Questa fan fiction è zeppa di spoiler
della quarta serie, fino alla puntata dedicata a Cook: la lettura
è consigliata a chi ha già visto la 4x03,
perché risulta più comprensibile e, ovviamente,
non spoilera nulla xD.
Runner
– 16 Marzo.
“No. Io non
sono migliore di tuo padre. Tu lo sei: non scappi dalle persone che
hanno bisogno di te.”
JJ a Cook, 3x10 Finale
La vita di Cook era sempre stata una corsa a perdifiato.
Aveva corso sin da bambino, guardando tra gli spalti in cerca di lei,
rincorrendo una palla bianca e nera: “Jimmy”, come
lo chiamava sua madre, non si stancava mai di combattere, non aveva
paura di buttarsi, non temeva le ferite. E se anche cadeva, si rialzava
dalla polvere con un cipiglio agguerrito e riprendeva a giocare con
più grinta di prima, incitato anche da qualche sporadico
“Vai, Jimmy!” - musica per le sue orecchie.
“Jimmy” aveva un bel suono. Lo stesso del
complimento di Ruth, concesso con un sorriso, per il goal segnato; era
solo una frase di circostanza, buttata lì tra un sorriso e
un occhiolino all’allenatore della squadra junior, ma a Jimmy
non era mai importato più di tanto: era bello, il suo
complimento.
E anche quel soprannome era bello, tanto che, per la finale di
campionato, lo aveva voluto sulla maglietta: così, se faccio
goal, lo posso dedicare a mamma. La partita cominciava alle tre, gli
spalti erano gremiti di gente alle due e mezzo; alle quattro meno un
quarto lei non era ancora lì. A pochi minuti dalla fine,
James aveva scorto una testa rossa tra la folla e ingranato il turbo,
mettendo in rete la vittoria e indicandosi con i pollici la schiena:
è per te, ma'. E quando l’aveva trovata negli
spogliatoi, con le mani nelle mutande dell’allenatore e
troppo alcol in corpo per ricordarsi di qualsiasi cosa, Jimmy si era
tolto la maglia e l’aveva lanciata lontano, sul ciglio della
strada, per poi cominciare a correre, con le sue gambe fatte per
rincorrere le nuvole: da quel momento in poi, si sarebbe chiamato Cook.
Aveva corso quell’ultima epica notte di sfacelo in cui sua
madre lo aveva sbattuto fuori di casa, maledicendo il giorno in cui
aveva partorito quell’ingrato coglione, figlio degno di suo
padre. Lui se n’era andato ridendo, troppo inebriato dal
senso di libertà, dato dalle numerose pasticche che gli
fottevano la testa, per riuscire a distinguere le urla disperate di
Paddy da quelle rabbiose e annaffiate di Ruth.
Si era svegliato il giorno seguente, nel capanno di Freddie, un senso
di vuoto nel petto, lì, dove fino al giorno prima stavano,
rassicuranti, le risa ammirate di Pads. Non aveva più una
casa, aveva perso definitivamente sua madre e abbandonato suo fratello:
non gli rimanevano altri che Fred, JJ e le buste di MDMA nella tasca
dei pantaloni – anticipazione del suo glorioso futuro. Si era
rialzato, si era asciugato le lacrime e aveva ricominciato a correre,
non riuscendo più a fermarsi.
JJ e Freddie lo avevano accompagnato per un bel pezzo, da quel giorno,
impedendogli di finire fuori strada, di rovinare nella scarpata: erano
le sue balaustre, il suo unico punto di riferimento per non cadere del
tutto.
Poi però, mentre lui rideva, urlava di più,
tratteneva lacrime e riempiva la testa di tutto tranne che di pensieri,
era arrivata Effy; per lei, se ne erano andate le – poche -
certezze che Cook aveva: i suoi due amici - Brothers for life, vero,
Freddie? -, e se stesso. Si era rispecchiato in lei più che
in nessun altro, credendo di aver trovato qualcuno con cui correre. Ma
benché si capissero bene e sembrassero molto simili
– entrambi sempre in viaggio, irrequieti, con il cuore
pesante e il sorriso leggero -, le scelte opposte che compivano li
rendevano diversi: Cook sceglieva di rischiare, Effy di indietreggiare.
Perché lui non aspettava altro che riuscire a fermarsi,
finalmente, e mettere radici; desiderava solo sdraiarsi e guardare
le nuvole passare, senza più inquietudini, senza essere
obbligato a rincorrerle, avendo già trovato il suo posto nel
mondo. Effy era spaventata a morte dall’idea di sedersi e
trovare la felicità tanto anelata; temeva che, una volta
raggiunta, questa l’avrebbe delusa e ferita, costringendola a
riprendere il suo vagare con una gamba rotta: avrebbe fatto
più male e la serenità, prima della caduta,
l’avrebbe resa soltanto più debole.
Cook rincorreva le nuvole, cercando di colmare il vuoto nel petto, a
cui non si rassegnava; avendo imparato a convivere senza la
serenità e temendo il dolore che perderla avrebbe causato,
Effy fuggiva dalle nuvole.
Questo però Cook l’aveva capito soltanto nel
momento in cui aveva notato la tristezza nei suoi occhi chiari, sul
sedile di quella macchina rubata, come risposta alla sua frase
– tutto sommato – fiduciosa: “Siamo
sempre io e te, saremmo sempre io e te.” Lui stava correndo
verso qualcosa, pieno di speranza: andava verso un mondo che li avrebbe
trattati meglio e che avrebbero affrontato insieme. Al contrario, Effy
stava scappando dai suoi sentimenti e lui non avrebbe mai potuto fare
nulla per convincerla a sedersi accanto a sé: la decisione
era solo sua. Ed Effy aveva scelto Freddie, quella sera.
Il fatto che Cook conoscesse già i sentimenti della ragazza
non lo aveva affatto protetto dalla fitta al cuore che lei, con un
lieve movimento del capo e uno sguardo, era riuscita a infliggergli.
Quello sguardo azzurro ormai lontano dal suo viso aveva decretato la
sentenza; così, sputando insulti e lacrime, se ne era andato
da quella stanza, con una bottiglia di vodka in mano, ed era andato a
cercare rifugio da un altro Cook, solo quanto lui. Purtroppo, anche
sapere già che suo padre era un egoista coglione non era
stato d’aiuto: avrebbe preferito sentire il dolore del
fumogeno che gli bruciava la guancia piuttosto che quelle parole:
“Non me ne frega un cazzo,figliolo, non ti ho mai voluto
davvero.” Facevano un fottutissimo male e rimanevano
indelebili sotto la pelle – “Cook”,
recitava la scritta sulla sua mano destra -; con Effy e Freddie persi
l’uno negli occhi dell’altra e JJ al timone della
barca rubata di suo padre, a Cook non era rimasto altro che riprendere
la sua corsa, di nuovo.
Quel giorno sul fiume qualcosa era cambiato dentro di lui e, prendendo
Eff come esempio, aveva cominciato a scappare per non sentire
più tutto quel dolore del cazzo; aveva rubato macchine,
fumato, bevuto, vomitato, ingoiato pasticche colorate dello zio Keith,
pianto; aveva sputato con amarezza, scopato con rabbia e riso con
incoscienza: aveva corso sempre più velocemente, con lo
sguardo pieno di lacrime rivolto verso il cielo, in una muta preghiera.
Il solito vecchio Cook, con un tatuaggio in più e altre,
nuove, brucianti cicatrici, che tanto aveva fatto, di cui nulla
era rimasto.
Ma dalla notte di Shanky tutto aveva preso una piega inaspettata: la
prigione prima, sua madre dopo. Lei, Ruth, non era cambiata per nulla:
la solita sexy, ingombrante, alcolizzata, non-madre artista dai capelli
rossi che gli aveva sbattuto la porta in faccia con in mano una
bottiglia di Pinot Grigio. Paddy invece era cresciuto molto, a suon di
“Ace of Spades” e di gemiti osceni al piano
superiore, quel piccolo nano dai piedi puzzolenti e il sorriso
ingombrante, e aveva preso quasi tutto da lui: l’aria
furbetta, le orecchie, il modo in cui gridava “Fanculo alla
mamma!”. Usavano lo stesso tono e lo stesso sguardo: rabbia,
contro quella macchina.
Fu solo allora, vedendo il suo fratellino fottersi il cuore dal dolore,
e gridare, e maledire sua madre, che Cook capì che, forse,
era il caso di fermarsi. Gliel’aveva già detto
Freddie – qualsiasi cosa tu stia
facendo, puoi smetterla, amico
–, poco prima, ma solo allora sentì davvero il
bisogno di farlo; non per sé, per Pads. Perché
mentre Cook era impegnato a correre e a cercare, a straziarsi per Effy,
a buttar giù pasticche, lontano da quella casa, lui era
rimasto con Ruth e aveva passato ogni sera a vederla divisa tra
bottiglia e lenzuola - com’era successo a James prima di lui.
Avevano la stessa storia, loro due: nessun altro capiva. Ma non era
necessario che la storia di Pads finisse come quella di Cook, ridottosi
a picchiare a sangue il primo sconosciuto che passava sotto il suo
pugno perché tutti si facevano solo i cazzi loro,
trattandolo di merda. Non era necessario che seguisse il suo esempio,
ma l’avrebbe fatto; James lo sapeva e, benché lo
ferisse ancora una volta, decise di far crollare a Paddy il suo mito.
Decise di fermarsi – sotto un albero, su una coperta, con
Naomi affianco – e di chiedere scusa. A Shanky, a Sophia, a
Freddie.
La prigione era un buon posto dove dare una svolta alla propria vita,
dove smettere di scappare: quando sarebbe uscito – pensava
dalla sua cella senza finestre e senza foto di Eff – avrebbe
ricominciato a rincorrere le nuvole, con le sue gambe fatte apposta,
andando alla ricerca, ancora una volta, di un'occasione.
Un semplice tributo al mio personaggio preferito di tutto Skins, il
mitico Cookie; credo che su lui e Freds arriverà presto
un’altra fan fiction: stay tuned, gente!
Grazie a chi leggerà e eventualmente commenterà.
Un abbraccio a Kaho, fantastica beta <3
Elena
Fanfiction partecipante all’iniziativa “2010: a
year together” indetta dal Fanfiction Contest –
prompt scelto: aveva gambe fatte per rincorrere le nuvole.
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