Io e te siamo
legati da uno strano destino 2 - Il patto di sangue.
Prologo
"Lo aveva detto..." una pausa, trattenuta sul diaframma per non
continuare la frase. Avrebbe dovuto credergli? Oh si, fidarsi delle parole di
un ragazzino diciottenne. Quanto pesan le parole dopo sette anni di attesa?
Ed io avevo
promesso, e tutt'ora... persino
l'eco dell'immaginazione freme basso, sotto il tocco anestetico d'un volto
sfocato, che addita alla mente ricordi confusi, i quali, senza forma, si
degnano di tornare sotto forma di tediosi reflussi di stomaco. Inutile temere,
pensare, attendere. Tutto perduto, inevitabilmente scivolato in una promessa
infranta. Lei, adulta ora, che stringe tra le mani il giornale fingendo di
leggerlo.
Raggelanti, gli eventi descritti in prima pagina;
cos'è, il mondo s'è forse fermato per poi ripartire al contrario? L'ebano, quel
bruno intenso nascosto dietro le ciglia di lei è spento, così come l'attenzione
che dona alle notizie del giorno.
"Mamma!" e scuote il capo, sbattendo le
palpebre più e più volte, come se fosse uscita da una trance temporanea, getta
allarmata lo sguardo al di sotto della sua posizione per trovarsi dinanzi
all'espressione contrita del primogenito.
"Oh, si. Si! Ti stavo ascoltando, dimmi tutto
Nekogai" formula agitandosi sulla seggiola, per poi farla ricadere
rovinosamente alle sue spalle, solo per essersi sollevata di botto.
Lui la fissa come si potrebbe osservare una
genitrice goffa come quella che ha dinanzi, alza un sopracciglio, incrocia le
piccole braccia al petto e sospira profondamente.
Chi è tra i due il vero genitore?
"E' ora di cena" bisbiglia basso, mentre
le iridi d'oro scivolano su di lei come sull'acqua. Perchè deve martoriarla in
questo modo, lui, quel piccolo essere che non è altri che il suo specchio; non
si rende neppure conto di quanto la sua esistenza sia un peso oramai. Chi non
nasce per amore, è destinato a essere un peso, in modo irreversibile. Eppure
un tempo era così, sino a pochi anni prima lui era il più grande desiderio di
lei. Ed ora...
Kagome, povera, piccola Kagome. Cos'è successo al
sorriso che stringeva allora sulle labbra? Ora, cosa c'è di sbagliato che le
dilania il volto rovinosamente? Quella curva preziosa che ha deciso di
rimuovere anche alla vista di suo figlio, quell'energia, vitalità, ardore che
sprizzavano dal corpo come gridi liberatori; cosa ne è stato di quella Lei?
Chi è questa donna dai capelli legati e scomposti
sul volto, che porta i segni precoci di un dolore ancora non superato? Cos'hai perso Kagome... cosa ti manca?
I passi, si diffondono come tuoni sordi
nell'enorme casa in stile Shintoista, troppo grande per loro due da soli. E
quel suono che a lei pare così dannatamente vicino, all'udito del figlio
risulta un ovattato abbandono.
Okaasan,
smetterò un giorno di sentirmi in colpa per te? Seppur non sia così, è
questo ciò che lui sente Kagome, come non puoi non renderti conto della gravità
che pesa sulle spalle del tuo stesso sangue? Una linfa, che inevitabilmente
appartiene anche a lui, quello che un tempo era il tuo più bel sogno, e che ora
s'è tramutato nell'incubo più ricorrente.
Il salone è vuoto, esiste solamente lui nella
stanza ora, coi suoi giochi tra le mani ed il televisore acceso in modalità
senza voce. Guarda le immagini che passano, tentando di dipingere nelle figure
demoniache che vede comparire nelle interviste, un possibile dettaglio del
profilo di colui che avrebbe dovuto essere ... suo padre?
Ha mai avuto un secondo genitore, oltre Kagome? Il
volto non si rattrista, rimane silenziosamente piegato in quella smorfia di
distacco che potrebbe più appartenere a un adulto anzichè ad un bambino.
L'unico suono che rintocca, oltre il respiro, è quello dell'enorme pendolo che
il vecchio bisnonno ha lasciato come ricordo di sè, prima d'essere catturato
dalla morte. Lo sguardo si sposta verso l'orologio ora, correndo lungo il
perimetro della parete bianca, sino a fermarsi immobile sul primo gradino che
porta al piano superiore, dove c'è quella
cosa.
Si alza, per percorrere silenzioso il corridoio ed
arrivare proprio sotto la tromba della scalinata; alza il naso in su,
spalancando la bocca per respirare quell'antico profumo che proviene dall'alto.
Cosa c'è dietro quella porta? Quella sua innata curiosità lo ha sempre cacciato
nei guai, ed ha l'impressione che cadrà nel tranello anche questa volta, come
quella precedente e quella ancora prima. E' un bambino in fondo, cosa puo'
saperne lui di cos'è giusto e cos'è sbagliato? O forse, non ha la minima
intenzione di darsene conto; ha solo voglia di scoprire ciò che gli viene
nascosto da troppo tempo.
Ogni volta che fa riferimento all'odore che sente,
la madre si arrabbia, impedendogli di porre altre domande. Perchè? Sale i
gradini di corsa, uno dietro l'altro, traendo enormi respiri nella foga. Si
ferma dinanzi alla porta, che dalla sua visuale sembra un'immenso portale
misterioso che lo potrebbe condurre chissà dove, chissà, magari nello spazio.
Poggia i palmi delle mani sulla superficie, poggiandovi successivamente il capo
per ascoltare cosa vi sia al di dietro. Percepisce un movimento, alza le
orecchie canine sopra la testa, flettendole verso la direzione dalla quale
proviene il rumore.
"Ehi" mormora a voce bassa, senza
bussare o chieder altro. Sa che c'è qualcuno che l'ascolta dietro di essa.
"...Sei tornato anche oggi, chi sei?"
scatta col corpo indietro, gli è stata fornita una risposta questa volta.
Trema. Il piccolo corpo non regge la troppa eccitazione e s'accascia sulle
ginocchia, con le mani tratte tra le gambe che tremano.
"I...Io sono..." non riesce neppure a
parlare, che piccolo idiota! C'è qualcosa o qualcuno dietro quella parete che
li divide, non dovrebbe far altro che abbattere quell'unico ostacolo. E se
fosse un mostro, od un demone pronto a divorarlo? In fondo lui, non è altri che
un ibrido, ancora incapace di sfruttare a pieno le sue capacità.
Silenzio, che dura secondi immensi, nei quali un
fiotto di saliva percorre la gola come fosse veleno. Il battito cardiaco
martella nel petto veloce, con lo stesso identico ritmo del ticchettio di quel
pendolo che giace al piano inferiore.
"Sei qui per restituirmi ciò che
voglio?" sibila la voce dietro la porta, bassa, di una tonalità quasi
impercettibile, come se non possedesse da tempo la facoltà retorica.
"Cio' che..." indietreggia ancora,
finendo con le spalle al muro, il bambino. Non capisce, non è capace di
comprendere cosa desideri l'entità sconosciuta da lui. Ha paura, ha voglia di
chiamare sua madre, non avrebbe dovuto osare tanto stavolta, eppure...
"Il tuo odore mi rassicura, perchè?"
risponde alla questione dell'altro, con un'altra domanda precisa. Nessun'altro
rumore. Nessuno dei due è stato capace di fornire una risposta all'altro,
sembra come se l'altra figura si fosse alzata da terra e se ne fosse andata,
abbadonandolo là, tra la tensione ed il desiderio di scoperta.
"Nekogai... cosa ci fai davanti a quella
porta?" lei lo ha visto, è nei guai ora. Non gli era concesso, ha
disobbedito di nuovo. Apre la bocca per dire qualcosa, ed abbassa le orecchie
sopra il capo, muovendo qualche passo verso la madre per abbracciarle una
gamba.
"Scusami" formula solamente, con la voce
che rischia uno schianto dalla serietà al pianto, da un momento all'altro. Lei
si china, accogliendolo tra le braccia come qualsiasi madre dovrebbe saper
fare, lo conforta, e poggia una mano sopra il capo di lui.
"Non dovresti venire qui, non c'è niente qui,
è solo il rumore del vento quello che senti" come potrebbe essere così?
Lui ha udito chiaramente il suono di una voce provenire da quella stanza, ma
rimane in silenzio, non osa interrompere la madre, non vuole ferirla di nuovo.
"Non verrò più" anche se lo promette, sa
benissimo che non ci sarà modo di scappare dalla curiosità che lo lega in modo
quasi ossessivo a quell'odore. Non avrebbe modo di evitarlo nemmeno se lo
volesse.
"Promettimelo, ti prego" il tono di lei
è calmo, balena esterno dalle labbra come una nenia di pura quiete, che pare
voglia dissuaderlo dolcemente dal tentativo di scoprire qualcosa che lo
ferirebbe, che per lui non sarebbe altro che il nulla. Tu non soffrirai, tu sei mio figlio.
Posa il volto sulla piccola spalla di lui,
stringendoselo al petto come l'ultimo tesoro rimasto su questa terra. Una,
forse l'ultima lacrima della giornata le sfiora raminga la guancia, perchè
mentirgli è come sentire un peso ancora più grande nel petto. Seppur sa già che
lui percepisce nettamente ogni sfumatura d'angoscia che tenta miserabilmente di
nascondere dietro quella falsa tranquillità. Quand'è cominciato tutto questo,
da quando, ha smesso di sorridere?
"Vai a dormire ora, è tardi" posa le
labbra sulla fronte del figlio, che s'allontana obbediente, osservandola con un
minimo di compassione negli occhi tondi, da bambino, che possiede. Non guardarmi con quell'espressione, non
essere così uguale a lui.
Rimane così, in ginocchio, attendendo come faceva
spesso sua madre, che lui se ne sia andato, prima di potersi liberare della
maschera che indossa giornalmente.
Si piega su sè stessa, in avanti, come uno stelo
spezzato dal vento e copre gli occhi scuri con entrambe le mani. Possono due
spalle così piccole come le sue, reggere una sofferenza ed un segreto così
grandi?
"Come posso far finta che non sia accaduto
nulla? Come posso tornare indietro per rimediare a tutti i miei errori? Dimmelo
tu..." volge lo sguardo verso la porta chiusa, osservandola con mille
frammenti di dolore trapunti nelle iridi scure. Si alza, muovendosi circospetta
verso l'uscio, per aprirne uno spiraglio prima di spalancarla.
Non chiede permesso, si fa avanti silenziosa
fermandosi dinanzi all'ombra di colui che un tempo era vita.
"..." Ogni giorno, per due anni, ha
attraversato quella stanza vuota. E ad ogni passo, martoriava la mente per
cercare le parole giuste da dire, il gesto più semplice da compiere. Nulla. Per
tutto il tempo è sempre rimasto tutto invariato, lei, una semplice spettatrice.
Lui, l'attore incontrastato della tragedia.
Eccoli, i suoi occhi vuoti che la osservano da
quella seggiola, dalla quale non si alza da chissà quanto. Inespressivo,
totalmente vitreo di tutto. Pare che sia passata qualche entità maligna a
rubargli l'anima, per portarsela chissà dove all'inferno.
Inuyasha,
vorrebbe chiamarlo, come aveva fatto per l'ultima volta il giorno in cui si
erano salutati all'aeroporto. Eppure le sue labbra non si muovono.
"... Ogni giorno vieni qui..." comincia
lui, rimanendo ad osservarla immobile, come se stesse guardando qualcosa al di
là della sua figura ferma sulla porta.
"...ed ogni giorno ti ripeto sempre la stessa
domanda..." se avesse potuto contare le volte, tutte le innumerevoli volte
in cui quelle parole le hanno frantumato la voglia di vivere, non avrebbe più
possibilità di ricordarne il conteggio. Perchè ogni giorno, quel sentimento che
ancora stringe nel petto subisce un nuovo tramonto, che affonda inevitabilmente
con quella voglia di piangere che si esimia dal mostrargli.
"Chi sei?" battuta finale, concessa solo
e soltanto a lui. Lei però, da brava spettatrice non risponde. Scuote solamente
il capo per poi allontanarsi e richiudersi la porta alle spalle. Cosa, che diavolo dovrei dirti? Sono la
madre di tuo figlio, sono colei per cui hai rischiato tutto questo, sono la
donna che ti aveva promesso che t'avrebbe aspettato. E ho intenzione di
mantenere la parola data...