Capitolo 1
La porta
della biblioteca si spalancò
all’improvviso e i tre occupanti si girarono per vedere cosa
stava succedendo.
Qualche attimo prima, da dietro la porta chiusa, avevano udito delle
voci alzarsi in un alterco, poi la porta si era aperta e i toni della
diatriba si erano smorzati.
Philip Price, chirurgo e primario del Western Maine Medical Center, era
in riunione da quel pomeriggio con altri due luminari della sua
clinica, il dottor Greenway, neuro psichiatra e il dottor Sage del
reparto pediatria.
Stavano dando un aggiornamento completo agli schedari, lavoro che
durava ormai da due giorni, a causa dei nuovi macchinari che erano
stati installati da poco: un nuovo e complicatissimo apparecchio per i
raggi X, un’ala completamente rimodernata al reparto
Neonatale, due nuove e super attrezzate sale operatorie,
computer,monitor, cercapersone, interfoni in ogni stanza e per finire
un supplemento di barelle per il pronto soccorso.
Si erano portati a casa di Phil buona parte del lavoro, in modo da
poter essere operativi nel più breve tempo possibile.
Più tardi li avrebbe raggiunti anche John Reynolds, vice
primario e miglior amico di Phil dai tempi in cui studiavano medicina
al College.
Si trovavano appunto a casa del primario in quel momento, a lavorare
alacremente. Per questo motivo Philip aveva chiesto a Gwendalina, loro
governante da anni e donna di fiducia, di non lasciare entrare nessuno
che potesse recare loro disturbo e si era caldamente raccomandato che
quando fossero rientrati in casa, i gemelli non avrebbero dovuto
cercarlo finché non avesse finito. Era stato categorico su
questo. L’unica persona che attendevano con impazienza era il
dottor Reynolds, ma essendo ormai di casa, era impensabile che andasse
a litigare proprio con la domestica e in un momento così
delicato per giunta!
Impossibile che fosse Johanna, perché la moglie era
impegnata in un tour de force con i nuovi giovani avvocati che si erano
associati al suo studio legale quindi era più che plausibile
che fosse ancora al lavoro e non sarebbe rincasata se non in tarda
serata. Inoltre, nemmeno lei avrebbe osato discutere con Gwen.
Quindi, a maggior ragione, Philip s’infastidì per
quell’inattesa intrusione.
Aveva appena versato per sé e per i suoi colleghi un
generoso bicchiere di scotch quando udì le voci e si era
appena riseduto al lungo tavolo di mogano pieno zeppo di carte, di
fronte ai suoi colleghi, quando la porta si era aperta.
Le voci concitate si erano spente di colpo e Philip, il dott. Greenway
e il dott. Sage avevano fatto tintinnare i cubetti di ghiaccio dei loro
drinks per voltarsi a vedere cosa stava succedendo.
Philip si alzò appena in tempo per vedere suo figlio entrare
precipitosamente nella stanza, lottando con la domestica che cercava di
trattenerlo.
Il ragazzo si liberò con uno strattone furioso ed
entrò in biblioteca, violando così uno dei Dieci
Comandamenti, quello appunto, che impediva ai gemelli di mettere piede
nel Sancta Sanctorum dei genitori: la biblioteca. Là ci
potevano andare solo se erano i genitori stessi a volerlo.
In casa Price, quando c’era da discutere di qualcosa come
lavoro, scuola, pagelle o prendere decisioni importanti, tutta la
famiglia veniva riunita nella biblioteca. Allora e soltanto allora i
gemelli potevano accedervi e questo caso specifico non era contemplato
nei loro lasciapassare. Era ancora in vigore il Divieto Assoluto,
perciò Benji stava deliberatamente disubbidendo al padre e,
cosa peggiore, lo stava facendo alla presenza di alcuni suoi colleghi
di lavoro.
Gwendalina lo sapeva bene e aveva cercato in tutti i modi di fermarlo.
Ecco dunque il perché della discussione.
Ma il ragazzo non aveva sentito ragioni. Pareva ci fosse qualcosa di
molto urgente e grave che lo turbava e pretendeva spiegazioni dal padre
su qualcosa di cui non era stato messo al corrente.
Philip si alzò quindi dal tavolo spingendo
all’indietro la sedia a scranno con il lungo schienale
intagliato.
-Ma che diamine sta succedendo, qui?!- chiese posando il bicchiere su
alcuni fogli.
Guardava suo figlio con un misto di curiosità e molta
irritazione provocata da quell’improvvisa e alquanto strana
intrusione.
-Non ti avevo detto che …
-Mi perdoni senor Price, perdoni! E’ tutta colpa mia
… io non ho saputo trattenere el nino, perdoni! Perdoni!
La governante era apparsa sulla soglia in tutta la sua rispettabile
mole e si stava prodigando in esagerati inchini, fregandosi
nervosamente le mani nel grembiule bianco che indossava quando era in
cucina. Qualche ciocca di capelli le era sfuggita, ricadendole
disordinatamente sulla faccia che era tutta rossa e congestionata,
segno che aveva avuto il suo bel da fare per impedire che il suo
padrone venisse importunato.
-Non ti scusare, Gwen, è tutto a posto - le disse benevolo
Philip. - Vai pure adesso, ci penso io a lui.
-Gracias senor!- disse lei di rimando e si eclissò
richiudendosi la porta alle spalle.
Quando era su di giri, indignata o preoccupata, la sua grammatica
diventava capricciosa, perciò finiva con
l’esprimersi nella sua lingua madre, sicura che i signori
avrebbero comunque capito.
Philip tornò a guardare il figlio, che stava a pochi metri
da lui, al di là del massiccio tavolo di quercia e lo
guardava con occhi pieni di collera.
Il dott. Sage e il dott. Greenway, tuttora seduti nelle loro scranne
altissime, fecero così conoscenza con uno dei gemelli di
Phil. La bambina doveva essere da qualche parte in
quell’immensa casa e con tutta probabilità non
sapeva della bravata del fratello. Avrebbe quantomeno cercato di
dissuaderlo e se non ci fosse riuscita, sarebbe venuta lì
con lui.
Sage e Greenway non gli staccavano gli occhi di dosso. Avevano visto
qualche foto dei figli di Phil quando lui ne portava qualcuna in
ospedale, mostrandole con orgoglio ai colleghi, ma constatarono che
quelle immagini, benché belle, non rendevano giustizia ai
gemelli.
Tuttavia, quello che videro in quel momento, negli occhi del bambino,
occhi di un azzurro quasi trasparente, aveva ben poco di bello. I
tratti del viso erano perfetti, come scolpiti nella porcellana; i
capelli di un nero corvino, quasi con dei riflessi blu, erano in netto
contrasto con quegli occhi straordinari. Le iridi chiarissime erano di
un azzurro quasi bianco, contornate da una riga di azzurro
più scuro a fare da contrasto; le ciglia folte e arcuate
erano nere come i capelli. Erano occhi che inquietavano e chi non lo
conosceva, poteva benissimo pensare che quel ragazzino così
bello fosse cieco.
In realtà Benji ci vedeva benissimo e proprio in quel
momento stava fissando il padre con quegli occhi stranissimi, le
pupille dilatate per la collera.
I due medici notarono che era alto per la sua età. Indossava
un paio di jeans scoloriti, una maglietta da baseball bianca e azzurra
con la scritta 36 GORDON sulla schiena e le sue inseparabili Adidas.
Dalle foto che Phil mostrava loro, oltre che bello, poteva sembrare uno
di quei rompiscatole viziati come lo sono il più delle volte
i figli dei benestanti, piagnucolosi, con la erre moscia, e
quell’aria da frocetti indifesi.
“Questo qui invece” pensarono Sage e Greenway che
ormai viaggiavano sulle onde della telepatia, “ non ne ha per
niente l’aria.” Anzi, sembrava sapere il fatto suo,
ostentava sicurezza e determinazione, nonché una punta di
scaltrezza, tutti caratteri dominanti che aveva, senza ombra di dubbio,
ereditato dal padre, al quale il codice genetico aveva fatto
trasmettere al figlio anche quegli occhi straordinari.
Ma l’espressione, la collera e il terrore che vi lessero, li
rendevano inquieti.
Benji distese gli angoli della bocca in un sorrisetto enigmatico, come
se fosse consapevole delle sensazioni che aveva suscitato in loro, poi
tornò a concentrare la sua attenzione sul padre, che aveva
girato intorno al tavolo ed ora gli stava di fronte, con le mani
piantate sui fianchi ed il cipiglio poco rassicurante di un genitore
che ha appena subito un affronto dal figlio.
Non sembrava affatto il buon medico che ogni giorno salvava numerose
vite umane e si prodigava amorevolmente con i suoi pazienti, riservando
ad ognuno di loro una parola dolce o un incoraggiamento. Sembrava solo
un genitore stanco, alle prese con l’ennesimo problema
quotidiano.
Essendo il dottor Sage e il dottor Greenway entrambi scapoli,
assistevano con maggior interesse a quello scontro generazionale.
-Mi sembrava di essere stato molto eloquente sul fatto di non voler
essere disturbato per nessuna ragione, Benjamin, ma tu come al solito
…
-Che cosa significa questa, papà?- lo interruppe Benji
venendo subito al sodo e con uno scatto preciso del polso, di chi
è abituato a lanciare, fece arrivare sul tavolo la busta
bianca che teneva in mano, la quale atterrò con precisione
sul monticello di fogli che i tre medici stavano esaminando.
-Di qualsiasi cosa si tratti, ora non ho tempo.
-Ooh, si che ce l’hai! Dimmi che cos’è.
Phil guardò i colleghi per un attimo, come imbarazzato per
quello a cui stavano assistendo, quasi a volersi scusare, come se fosse
uno studentello al primo anno e non il primario di un ospedale, per
giunta loro capo!
-Benji, sto lavorando. Inoltre non mi piace per niente il tono con cui
ti stai rivolgendo a me. Ma se proprio vuoi saperlo, in quella busta
c’è la vostra iscrizione al Saint
Peter’s College che è appena stata accettata. Ora,
per cortesia, sali in camera tua e non appena avrò finito
qui termineremo questo discorso a quattr ’occhi.
Phil avrebbe voluto mollargli un ceffone. Sapeva bene che non tollerava
che le questioni familiari fossero udite da altre orecchie, anche se
erano quelle di colleghi e amici come Sage e Greenway.
Sembrava che lo avesse fatto apposta, ed era questo a mandarlo in
bestia. Parlargli in quel modo poi. E in presenza dei suoi
collaboratori.
-Mettitelo bene in testa: non ci andrò mai in quella scuola!-
Philip scosse la testa e fece un gesto di diniego, prese il figlio per
un braccio e sospingendolo verso la porta, si voltò verso i
colleghi.
-Vogliate scusarmi un attimo e perdonare questo inconveniente. Porto
questo discolo di sopra e vi raggiungo subito.-
-Non preoccuparti Phil, non è successo niente. Credo sia
piuttosto normale quando si hanno figli.- disse Greenway parlando per
entrambi, ma era chiaro che quel faccia a faccia li aveva un
po’ scossi. Doveva avere proprio un bel caratterino se osava
parlare al padre in quel modo. Altro che rompiscatole viziato! Aveva
inchiodato al muro il suo illustre padre, il primario e chirurgo del
Western Maine Medical Center. Mica roba da poco!
Tuttavia non si lasciò sviare. Il comportamento del figlio
di Phil nascondeva qualcosa, una specie di turbamento profondo che a
lui, rinomato psichiatra, non era sfuggito. Ne avrebbe parlato con Phil
a tempo debito.
-Accidenti!- commentò Sage colpito.
Phil scortò Benji fuori dalla biblioteca e sempre tenendolo
saldamente per il braccio lo trascinò su per lo scalone
centrale, svoltò a sinistra e dopo un breve corridoio
aprì una doppia porta bianca ed entrò, portandosi
dietro il figlio.
Era molto in collera e ora che l’aveva riportato
là dove avrebbe sempre dovuto essere, cioè nella
sua stanza, non poté evitare di esplodere.
Scrollò il suo ragazzo per le braccia, poi lasciandolo
andare, gli sibilò:- Si può sapere che cosa
diavolo ti è preso, eh? Ho fatto la figura
dell’idiota con i miei colleghi perché tu ti sei
permesso di interrompere una sessione di lavoro decisiva. Ora esigo una
spiegazione. Subito!!-
-Mi hai ingannato!- gli urlò di rimando e per nulla pentito
- Avevi detto che ci avresti almeno pensato e invece avevi
già spedito le iscrizioni!-
-Benji, io sono tuo padre. Esigo rispetto da te come da Rachel. Sono io
che ho l’obbligo di decidere per voi cosa è
meglio, e se ho scelto quella scuola piuttosto che un’altra,
il motivo c’è.
-Ma non hai nemmeno chiesto se noi eravamo
d’accordo!! Sai bene che cosa ti ho detto di quel
posto …
-Sì, lo so. Un mucchio di fesserie per non studiare, come al
solito. Ma ti avverto Benji, che questa volta non ci casco. Hai proprio
passato ogni limite.-
-Tu non mi ascolti!! Tu non vuoi capire!!- gli gridò Benji -
Tu pensi che io menta per il mio beneficio, ma sai che non è
così. Quel posto ha qualcosa che non va, qualcosa di
malvagio, lo sento! Non ve ne siete accorti anche voi?-
-BASTA!!- urlò Phil - Non sono più disposto ad
ascoltarti! Per te ogni luogo dove ci sia un po’ di
disciplina e studio ha qualcosa che non va!
Benji guardò incredulo suo padre, ansimando vistosamente,
dato che doveva urlare molto più di lui per farsi sentire.
-Tutto questo è pazzesco!
-Puoi ben dirlo figliolo. Sto qui a discutere con te di un argomento
che ormai considero chiuso quando ho del lavoro arretrato che mi
aspetta di sotto.
-Questo argomento non è affatto chiuso! Non finisce qui,
stanne certo!- minacciò Benji in un tono così
furente che Philip non si era mai sentito rivolgere da nessuno prima
d’ora.
-Non ti permettere mai più di minacciare tuo padre!!
Philip lo afferrò per le spalle e lo scrollò con
forza fino quasi a fargli battere i denti.
-Mi hai sentito? - tuonò Phil - Mai più. E ora
chiedi scusa.
-Non toccarmi! Lasciami! Lasciami andare!
Benji sembrava in preda ad una crisi isterica che preoccupò
Phil. Invece di scusarsi, si divincolò abilmente dalla
stretta del padre che lo tratteneva ancora per le spalle, mantenendosi
a distanza di sicurezza. La reazione del figlio era stata violenta e
inaspettata. Cercò tuttavia di non dare a vedere quanto
fosse rimasto sbigottito.
-Sai, vedendo come ti comporti, non posso che pensare di aver fatto la
cosa giusta, ogni giorno sempre di più.
-Certo, la cosa giusta per te - lo schernì Benji.
-No, mio caro, è qui che ti sbagli. Lo faccio per voi due,
per te e per tua sorella, perché non si dica in giro che non
vi ho tirati su come si deve.-
-Appunto. Lo fai per te. Per non perdere la faccia con i tuoi colleghi
…
Philip gli rise in faccia, cosa che ferì Benji
più di una coltellata.
-Smettila di affrontarmi di petto. Non è così
facendo che tornerò sulle mie decisioni. Mie e di tua madre.
Impara ad accettare una sconfitta per una volta, e vienine fuori a
testa alta. E’ così che va la vita, ricordatelo.
Benji fece un verso sprezzante. - Perché non lo vai a dire
alla mamma che una sconfitta ogni tanto non è poi
così grave! Te lo dico io perché se un avvocato
perdesse, non lo vorrebbe più nessuno! La gente assume gli
avvocati per vincere. E tu? Se perdessi, in sala operatoria, il
paziente morirebbe! Credi che sia così stupido da non
saperlo?
-E’ proprio perché penso che tu non sia stupido
che il tuo comportamento mi fa arrabbiare. Tu non hai rispetto per
nessuno, non ascolti nessuno, non vuoi essere contraddetto e vuoi
sempre avere ragione. Dimmi se ti sembra logico comportarsi
così. Io sono molto stanco di dover combattere con te per
ogni cosa, Benji, cerca di capirlo in fretta o d’ora in poi
sarà peggio per te.
Benji lo guardava di traverso, i pugni stretti in un atteggiamento di
sfida.
-Se tu mi stessi a sentire, qualche volta, non dovresti più
combattere con me e con Rachel. Voi non ci considerate per niente
quando c’è da decidere qualcosa che ci riguarda!
Se questo è il comportamento di voi adulti, beh, credo che
ci sarà ancora molto per cui dovremo lottare.
Fu il turno di Phil di stringere i pugni.
-Ora basta. Finiscila qui, per favore. Non cambierò la mia
decisione e tu non dirai di non averci provato. Come vedi, sono molto
tollerante, anche se una bella punizione non te la toglierebbe nessuno
e lo sai.
-Oh, certo. Scusa tanto se ti ho rubato del tempo prezioso, ma non ti
aspettare che ti chieda scusa. Non su questo argomento. Tu ci hai
tradito …
-E’ così che la pensa anche Rachel? Sono curioso
di sentire anche la sua, di campana. E non parlerei di tradimento,
Benji, piuttosto di educazione, parola che tu forse ancora non hai
conosciuto. Ma ti assicuro che, da oggi in poi, le cose cambieranno!
Sai, anche io odio essere contraddetto, specialmente da mio figlio e su
cose che sono più grandi di lui!-
-Maledizione! Perché, perché ti ostini a non
crederci?!-
-Perché quello che dite non è sensato!
E’ da pazzi dire che in quella scuola qualcuno o qualcosa sta
cercando di manipolarvi! E ti garantisco che, nel mio lavoro, ne vedo
di gente con le rotelle fuori posto! Inoltre non voglio che si dica in
giro che ho due figli visionari. Ti basta come spiegazione?-
-Come quella di medico basta e avanza, ma come padre, non saprei che
farmene di una spiegazione simile! Tu vuoi che io sia come te, ma non
ti accorgi che io non lo voglio essere! Per il semplice fatto che tu
non stai dalla parte dei tuoi figli. Né tu, né
John, né la mamma! Quello che veramente
t’interessa è salvare le apparenze! E’
vergognoso!!-
-Te lo dico io cosa è vergognoso, dolcezza! Il tuo
comportamento strafottente, tanto per cominciare, e
l’arroganza con cui mi stai parlando. Da un po’ di
tempo a questa parte sto notando questo e non mi piace per niente.
Siamo molto aperti come genitori e disponibili a qualsiasi tipo di
dialogo; sta a voi decidere se parlarne o meno, non è la
prima volta che te lo dico. Se c’è un problema o
qualcosa che vi turba, ne possiamo parlare.
-Sì, qualcosa c’è, papà, ma
l’argomento Saint Peter’s non è molto
ben tollerato da nessuno di voi! E questo è il nostro unico
problema.
-Se non vuoi che sfili la cinghia, non dire un’altra parola!
Benji tacque, fissando Phil come se lo odiasse.
-Ti ho già detto che devi imparare ad incassare. Il Saint
Peter’s è la tua prima lezione. Con questo ho
veramente chiuso l’argomento.
Benji era furente. In quel momento, provò un moto di odio
cieco per suo padre che gli fece paura. Lo aveva ferito, e gli aveva
riso in faccia.
-Ti odio!!- gli sibilò piccato e Phil lasciò che
si sfogasse.
-Odiami pure, se ti fa stare meglio, ma impara a perdere. A volte
succede.
-Io non sono un perdente!!- urlò Benji e gli si fece contro
minaccioso.
Phil decise che aveva tollerato abbastanza e cercò di
abbrancarlo. Gli riuscì di afferrare un lembo di stoffa
della maglietta, e fu sufficiente. Il suo braccio scattò
all’indietro, e in rapida successione, lasciò
partire due schiaffi che colpirono Benji in pieno viso, facendolo
cadere a terra.
Per un attimo rimase bocconi sul pavimento, rintronato dai ceffoni che
si era preso. Quando si rialzò, Philip vide che aveva le
guance arrossate e un rivoletto di sangue gli scendeva da un lato del
labbro inferiore, ma nei suoi occhi non c’erano lacrime!
Quei ceffoni avrebbero fatto lacrimare chiunque, che diamine,
pensò Phil, ma non lui, non suo figlio! Le lacrime avrebbero
significato la resa, e da quanto si erano detti, aveva tutta
l’intenzione di dare battaglia! Poteva avere la faccia un
po’ malconcia, ma i suoi occhi erano perfettamente asciutti.
Phil si passò una mano tra i capelli, un po’
scosso, ma continuò ad attendere quella normale reazione che
tutti i bambini avrebbero avuto in una situazione analoga; era sicuro
che persino Rachel avrebbe pianto, ma le lacrime non vennero.
Mosse un passo verso Benji che, per istinto, indietreggiò
preparandosi ad una seconda razione di botte. Era raro che il padre
perdesse le staffe a tal punto, ma quando se lo meritavano, voleva che
la lezione venisse imparata una volta per tutte. Benji era andato
troppo oltre e lo sapeva, e in fondo era giusto così. Philip
aveva perso il controllo perché era da molto che quella
storia andava avanti e, sinceramente, non ne poteva più.
Aveva deciso di mettere i sigilli a quell’argomento e passare
oltre, ma Benji gli si opponeva testardamente ogni volta che la
questione veniva sollevata. Affrontarlo di petto davanti a tutti come
aveva fatto prima, era stata la classica goccia che aveva fatto
traboccare il vaso. Era la cosa peggiore che potesse fare, e lo sapeva.
Proprio per questo Philip era così arrabbiato con il figlio.
Di solito, era molto più tollerante, severo ma giusto, anche
se non erano mancate in passato punizioni esemplari, forse anche
peggiori di quella, ma adesso sembrava che i suoi figli stessero
prendendo una brutta piega, come se lui non fosse più in
grado di mantenere la sua autorità di genitore. Andava
ristabilita la gerarchia, ecco il perché di quella scuola.
Lo riteneva necessario per il bene dei suoi figli, anche se non
pretendeva di essere capito. Lui stesso, a suo tempo, aveva contrastato
suo padre per la stessa cosa, ed eccolo ora, brillante primario e
chirurgo a capo di un’intera equipe medica. E lo doveva
proprio a suo padre, alla fermezza con la quale aveva saputo mantenere
la sua decisione.
Si avvicinò ancora a suo figlio, che lo osservava con occhi
vigili, attenti, non sapendo bene che cosa aspettarsi.
-Piangi, Benjamin, so benissimo che ti ho fatto male. Chiunque altro
avrebbe pianto anche tua sorella. Le lacrime non significano la resa,
impara anche questo. A volte fa bene piangere, sfogarsi. Fallo, ti
sentirai meglio dopo, vedrai.
Benji fissò nuovamente il padre con quegli occhi indomiti,
ben deciso a mantenere fermamente la sua posizione. Con voce un
po’ incerta ma ostinata, ribadì: - Tu non mi ci
manderai in quella scuola, perché io non ci andrò!
Certo che ci voleva un bel coraggio per essere così
determinati in un momento simile. Phil non capiva il motivo di tanta
determinazione e ostilità. Quando parlò il suo
tono era gelido.
-Oh, si che ci andrai.
-No, mai!- urlò Benji stringendo i pugni.
-Bene - Phil parlò con voce calmissima, anche se gli
tremavano le mani - dal momento che con te le parole non servono,
considerati in punizione da questo istante fino a quando non
deciderò che può bastare. Non hai il permesso di
vedere Rachel e di lasciare la tua stanza finché non avremo
chiarito questa cosa. Ti do tempo fino a questa sera per riflettere sul
tuo comportamento e chiedere scusa. Per quanto riguarda il Saint
Peter’s non voglio più sentirne parlare.
Nonostante suo padre avesse appena emesso quella pesante sentenza, la
sua mente sconvolta si rifiutava cocciutamente di accettare quella
decisione, riuscendo soltanto a formulare quell’unica frase
che tanto faceva infuriare suo padre:- Non mi rinchiuderai mai in quel
collegio!
-Credo proprio di averlo già fatto, testa dura. Impara la
lezione: a volte si deve incassare. Non si può sempre
vincere. Prima lo capirai, meglio sarà per tutti! Riflettici
sopra.
Ciò detto, Philip uscì dalla stanza, chiudendosi
la porta alle spalle. Per evitare che il figlio gli corresse dietro
un’altra volta e ripetesse la sceneggiata davanti ai
colleghi, pensò bene di chiudercelo dentro a chiave.
Benji rimase a fissare la porta chiusa come un cane bastonato.
-Io non perdo mai!!- gridò - Mi hai sentito?! Non
andrò in quel collegio. Non ci andrò mai!!
Si avvicinò alla porta, aspettandosi che il padre lo
sentisse e tornasse indietro, ma non ottenne risposta. Con rabbia
picchiò i pugni sulla porta, accasciandosi contro di essa,
le braccia allacciate intorno alle ginocchia piegate.
Nascose il capo in grembo, e finalmente,
nell’intimità della sua stanza, non visto
né sentito, diede libero sfogo a quelle lacrime che il padre
non aveva avuto la soddisfazione di vedere.
Erano lacrime brucianti di sconfitta, rabbia, odio e risentimento,
sentimenti che provava per non essere stato creduto da suo padre.
C’era anche una punta di delusione.
Pensò a Rachel, ignara di tutto quello che era appena
accaduto. Avrebbe voluto tanto parlare con lei, sfogarsi, ma era
confinato in quella stanza improvvisamente troppo piccola per il suo
attuale stato d’animo.
Velocemente, come se si vergognasse di averlo fatto, di aver finalmente
pianto, si passò una mano sulla faccia, asciugandosi gli
occhi e si alzò in piedi. Andò alla finestra,
scostò le tende gialle e la spalancò …
Aveva sempre il suo olmo, la cosa che più lo calmava quando
non aveva nessuno con cui parlare. Chiuse gli occhi, inspirò
l’aria fresca e si mise in ascolto …
Le foglie dell’olmo frusciavano dolcemente, mosse dal vento,
e i rami che toccavano il tetto come dita protese, iniziarono a
tamburellare sulle tegole e sulla grondaia.
Benji ascoltava quel suono ritmico e ne traeva conforto. Gli
piaceva addormentarsi ascoltando quel suono, e al mattino lo ritrovava
puntualmente al suo risveglio.
Il vecchio olmo, che troneggiava nel giardino posteriore della casa,
era molto alto e aveva rami fittissimi. Ad una quindicina di metri da
terra, i rami erano ancora abbastanza robusti da poter sostenere il
peso di una persona. Alcuni di questi si protendevano fino al tetto
della casa, proprio sotto la finestra di Benji. Se avesse voluto,
infatti, gli sarebbe bastato salire sulla scrivania, scavalcare il
davanzale della finestra, e percorsi solo tre passi sulle tegole del
tetto avrebbe potuto, con tutta tranquillità, sedersi tra i
rami del grande olmo. Era molto pericoloso, certo, poiché le
tegole erano in pendenza e in alcuni giorni, il grosso ramo,
benché fosse robusto e praticamente appoggiato al tetto,
oscillava spostato dal vento. Inoltre, c’erano a dir poco una
quindicina di metri buoni che lo separavano dal suolo, e in caso di
caduta … beh, era molto pericoloso.
In realtà, Benji lo faceva da quando aveva otto anni.
Ovviamente, i genitori non ne sapevano nulla, altrimenti avrebbero
preso provvedimenti. Le uniche persone ad esserne al corrente, erano
sua sorella e suo cugino Devon, che ogni estate veniva in visita con
la madre, Patricia, sorella di Phil.
Era più che certo che con loro il suo piccolo segreto era al
sicuro, anche se Rachel a volte aveva paura di quelle prodezze da circo
del fratello, ed era tentata di dirlo ai genitori, ma fino ad ora non
lo aveva fatto, ed erano passati già due anni da quella
prima volta, quando Benji era uscito dalla finestra ed era andato a
sedersi in mezzo ai rami, in un comodo incavo del tronco, a godersi il
suo trionfo, guardando le facce terrorizzate di Rachel e di Devon.
Il signor Alexander era sparito già da un pezzo, quando la
zia Trisha veniva a passare qualche giorno a Portland, nella casa di
suo fratello Philip. Di solito era in estate che si fermava di
più ma quella volta era Dicembre, vicino a Natale. Benji se
lo ricordava perché Devon, di due anni più
grande di loro, gli aveva detto che i suoi genitori non stavano
più insieme, e che il suo ex padre, così lo
chiamava, si rifiutava di pagare gli alimenti alla mamma,
così quell’anno non avrebbe nemmeno avuto i suoi
regali di Natale.
Era stato allora che Devon, che all’epoca aveva dieci anni
mentre i gemelli otto, si era fissato con l’olmo del giardino.
Ne era sorta una controversia, e Devon, imprudentemente, aveva
sfidato il cugino, dicendogli:
-Perché non scavalchi la finestra e ci provi, piccoletto. Se
non te la senti… dirò in giro che ho un cugino
codardo!!
-Devon sei uno stupido!- l’aveva sgridato Rachel - Ma che
idee ti vengono in mente?! Non vedi che è tutto ghiacciato,
lì sopra?
Si riferiva al tetto, ovviamente, ma anche il ramo era carico di neve
ghiacciata.
Ma la sua vera paura era che il fratello accettasse la sfida. Benji,
infatti, si era alzato in piedi di fronte al cugino, e seriamente, gli
aveva detto: - Okay, io lo faccio. Ti dimostro che non sono un
cacasotto, ma tu bada di tenere la bocca chiusa con i miei,
perché se lo vengono a sapere, mi uccidono, e poi tu ed io
facciamo i conti.
Devon si era sentito a disagio, anche perché lui era il
più grande. E se gli fosse successo qualcosa? In fondo, era
stato uno stupido. Sapeva bene che suo cugino, anche se più
piccolo di lui, era un tipo tosto. Non avrebbe dovuto costringerlo.
Benji non lasciava mai cadere una sfida, lo sapeva, per questo si
sentiva un idiota.
-Okay, finiamola qui cugino. Ti credo sulla parola. Rachel ha ragione,
è troppo pericoloso.
-Ormai è troppo tardi per tirarsi indietro …
Benji aveva spalancato la finestra e una folata di aria gelida li aveva
investiti, facendoli rabbrividire dalla testa ai piedi.
-Benji, no! Vado a chiamare papà se lo fai!-
gridò Rachel.
-Non lo farai, e non mi succederà niente, sta a vedere.
Prima che i due potessero trattenerlo, era già sgusciato
fuori. Sul tetto ghiacciato rischiò di scivolare, ma con
agilità raggiunse il tronco e come promesso non successe
nulla, né allora né poi.
Quando rientrò, Rachel si mise a piangere, e Devon, con il
terrore ancora dipinto sul volto, gli disse che, secondo lui, non aveva
proprio tutti i venerdì a posto.
Lo sguardo di Benji scintillò, e la risposta che diede
convinse Devon a lasciarlo in pace. In futuro, nelle visite
successive, si sarebbe guardato bene dal proporre qualcosa di
pericoloso.
-Devi stare attento a quello che chiedi, cugino, perché
potresti ottenerlo.
Era chiaro che, già allora, Benji prendeva tutto sul serio e
non lasciava nulla al caso. Era più piccolo di lui di due
anni, ma non era uno stupido.
Quella volta a Devon convenne tenere la bocca chiusa su quanto era
successo, altrimenti le avrebbe prese di santa ragione, e lo stesso
doveva aver pensato Rachel, perché a distanza di due anni da
quell’episodio, nessuno sospettava di nulla. Tanto meglio.
Benji ascoltò ancora quel fruscio e il tamburellare dei rami
sul tetto, poi si ritrasse dalla finestra, andando a buttarsi sul
letto. Gli bruciavano ancora le guance e gli doleva la testa.
Non se la sentiva di arrischiarsi là fuori in quelle
condizioni.
Le discussioni con il padre erano sempre molto aspre e gli svuotavano
la mente, impedendogli di concentrarsi. Nemmeno il suo adorato olmo
avrebbe potuto confortarlo, quindi era del tutto inutile andare
là fuori.
Preferì buttarsi sul letto e, chiudendo gli occhi,
riflettere su tutta quell’assurda situazione.
Il fruscio dei rami in sottofondo, finì col farlo
addormentare. Scivolò nel sonno senza rendersene conto, e il
tamburellare lontano dell’olmo diventò a poco a
poco il rumore di passi pesanti in un corridoio …
… I passi si fermarono all’altezza della sua
stanza, e Benji che nel sogno stava leggendo un fumetto di quelli che
gli passava Rachel, staccò lo sguardo dal giornaletto e lo
posò sulla porta, terrorizzato, sperando che quei passi non
fossero reali, sperando che avrebbero proseguito oltre, senza badare a
lui. Era strano, sapeva che era un sogno, che non era reale, eppure
…
Percepiva una strana sensazione di deja-vù, e non poteva
fare nulla per fermare il corso degli eventi …
La porta si stava aprendo lentamente, con un lieve cigolio, come nei
film dell’orrore. La luce sembrava essersi affievolita, e
sulla soglia della stanza apparve la figura di un uomo dal cranio
completamente calvo.
Le orecchie spuntavano ai lati della testa come due manici di scopa. Il
resto di quella faccia era in penombra, e non si riusciva a scorgere
altro.
Benji tremava e stava sudando. Evidentemente conosceva
quell’uomo e ne aveva il sacrosanto terrore. Era nervoso e si
alzò di scatto. Il fumetto gli scivolò tra le
mani e cadde per terra. Le pagine frusciarono e il libro rimase aperto
a metà sul pavimento.
Nel sonno, Benji si agitò convulsamente, cercando di
svegliarsi da quel brutto incubo. Aveva la pelle d’oca ed era
coperto di sudore. L’uomo calvo rise, gettando indietro il
capo.
-Io controllo la tua mente, non mi puoi sfuggire, io sono il padrone
della tua mente! Non cercare mai di fare il furbo con me, potresti
pentirtene, lo sai bene!!
Improvvisamente, dei dolori fortissimi gli attanagliarono la
testa come una morsa crudele, e Benji, spaventato, tornò in
sé con un grido. Balzò giù dal letto e
barcollò fino alla porta del bagno che c’era nella
sua stanza.
I dolori erano fortissimi e Benji, gemendo, si appoggiò al
lavabo con la testa china e gli occhi chiusi. A tastoni
cercò la manopola del rubinetto e la girò. Un
getto d’acqua iniziò a scorrere nel lavandino, ne
sentiva il rumore, ma era troppo terrorizzato per aprire gli occhi e
guardarsi intorno. Aveva ancora la pelle d’oca e quel dolore
improvviso e acuto non si accingeva ad affievolirsi.
Si spruzzò un po’ d’acqua fresca sulla
faccia e si costrinse a farsi coraggio. Aprì gli occhi e si
guardò intorno. Era la sua stanza, il suo bagno. Da dove
era, vedeva il letto tutto sfatto, la finestra ancora aperta, con le
tende che oscillavano al vento, la scrivania con appeso sopra il muro,
il poster di Tom Gordon, il lanciatore di chiusura dei Red Sox, il suo
idolo.
Se si fosse sporto ancora un po’, avrebbe visto
l’armadio e la porta della stanza. Non c’era nulla
di strano, tutto era esattamente dove avrebbe dovuto essere.
Ma allora perché quell’incubo lo aveva
così spaventato? E quell’uomo? Aveva
così paura perché nel suo incubo sapeva benissimo
chi era.
E che dire di quel dolore così acuto e devastante? Aveva
forse a che fare con l’Uomo Calvo e le strane parole che
questi gli aveva detto?
Come se lo avesse evocato di nuovo, una fitta lancinante gli
trapassò la testa. Il terribile dolore gli
strappò un altro grido, ma stavolta era ovattato, come se
venisse da lontano. La vista gli si offuscò e si accorse che
stava perdendo la presa sul lavabo. Le sue dita semplicemente
scivolavano via, e i muscoli delle gambe non lo sorressero
più.
Cadde all’indietro, sbattendo la testa contro lo stipite
della porta. Dalla ferita che si era procurato sul lato sinistro della
tempia, prese ad uscire del sangue.
Giacque svenuto, ma prima di perdere completamente i sensi,
cercò di fare un’ultima cosa: chiamò
Rachel ma non una parola uscì dalla sua bocca.
L’aveva chiamata col pensiero, come aveva fatto con lui
l’uomo calvo del suo incubo. Gli venne naturale, quasi
spontaneo, come se lo avesse fatto da sempre, come se lui e sua sorella
fossero soliti comunicare in quel modo. Ed era più che certo
che lei lo avrebbe sentito. Ne era sicuro perché
c’era di mezzo quello strano uomo.
Aiutami Rachel. Non so cosa mi sta succedendo! Aiutami solo tu puoi
farlo …
L’ultima cosa che udì prima di perdere i sensi, fu
la terrificante risata di quell’uomo che non conosceva ma che
al tempo stesso sapeva chi era, dato che nel suo incubo ne aveva avuto
paura.
Era di sicuro qualcuno che gli avrebbe procurato dei guai.
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