forestatelefonica
E da un branco una tribù che va
da un villaggio una città
gente che respira a tempo
uomini rinchiusi dentro scatole di pietra
dove non si sente il vento
Ma la voglia di fuggire che mi porto dentro
non mi salverà
[Banco del Mutuo Soccorso, Cento Mani e Cento Occhi]
Rincorsa di piccoli passi sulle
punte, busto leggermente inclinato in avanti, piede d’appoggio parallelo alla
direzione voluta, ginocchio e caviglia completamente estesi. Sarebbe stato un
perfetto sinistro di collo pieno in uno stadio, invece la punta del piede
sfiora appena il pacchetto di sigarette cui sta mirando, un bersaglio troppo piccolo ed insignificante
per quella rincorsa perfetta. Un pacchetto vuoto in un paesaggio desolato e
deserto come una pianura lunare, su un marciapiede troppo largo, come se si
fosse espanso fino ad inglobare la strada rimasta piccina piccina, come un
torrente nella siccità. E visto il caldo, può benissimo essere stato il sole ad
asciugare la strada fino a ridurla ad un rivolo nero.
Cosa sta facendo lì? Perché, voi
che leggete cosa state facendo? Semplicemente non ha di meglio da fare, proprio
come voi ora. Capita, alle volte. In verità, qualcosa da fare l’avrebbe anche
avuto, ma davvero gliene hanno fatto passare la voglia. Ce li abbiamo tutti
questi giorni, quando il telefono squilla sempre e qualsiasi problema esiste
perché sei tu che non lo sai risolvere, e non perché qualcuno lo ha creato.
Ecco, questo per lui è uno di quei giorni. E non vede l’ora che passi, anche se
è ancora mattina. E l’unico modo per farlo passare in fretta è cercare un po’
di compagnia, anche se lui detesta l’idea. Fa sempre così, lui. Tende alla
malinconia ed alla solitudine, e quando sta male per un po’ non chiama nessuno.
Ma alla fine cerca una cabina telefonica (mai posseduto un cellulare, per
scelta) e, come un paziente prende una medicina controvoglia, chiama l’amico di
turno. Major Tom, lo chiamano, e non sa se sia un complimento o un modo per
descrivere quanto sia alienato, ma a lui piace pensare che siano valide tutt’e
due le versioni.
La cabina è appoggiata contro la
parete di cinta al lato della strada, cento metri più avanti. Deve essere una
specie di porta magica per un altro mondo, visto che non esistono altre cabine
così strane. Sembra vecchia qualche decina d’anni, ed è letteralmente
appoggiata contro il muro, nel senso che se non ci fosse il muro accanto cui
sorreggersi, probabilmente rovinerebbe nell’arida polvere del marciapiede. E’
ricoperta di edera, all’apparenza anche all’interno, solo il telefono è
misteriosamente libero dalle foglie, forse tagliate di recente da un altro
utente della cabina. Il telefono è vecchio e coperto di graffi, alcuni sembrano
unghiate, magari lasciate da un amante deluso litigando con chissà quale donna
che adesso dopo tanti strepiti ha già dimenticato, o semplicemente da qualche
teppista. Dall’interno proviene un odore che stona con la periferia urbana, un
aroma di sottobosco, foresta e muschio.
Ancor di più stona con quella
desolazione. Il nostro uomo è decisamente incuriosito da quel corpo estraneo.
Un lussureggiante angolo di foresta condensata. Chissà quante specie mai
osservate da un biologo si formano dentro una cabina telefonica
rinselvatichita, si domanda. Sogna per un attimo che magari, infilandoci la
testa dentro, si sentano i richiami delle civette e gli ululati dei lupi, e si
ritrovi in un posto dove non esista alcun altro essere umano che lui. La
libertà dagli obblighi sociali, e la sottomissione alle sole leggi di natura,
dentro una cabina telefonica di periferia.
Rimane a fissarla, non ha voglia
di entrarci e sfatare il mito trovandosi solo un telefono pubblico e niente di
più tra le mani, ha bisogno di indulgere un altro po’ nelle sue cullanti
fantasie di richiami della foresta e porte verso mondi sconosciuti. Chissà di
quali misteriose entità è possibile comporre il numero, servendosi dell’enigmatico
vecchio apparecchio consunto dentro la cabina-foresta, si chiede. E’ difficile
immaginare chi sia stato chiamato da lì l’ultima volta, e come sia iniziata la
lenta e inesorabile ricrescita del verde e dei rami, tali ormai da avvolgere
interamente la plastica e il vetro come un lottatore in un abbraccio mortale.
Sola opera umana interamente distinguibile in quel ammasso di materiali mal
assortiti è il telefono, del resto graffiato dagli artigli di una volpe, o
forse di qualche bestia ancora più strana. La cornetta, più che un semplice
attrezzo per parlare, sembra lei stessa avere molte storie da raccontare.
Basta, adesso si torna alla
realtà. Cerca il portafoglio nelle tasche del jeans e vi estrae con fatica un
paio di monete, sperando che l’apparecchio annidato all’interno sappia cosa
sono le monete, vista la sua apparenza primitiva, e soprattutto sperando che
sotto tutto quel verde ci siano ancora abbastanza cavi telefonici per
garantirne il funzionamento. Finalmente muove un passo dentro e allunga una
mano verso la cornetta. Sfiora appena il metallo, prima di compiere
immediatamente un balzo indietro, come se fosse stato colpito da una scossa ad
alta tensione. In un istante la monotona e noiosa routine della telefonata dal
telefono pubblico viene rimpiazzato dallo stupore e da una di quelle scariche
di adrenalina che rincula il cuore dentro la gola in un sol colpo. Il fatto è
che dentro la foresta c’è davvero. Una foresta telefonica.
Una foresta telefonica. Una
foresta telefonica? Ma che roba è una foresta telefonica? Impreca tra i denti.
Lì dentro c’è un bosco. Un bosco vero, con gli alberi, gli animali, i suoni e
gli odori del bosco. E un telefono. C’è anche un telefono. Un telefono
inchiodato contro il tronco di un albero enorme. Ma certamente lo ha solo
sognato, pensa appoggiato contro la porta della cabina, con la mano destra
appoggiata sul cuore nel tentativo di impedirgli di schizzare via come uno
yo-yo. Lo ha sognato. Cerca di razionalizzare. Una foresta telefonica è una
cosa senza senso, semplicemente è impossibile. Pertanto è lui che ha visto una
cosa che non c’è. Semplicemente, lui ha bisogno di un medico, possibilmente uno
bravo. Ma è appoggiato su una normale cabina telefonica, non una foresta
telefonica. Perché le foreste telefoniche esistono solo nella testa dei malati
di mente, ma nella realtà proprio non ci possono essere. Non esiste, sta
impazzendo. Magari è il caldo afoso dell’estate italiana, magari è qualcosa che
ha mangiato. O peggio, il cervello non gli funziona più come deve, ipotesi
terribile. Ma mai terribile come ritenere possibile che esista davvero quello
che ha intravisto dentro quella maledetta cabina.
Quando il cuore inizia a rallentare
e il respiro si fa meno affannoso, si accorge del formicolio alla mano
sinistra. Sicuramente, ne avrebbe fatto a meno. Sul palmo della mano, proprio
sotto i suoi occhi basiti, si è posata una grossa farfalla marrone, con l’aria
di chi sia stata appena svegliata da un ospite sgradito e vorrebbe chiedergli
se quello sia modo di fare. Sicuramente un esemplare del genere si può ammirare
facilmente tra le fronde di una quercia o di un pino, ma molto difficilmente in
un centro urbano. E l’esemplare in questione lo sa bene, infatti dopo aver
timidamente sbattuto le ali, come in segno di saluto, si avvia con volo incerto
verso la porta della cabina, e sparisce al suo interno.
Lo avrete detto anche voi qualche
volta: ci sono casi in cui basta il peso di una farfalla per far crollare un
castello di illusioni. Ma difficilmente – a me come a voi – viene in mente un
caso del genere senza pensarci almeno per qualche minuto. Il nostro uomo da
questo momento in poi non solo avrebbe una memoria più pronta in proposito, ma molto
probabilmente non penserà ad altro per molto tempo. Adesso ha davvero bisogno
di chiamare qualcuno, deve allontanarsi da quella cabina maledetta e non
pensarci mai più. Non c’è altra scelta per conservare un barlume di sanità
mentale.
D’altro canto, sente veramente il
bisogno di conservarlo, questo barlume? La tentazione di girarsi e tuffarsi di
nuovo dentro è forte. Anche solo per vedere se la foresta c’è ancora. Magari
entrarci di nuovo potrebbe fugare ogni dubbio, e lui potrebbe tornare a casa sereno
e tranquillo. Niente foresta, solo il telefono. E tutto viene archiviato come
un brutto sogno, farfalla compresa. Fa per entrare, quasi convinto, ma dopo un
istante si ferma di nuovo. Non è per niente sicuro di voler sapere se ha
sognato oppure no, di quell’oggetto così impossibile e fuori dagli schemi non
gliene importa nulla, meglio non averci più a che fare. Meglio lasciarlo nel
regno degli interrogativi irrisolti piuttosto che avere qualche tipo di
conferma.
Si gira, inizia prima a camminare
verso casa, poi a trottare, quindi a correre, sempre più in fretta, come se i
branchi di lupi della foresta telefonica lo inseguissero, e rallenta solo quando
raggiunge una zona più familiare e affollata, quando è sicuro di esser tornato
alla rassicurante società e di esser fuggito alla spaventosa incertezza della
misteriosa visione selvatica, lasciata indietro a gran velocità, ma per nulla
dimenticata. In cuor suo, non vuole ammettere di non aver riprovato a prendere
la cornetta inchiodata al tronco solo perché ha più paura di smentire la sua
visione che di precipitarci di nuovo dentro: insomma vuole lasciarsi, per
qualsiasi evenienza, uno spiraglio verso la foresta.
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