16/03/05
Caro Diario,
non mi sembra vero che sono qui, con questa penna in mano, a scaricare tutto
ciò che provo su un inutile pezzo di carta. Non l’avevo mai fatto, mai. Io, Kei
Hiwatari, il freddo, distaccato, asociale, imperturbabile Kei.
Lo so, è questo che si pensa di me. Del resto, come potrebbe essere
altrimenti? Sono io. E’ il mio carattere, e nonostante ora io possa contare su
degli amici, ciò non toglie che io rimanga il solito, impassibile Kei. A volte
mi ritrovo a pensare come sarebbe se io divenissi come Takao: la mia vita
sarebbe più serena? Mi sentirei più felice? Più vivo? Non so. Fatto sta che io
non diventerò MAI come lui. E’ totalmente impossibile. Non è nei miei geni, non
sento quella energia sotto la pelle, non mi sento così pieno di calore… e non
riesco ad immaginarlo. Ormai non riesco più nemmeno ad immaginare. La mia
fantasia è scomparsa, dileguata, o forse semplicemente non è mai esistita. Forse
è stata troncata troppo presto, forse mi è stata strappata dal petto ancora
prima che io mi rendessi conto di possederla. Lo so, non dimenticherò mai quello
che mi ha fatto la mia famiglia. Mai. Non dimenticherò mai che mio padre ha
lasciato che fossi trascinato da mio nonno in quel monastero, nel luogo dove
ogni traccia d’ingenuità in me è scomparsa, è stata scacciata, rifiutata dalla
mia stessa volontà. Lo ricordo: stavo disegnando Dranzer, in camera mia, quando
ho sentito bussare alla porta. Era un suono secco, distinto, stranamente forte e
potente. Non ero abituato ad un tale tocco: Maia, la nostra donna delle pulizie,
era una ragazza minuta, dai piccoli polsi fragili, così sottili che più di una
volta pensai a cosa sarebbe successo se spolverando se li fosse rotti. Quando
bussava alla mia porta lo faceva con delicatezza, o forse semplicemente temeva
che se fosse stata troppo violenta sarebbe stato scortese, non so. In ogni caso
sussurrai un “ avanti ” distratto, ancora preso dal mio disegno.
Fu mio padre ad entrare. Ero alquanto sorpreso di vederlo in camera mia:
quando mi voleva parlare mi aveva sempre fatto chiamare per raggiungerlo nel suo
ufficio, anche quando la conversazione non avrebbe riguardato affari politici o
altro. Raramente mio padre mi donava un po’ d’affetto, raramente vi provava.
In ogni caso lo guardai mentre entrava in camera mia con quell’espressione
austera sul volto, i suoi occhi parevano gravati da una preoccupazione, ma dopo
pochi istanti la sua bocca si aprì in un sorriso sereno, affettuoso, che parve
voler scacciare la malignità del suo viso allo stesso modo del sole con la
notte.
- Cosa succede, papà? Come mai qui? - gli chiesi ancor più sorpreso nel
vederlo sorridere tutto a un tratto.
Fu allora che me lo disse. Mi disse che sarei partito con il nonno per
tornare nella nostra patria, la Russia, che avrei frequentato “ una prestigiosa
scuola di Beyblade ”e che così facendo sarei divenuto un campione. Questo fu
quello che mi disse. Sembrava entusiasta di questa scelta, le parole erano
marcate da una gioia che solo dopo scoprii essere falsa. Lì per lì fui quasi
felice a mia volta, ma poi il pensiero che mi avrebbe accompagnato il nonno
frantumò le mie speranze. Lo conoscevo, sapevo che tipo era, sapevo che ovunque
egli andasse portava solo malignità e astio, e capii. Capii che in realtà mio
padre mi stava abbandonando, mi stava allontanando dalla sua vita, per poi
scaricarmi sulle spalle di nonno Hito, come se non avesse voluto altro dal
giorno in cui ero nato, il giorno in cui mia madre morì. Lo guardai sospettoso,
e mormorai:
- Non voglio. - . Avrei voluto urlare, sbattergli le mie parole in faccia con
violenza, volevo incutergli addirittura paura, volevo che capisse che seppur ero
piccolo, volevo regolare da solo la mia vita, e non essere sbattuto da una parte
all’altra dei progetti di un uomo come un oggetto insignificante… e invece
quella volta non riuscii a fare altro che a mormorare, quasi avessi voluto
mostrare un mio capriccio e avessi avuto timore della sua reazione. Mio padre
sorrise nuovamente, e mi poggiò una mano sulla spalla.
- Tranquillo Kei, sarà solo per qualche tempo… e quando sarai tornato vedrò
un vero campione di Beyblade alla mia porta! Non ti piace più Dranzer? Non vuoi
diventare un fuoriclasse? - mi disse per rassicurarmi.
Io non sapevo più cosa pensare. Amavo il beyblade con tutta l’anima: era ciò
per cui ogni giorno mi svegliavo e sentivo di non essere solo un giocattolo tra
le mani di un grande uomo d’affari, ma un ragazzino libero, libero di fare ciò
che ama e di divertirsi, libero di coltivare le proprie ambizioni, libero di
accettare una sconfitta, libero di essere libero.
Fu proprio questo che in quel giorno venne distrutto. Frammentato, mutilato,
afflitto, torturato, annientato. Quel giorno firmai il contratto che eliminò
quattro anni interi della mia vita.
Quando arrivai al monastero Borkoff era fuori ad attendermi. Lui e mio nonno
si scambiarono un solo sguardo, e poi io fui portato dentro. Centinaia di
ragazzi si stavano allenando nel lancio del Bey, lo ripetevano migliaia di
volte, senza fermarsi mai. E chi crollava veniva insultato …e punito. Non
dimenticherò mai quando vidi le prigioni del monastero. Vi erano così tanti
ragazzi all’interno di quelle celle, così tanti giovani sofferenti e
disperati…segni scarlatti attraversavano i loro corpi, lividi violacei segnavano
i loro volti… Borkoff li guardava con disprezzo.
- Questo è quello che accade a chi viola le nostre regole, Kei… tienilo a
memoria. - disse. Poi si lanciò nell’intera elencazione delle norme che avrei
dovuto seguire… non potevamo ridere, non potevamo parlare tra di noi, dovevamo
essere in perfetto orario sempre e comunque, dovevano seguire alla lettera tutti
gli ordini dei guardiani del monastero… non potevamo vivere. Borkoff mi portò
alla mia camera: un letto malconcio, con appena un panno di cotone al di sopra
di esso, un comodino in legno scuro e una candela, spenta. Poi quando quell’uomo
chiuse la porta di acciaio, quando sentii i suoi passi echeggiare lontano da
essa, quando fui sicuro di esserne ancora in grado… piansi. Piansi con tutte le
mie forze. Non ho mai raccontato a nessuno di averlo fatto. A nessuno.
Quella fu la prima e l’ultima volta le lacrime percorsero le mie guance
all’interno del monastero.
Quando il mattino seguente, all’alba, uscii da quella camera, ero diventato
un altro. Dranzer era stretto nella mia mano destra, come un’arma che attende di
essere scagliata, ed è proprio quello che diventò. Avevo deciso. Volevo
diventare il migliore. Se dovevo rimanere all’interno di quella prigione, allora
mi sarei fatto avanti a gomitate, senza cedere mai, non avrei permesso a nessuno
di calpestarmi: se dovevo per forza essere uno schiavo, allora sarei divenuto il
più forte, il più crudele e distinto di tutti gli schiavi. Lentamente, diventai
sempre più simile ad un automa: niente mi soddisfaceva, niente mi rendeva
felice, vincere era divenuta per me la normalità, perdere una catastrofe. Ma io
non potevo perdere, io ero invincibile, la mia potenza non aveva limiti: potevo
arrivare ovunque. Divenni il più spietato, freddo, distaccato di tutto il
monastero. Non mi importava di nulla e di nessuno, cominciai addirittura a
disubbidire, e godevo anche nel farlo, perché seppur dopo fossi stato costretto
a sopportare torture indicibili, io ero libero, io ero il più grande. Poi lo
vidi in azione: Blackdranzer. Era quello il bey che mi meritava, quello era
l’unico bey degno di essere stretto nelle mie mani, e lo avrei ottenuto. Così
quella sera mi introdussi furtivamente in quella sala… e lo trovai. Era così
straordinario… riuscivo a sentire la sue energia scorrere nelle mie mani
semplicemente toccandolo.
Ma non era abbastanza esperto per lui. Non appena lo lanciai un’esplosione
avvolse tutta la sala, e mi investì. Persi la memoria. E devo dire che avrei
preferito non recuperarla. Avrei preferito non essere costretto a sfogarmi con
questi fogli.
Lo so benissimo, è giusto che io mi rifaccia una vita, che impari di nuovo ad
essere sereno, come sto iniziando a fare in compagnia di Rei, Max, Takao… ma so
che non riuscirò a dimenticare.
Ogni giorno, ogni mattino che mi alzo e vedo mio padre ricordo quel
pomeriggio, quando venne in camera mia e mi disse: “Non vuoi diventare un
fuoriclasse?”
Da quando sono tornato a casa non gli rivolgo quasi la parola. Lui tenta
continuamente di parlare con me, non so quante volte ormai mi ha chiesto scusa,
ma io non lo accetto. Troppo tardi, Troppo facile chiedere perdono ora, dopo
tutto quello che è accaduto. No, non gli permetterò di liberarsi da quel peso
sulla coscienza. Perché lo so che in realtà il suo è solo senso di colpa, lo so,
e questa è l’unica vendetta che posso ottenere su di lui.
La sola cosa buona che è riuscito a fare è permettermi di lasciare quel
dannatissimo college. Ora frequenterò la stessa scuola superiore di Takao e Max,
La “Mitsuaji”… spero di non passare dalla padella alla brace… del resto
non penso che sopportare Takao a scuola sarà un’impresa facile.
Per quanto riguarda lo studio… beh, per questo sarà davvero una passeggiata.
Con il college che ho frequentato dovrei essere avanti rispetto a loro di almeno
un anno…
Ecco, la donna delle pulizie è appena entrata… dice che mio padre vuole
parlarmi… chissà che novità… beh, col cavolo che ci vado. Ormai con lui ho
chiuso. Che si cerchi un’altra marionetta da manovrare, io a questo punto sono
fuori uso.