecato dalla rabbia, dalla paura.
Ma non è questo che mi fa perdere di vista il
mio avversario.
*
L’odore di carne lo
inebriava, costringendolo ad ubriacarsi di quel profumo così dolce e soave.
Aveva la pancia piena e le sue papille gustative riuscivano ancora ad assaporare
il diletto del suo pasto. Mangiavano, finalmente, mangiavano tutti a sazietà.
Grazie a lui.
La guerra stava andando
avanti da anni ormai, sei o sette circa, e ancora non accennava a smettere. Ma i
Saiyan stavano vincendo, conquistavano sempre più terreno. Sporcando con i corpi
inermi degli Tsufuru il suolo del Pianeta che, giorno dopo giorno, diventava
sempre più rosso. Come il sangue.
Vegeta, sazio di un lauto
pasto, poggiò la sua schiena su una roccia, mentre i suoi occhi catturarono
l’immagine di un piccolo fiore nei paraggi. Era raro, in quegli anni, riuscire a
vedere una pianta ancora viva. La battaglia stava sterminando anche loro. Si
soffermò a guardarlo a lungo, osservando le sfumature di diversi colori che
abbellivano i suoi petali.
“Vegeta, mio Signore, vi
porto notizie dal fronte nord” Esordì un soldato, chinandosi con servile rigore.
Vegeta sollevò gli occhi su di lui, per un attimo. Poi si alzò lentamente,
incrociando le braccia dietro la schiena e fissando dall’alto il guerriero dai
buffi capelli neri. “Parla” Lo esortò infine con voce calma, piatta, senza
trapelare alcuna emozione.
Il giovane, di circa una
quindicina d’anni, si chinò ancora di più, come a voler dimostrare al proprio
padrone tutta la sua gratitudine. “Siamo riusciti a sfondare il fronte e a
catturare alcuni degli scienziati come ci era stato ordinato” Annunciò tutto
d’un fiato. Poi tacque. Trattenendo il respiro. Vegeta restò a fissarlo ancora
qualche secondo. “Molto bene. Chi era a comando dell’operazione?” S’informò in
un secondo tempo, ostentando ancora quel timbro di voce lontano e glaciale. “Io,
Mio Signore” Rispose il guerriero, peccando forse di una punta d’orgoglio, ma il
comandante non parve preoccuparsene.
Il Capo lo guardò con più
attenzione. Per la prima volta sembrò essere realmente interessato ai lineamenti
del suo volto. Cercò vagamente di memorizzare l’immagine di quel ragazzino. “Sei
parecchio giovane, come ti chiami, ragazzo?” Volle sapere improvvisamente,
notando un leggero gesto del capo. Il guerriero avrebbe voluto evidentemente
alzare lo sguardo dal terreno che stava fissando, per osservare meglio gli occhi
del sovrano. Tuttavia, per ragioni comportamentali, restò chino, in un
atteggiamento rispettoso e solenne. “Il mio nome è Nappa, Signore” Si presentò
infine questi, suscitando un’espressione quasi sorpresa sul volto del Saiyan
adulto, ma che lui non poté vedere in alcun modo.
“Nappa” Ripeté a mezza
voce, quasi a se stesso, portandosi una mano al mento. Lo sguardo del leader si
fece pensieroso, ricercando nel meandri della sua memoria la collocazione di un
nome che aveva già sentito. Nappa, nel frattempo, restò immobile, in attesa di
un responso qualsiasi. “Nappa, il figlio di Spinach” Concluse infine, trovando
quel collegamento che aveva per un attimo perduto. Il ragazzo sgranò gli occhi,
fissi al suolo, poi, lentamente, non poté fare a meno di sollevarli sull’uomo
che aveva davanti. “S… sì, Mio Signore” Confermò quasi incredulo, farfugliando
con un filo di voce.
Vegeta, dal canto suo,
scostò lo sguardo verso un punto imprecisato all’orizzonte. Mentre il ricordo di
un vecchio amico perduto riaffiorò quasi inconsapevolmente. Chissà, forse, se si
fosse mosso prima, anche quel vecchio bizzarro di Spinach sarebbe sopravvissuto
per vedere l’inizio della rivolta. “Nappa, da ora in poi tu lavorerai ai miei
diretti ordini. Non prenderai disposizioni da nessun’altro che non sia io in
persona. Sono stato abbastanza chiaro?” Promulgò all’improvviso senza
un’apparente motivazione. Il giovane dovette pensarci per più di un istante,
prima di annuire fermamente. “Ai suoi ordini, Mio Signore” Ubbidì, tornando a
chinare il capo come mai aveva fatto fino a quel momento. Sfiorando quasi il
suolo, per quanto si era abbassato. La gratitudine e l’onore, di lavorare
direttamente per lui, lo avevano costretto a tanto.
Un’ultima occhiata al suo
nuovo aiutante bastò, infine. “Ora portami dagli scienziati che avete catturato,
vediamo se questi, a differenza degli altri, collaboreranno per i nostri scopi”
Ordinò camminando verso il luogo in cui erano trattenuti i prigionieri. Nel suo
intercedere, però, il piccolo fiore rimase schiacciato, perdendo i petali
colorati e macchiandosi col terriccio rossastro del Pianeta.
*
Lui è veloce, troppo per i miei occhi.
Lo rivedo un secondo dopo, un secondo troppo
tardi.
Mi ha già colpito e io… sto già cadendo.
*
Erano dieci anni che
aspettava quel momento. Forse anche di più, considerando tutti quelli che aveva
speso osservando l’orizzonte, contemplando le luci della città. Ora, il
panorama, gli apparteneva. Tutto.
Sovrappensiero si lisciò il
pizzetto castano che, in quegli anni, si era fatto crescere. Poggiato sullo
stipite di una porta mentre attendeva l’esito della missione che aveva riservato
ai suoi uomini. Poco più in là, nella valle al di sotto della rupe sulla quale
era costruito l’edificio a cui dava le spalle, sentiva il vociferare dei
guerrieri. I Saiyan, nonostante il conflitto, erano cresciuti di numero. Nessun
morto causato da forze che non potessero essere battute a colpi di ki blast.
I cadaveri che si era
lasciato alle spalle erano tanti. Vittime della fame e della sete prima, della
battaglia e delle ostilità dopo. Se ci pensava riusciva ancora a sentire il
fetore di putrefazione e di cadaveri che, nei giorni caldi come quello,
diventava l’unico odore nel raggio di chilometri.
Ora, il luogo dov’erano
seppelliti suo padre, Spinach, e molti altri guerrieri, lo guardava da lontano,
dall’altra sponda del fiume. I suoi occhi si mossero proprio in quella
direzione, domandandosi inconsciamente cosa avrebbe detto tutta quella gente
della sua conquista.
“No, vi prego, lasciatemi…
lasciatemi!” Piagnucolò una voce, costringendo il Capo dei Saiyan a voltarsi,
osservando la figura minuta e spaventata dell’ultimo Tsufuru che ostacolava la
sua ascesa. Nappa lo stava trascinando con forza, e più il malcapitato cercava
di divincolarsi, più scopriva che non aveva vie di scampo. Il suo destino era
segnato.
Nappa si fermò davanti al
suo sovrano, mostrandogli la preda che non poté fare a meno di fissare gli occhi
in quelli scuri del guerriero più potente dei suoi nemici. Stava tremando,
Vegeta lo vide immediatamente. Forse stava anche piangendo. Era disperato e
spaventato. Gli piaceva incutere tanto timore. “E così…” Iniziò dopo qualche
secondo, avanzando di un passo e scrutando attentamente il minuto e impaurito
alieno dall’alto al basso. “Tu saresti il Re degli Tsufuru eh?” Bofonchiò, quasi
parlasse ad una persona non presente. Come se si stesse rivolgendo ad un lato
oscuro della sua stessa mente. “V… vi prego non fatemi del male, vi darò tutto
ciò che volete” Supplicò quello, giungendo le mani in segno di scongiuro. Vegeta
rise, nefasto, macabro, crudele… divertito. “Non dubito che mi darai ciò che
voglio, vecchio” Annunciò enigmatico, ma abbastanza inequivocabile da riuscire a
comprendere i suoi loschi pensieri. E Nappa, che aveva afferrato il messaggio
del Suo Signore, lo accompagno in quella risata.
Gli occhi di Vegeta si
posarono sul medaglione che il sovrano del popolo sconfitto portava al collo. Lo
studiò attentamente, infatuandosi della sua bellezza. Sorrise.
Poi, come se nulla fosse,
si diresse verso il margine del dirupo, facendo cenno al suo assistito di
seguirlo, trascinando con sé il prigioniero. Prima di riuscire a scorgere il
popolo sottostante, Vegeta vide la figura femminile che lo attendeva,
inchinandosi con grazia al suo passaggio. In seguito, senza un’apparente motivo,
si chinò al suolo, raccogliendo del terriccio. Prima di sollevarsi nuovamente
però, si guardò il guanto bianco, macchiato di quel particolare rossastro.
Quando si rialzò un leggero
vento scosse il suo mantello, accompagnandolo fino a quando non vide la folla
che, fremente, lo attendeva. Un’acclamazione anticipò il suo discorso, ovazioni
ed incitazioni echeggiarono per la valle, dandogli il tempo di crogiolarsi nel
suo successo. Guardò giù, verso di loro, scoprendo nuovamente che pendevano
dalle sue labbra, proprio come quel giorno. Quello in cui tutto era iniziato.
La sua mano si levò a
pugno, stringendo ancora il terriccio che aveva raccolto. A quel segnale tutti
tacquero all’istante.
“Oggi è un grande giorno
per la razza Saiyan” Cominciò solenne, “Da oggi noi siamo il popolo che
regna su Plant. Da oggi questo Pianeta sarà conosciuto con il nome di Vegeta!”
Dichiarò, lasciando cadere il terreno dalle sue mani, suscitando l’ennesima
esultanza entusiasta. Il vento trascinò lontano i piccoli detriti, disperdendosi
in ogni luogo.
Mentre i guerrieri
continuavano ad esultare, Vegeta fece un cenno col capo al suo assistente di
trascinare l’ex sovrano accanto a lui, e Nappa ubbidì senza fiatare. “Da oggi…”
Riprese, riportando nuovamente il silenzio, “… inizia il regno dei
Saiyan. E io sarà il vostro Re” Dispose, poggiando la mano sul medaglione
del tremolante imperiale. Lo strattonò, staccandolo bruscamente dalla gola del
vecchio regnante. Poi, con tutta calma, lo legò attorno al proprio collo. Era
appena diventato Re, Re Vegeta. Tra le urla di gioia del suo popolo si voltò
lentamente, osservando il vecchietto che, ormai, non gli era più di nessun
aiuto. Sogghignò, sollevando una mano a palmo aperto, dalla quale scaturì una
luce bluastra. “Addio, regno degli Tsufuru” Disse in un bisbiglio, udibile solo
a coloro che gli sostavano accanto. Successivamente, senza dargli neanche il
tempo di supplicare, colpì il regnante, disintegrandolo in mille pezzi, e
anch’esso divenne polvere tra il vento.
In un angolo della valle,
tra le sbarre delle prigioni, gli ultimi Tsufuru rimasti piansero amaramente. Il
loro Re era morto, i loro cari erano morti, il loro Pianeta era morto. Forse
avrebbero fatto meglio a morire anche loro, ma per codardia o per qualcos’altro,
avevano preferito la schiavitù e l’eterna dannazione, piuttosto che la fine di
una vita gloriosa. D’altro canto, erano scienziati, non guerrieri.
Tra gli applausi, Vegeta si
voltò, incamminandosi verso quello che era diventata la sua dimora. Durante il
breve tragitto i Saiyan che si erano distinti in battaglia si chinavano al suo
passaggio, con nobiltà. A seguirlo, tuttavia, solo due figure. Nappa, che gli
era sempre stato fedele fin dalla sua promozione, e una donna. Vegeta l’aveva
conosciuta in battaglia, l’aveva ammirata e l’aveva amata.
Nel sentire il rumore dei
suoi passi in quell’immenso corridoio, lui cominciò a pensare. Oggi era Plant, o
meglio il Pianeta Vegeta, a cadere ai suoi piedi. Eppure, con la tecnologia
degli Tsufuru avrebbe potuto ottenere molto di più. Il suo prossimo obbiettivo
sarebbe stato l’Universo intero.
*
Tutto diventa bianco. Irreale.
Forse c’è sangue, ma non riesco più a vedere
nulla, né a capire.
Avevo dei sogni, poi è arrivato
lui.
*
Un giovane soldato, dai
lunghi capelli verdi, avanzò velocemente tra i vari androni di metallo di quella
base ai confini della galassia. Si fermò davanti ad un portone, trafelato, poi
tirò un grande respiro, cercando di eliminare il fiatone che lo aveva colto
durante la corsa. Pochi secondi ancora, prima di compiere l’ultimo passo che
anticipava l’apertura dell’uscio.
I suoi occhi, una volta
dentro, osservarono un altro guerriero, appostato in un angolo, in silenzio.
Corpulento e dalla peculiare colorazione rossastra, mentre le sue braccia ed il
suo capo erano quasi interamente ricoperti da aculei. Lo riconobbe al volo, ma
non sprecò tempo a salutarlo. Aveva cose più importanti da dire.
Di fronte a lui una sedia,
sospesa nel vuoto.
S’inchinò in un saluto, poi
cominciò a parlare, “Potente Freezer, ho delle importanti notizie” Annunciò il
giovane, restando a testa china in attesa di ordini. “Molto bene Zarbon, dimmi,
di che si tratta” Lo esortò l’altro con voce sibillina e glaciale. “Un Pianeta
non molto lontano da qui, Plant, è appena stato conquistato e ribattezzato
Vegeta da un intero popolo, i Saiyan” Tacque infine, restando a testa china di
fronte al suo padrone.
Il silenzio si propagò
nella stanza per un tempo interminabile. “Saiyan” Stridé ancora Freezer,
giungendo ad una conclusione indecifrabile nei meandri della sua mente. E tornò
il silenzio, pesante, forse più di prima.
Fu interrotto dallo stridio
della sedia che, a mezz’aria, roteò su se stessa, mostrando ai due guerrieri il
volto del dittatore. “Zarbon, Dodoria, credo che andremo a far visita a questi
Saiyan” Le sue parole suonarono viscide ed avvelenate, avvalorate da
quello strano sorriso sulle labbra violacee che non prometteva nulla di buono.
Ma i due, avvezzi a questi suoi atteggiamenti, si piegarono in un inchino
rispettoso, esibendosi in un corale “Sì, Potente Freezer”.
*
FINE
*
*
|