Something was Broken
Rientro
in casa. Dopo l’ennesima giornata passata
girovagando per le strade di Hollywood, sospiro, chiedendomi per
l’ennesima
volta che cosa voglio farne della mia vita. È una domanda a
cui non so dare
risposta. Non più.
Butto
le chiavi sul mobile vicino all’entrata, senza curarmi
del fragoroso tintinnio che producono. C’è caos,
in casa mia, c’è sempre
disordine ultimamente.
Ma
non c’è nessuno. È vuota, silenziosa.
Non c’è
televisione, non c’è computer acceso, non
c’è niente. Non c’è mai
niente. Ci
sono soltanto io, che vago come un’anima in pena fra queste
stanze che non
riconosco, buttandomi sul letto soltanto per dormire quei sonni leggeri
e
tormentati, vivacchiando in cucina per mangiare controvoglia.
Sono
dimagrito, me lo dicono tutti. Non m’interessa, non
m’importa.
Dovrei
essere felice. Dovrei perlomeno essere sollevato,
finalmente ho trovato un ruolo, un lavoro, finalmente qualcosa va bene.
Ma non
ci riesco.
Sono
solo.
Solo
come non mi sono mai sentito prima di adesso. Non
c’è
la mia famiglia, è lontana, io stesso ho voluto lasciarla in
Inghilterra,
venendo qui per cercare lavoro e fortuna. Non ci sono gli amici; amici,
come
no. L’unico vero amico che ho trovato è stato Ben;
e lui è lontano, adesso,
come la sua compagna, mia…sorella? Strano definirla
così. Non ci siamo mai
sopportati, ma ora più che mai avrei bisogno di vederla, di
sentire il suo
orgoglio cozzare col mio – sempre più vacillante.
È l’unica persona con cui
posso essere davvero me stesso, senza il terrore di vederla scappare.
Non
era l’unica. Non lo era, no.
-Moseley,
si può sapere dove passi tutte le tue cazzo di
giornate?-
Mi
sembra persino di sentirla. Prodigi dell’immaginazione e
della nostalgia.
-La
tua casa è un porcile!-
…no,
non la sto immaginando.
Incredulo
alzo lo sguardo, dopo essermi permesso, per la
prima volta da giorni, di abbassarlo, sconfitto e solo come so
benissimo di
essere – come non posso e voglio
mostrare
al mondo –. Sento un sospetto tramestio in cucina,
ed è lì che le mie
incredule falcate mi conducono, sempre più allibito.
-Si
può sapere che cosa ne hai fatto del mio vecchio
William, biondo?- ed è con questa frase sarcastica che fa la
sua entrata
teatrale, i capelli cortissimi e biondi che colpiscono come un pugno in
un
occhio, il corpo formoso posato con strafottenza contro il pianale
ingombro
della cucina.
Mi
sta guardando. Mi sta trapassando, con quegli occhi blu
tanto simili ai miei – e non soltanto per il colore. Lo
sguardo di Ray è
orgoglioso, fottutamente orgoglioso; ma dietro, nasconde un tormento
che solo
pochi conoscono davvero.
Come
me.
-Ray…-
sussurro, e nei suoi taglienti occhi blu riesco a
vedere, oltre la patina di arroganza e sicumera che ben conosco, la
sincera
preoccupazione e l’affetto che mi hanno portato a
considerarla ben più che una
sorella.
Perché
è così, Ray. Riesce a conquistarsi un posto nel
tuo
cuore senza nemmeno che tu te ne renda davvero conto. E io lo so, lo so
bene:
so che quella parte del mio cuore malconcio è ancora viva e
vegeta, e che c’è
sempre, se ho bisogno di lei.
A
volte, senza nemmeno doverglielo dire.
-Ciao,
Will.- mi fa, posando la birra di cui si è
tranquillamente appropriata sulla mensola, scrutandomi in viso come se
potesse
vedere qualcosa di più della mia espressione incredula. E so
che può, mi
conosce bene; spesso, molto più di me.
Resto
immobile per un istante. Lascio che mi studi, che mi
analizzi, che veda ciò che probabilmente l’ha
portata qui…ma poi non resisto
più. Rivederla, sapere che c’è qualcuno
che si è spinto fin qui per me, che lei
ora è qui – la mia roccia, il mio
sostegno, la mia migliore amica
–, è
troppo.
Con
due rapide falcate la raggiungo, e non la sento
sussultare quando le mie braccia si serrano con forza intorno al suo
corpo
tonico, allacciandosi sulla sua schiena.
-Ray…-
sussurro, e il mio viso trova istintivamente l’incavo
del suo collo, dove posso avvertire il suo profumo provocante e
rassicurante
insieme, le sue braccia che subito si stringono intorno alle mie
spalle. Ed è
soltanto ora che, dopo troppe settimane, respiro.
.
-Allora?-
mi ha trascinato fuori. Contro la mia volontà,
contro i miei desideri, mi ha preso per mano e mi ha tirato fuori di
casa –
letteralmente; è una piccola, infida pugile dalla forza
impressionante – e
portato qui, in uno Starbucks affollato, piazzato di fronte ad un
frappuccino e
ordinato, poco carinamente, di parlare.
È
una delle tante, troppe cose che apprezzo di lei.
Sospiro,
rimestando il mio frappé con il cucchiaino di
plastica trasparente. La gente intorno a noi ci scambierebbe per
fratelli, o
cugini; entrambi alti, biondi, con gli occhi chiari e i tratti del viso
ben
delineati. Ray è più fine di me, le sue guance
sono levigate, il suo sguardo
duro; l’ho visto addolcirsi soltanto con due persone, e
brillare davvero
esclusivamente per Ben.
-Allora?- ripete,
tamburellando con le lunghe dita candide sul tavolino. Ho voglia di
parlarle,
di dirle tutto quanto; di piangere, anche, di sentirmi debole e
frustrato con
l’unica persona che so benissimo, non mi ferirà.
Ma
ho un groppo in gola, di quelli pesanti, che m’impedisce
di parlare.
-Cosa
vuoi sapere, nana?-
le chiedo, con una voce priva di sentimento che non mi appartiene.
È lei,
stavolta, a sospirare; esasperata.
La
vedo abbassare lo sguardo, frugare nella borsa, e ne
approfitto per mangiare un po’ di ciò che ho
davanti, sebbene abbia lo stomaco
chiuso; Ray mi farebbe mangiare anche a forza, e l’ho notata,
l’occhiata
scettica che ha lanciato al mio corpo ben più magro.
-Voglio
il perché di queste.-
mi fa, e repentinamente vedo un piccolo plico di fotografie, stampate
su carta
normale, apparire sul tavolino, di fronte a me. Ritraggono il
sottoscritto,
qualche giorno fa, mentre ero uscito a comprare una camicia nuova.
-Sono
foto.- commento, senza soffermarmi sul volto di quel
biondo che non mi sembra nemmeno di conoscere.
Il
dito bianco di Ray appare sulla carta, picchiettando su
quel viso che non riesco a guardare.
-Will,
appena le ho viste sono corsa a prenotare un
biglietto d’aereo per venire da te, mentre Ben si faceva
tranquillamente
prendere dal panico su cosa poteva esserti capitato.- la cosa non
dovrebbe
sorprendermi, conosco bene Ray, so che alla minima avvisaglia di
pericolo o
sofferenza per qualcuno che ama lei parte, a testa bassa e spron
battuto. E
invece mi sorprende lo stesso, e fa bruciare dolorosamente i miei occhi.
E
Ben…quell’idiota è quasi più
protettivo di lei. Pensavo si
fosse dimenticato di me, pensavo che si fosse concentrato soltanto
sulla sua
brillante carriera, sui suoi risultati, sulla sua ragazza…e
invece, no.
-Perché?-
le chiedo, con voce rauca. E dopo un attimo sento
una mano fresca, forte, delicata, posarsi sulla mia guancia e
costringermi ad
alzare il viso, gli occhi che senza davvero volerlo trovano i suoi.
E
c’è dolcezza, e preoccupazione, in quelle iridi
complesse.
-Perché
ho davanti la conferma che ti è successo qualcosa.
Hai gli occhi spenti, Will.- mi dice, ed è soltanto
ricordarmi che ci troviamo
in un luogo pubblico, ad impedirmi di lasciar andare quella sola
lacrima che
punge sempre più fastidiosamente.
Non
è vero che si sono dimenticati tutti di me. Non è
vero.
Ben non mi ha dimenticato. Ray non mi ha dimenticato. Per qualcuno,
sono ancora
importante…tanto da spingere un’americana
residente a Londra a salire sul primo
aereo, per venire qua, a Hollywood. Da me.
È
questo pensiero che distrugge quel freno. La
consapevolezza di saperla qui, di saperla vicina, mi strappa una
lacrima, che
sparisce immediatamente fra le sue dita gentili, pronte a nasconderla,
a
proteggere il mio orgoglio.
-Se
n’è andata, Ray.- sussurro, la voce spezzata, gli
occhi
imploranti.
E
in queste poche parole, sento vibrare tutto il dolore, la
solitudine, l’odiosa sofferenza in cui vivo ormai da troppi
giorni. Sento quel
baratro immenso spalancarsi dentro di me, impossibile da ignorare.
Sento
l’assenza di lei, del mio
piccolo angelo,
di quell’angelo che ho lasciato fuggisse da me.
Perché
sono stato uno stupido.
Perché
sono un idiota, e l’ho fatta scappare via.
E
negli occhi di Ray, che è anche la
sua migliore amica, leggo soltanto consapevolezza. Ma
non pietà.
-Lo
so.-
.
Non
sono in grado di guidare. Riesco soltanto a stringere la
mano della mia amica nella mia, è l’unica ancora
che mi trattiene dallo
sprofondare di nuovo in quella voragine che la partenza, la lontananza
dalla
donna che amo ha spalancato dentro il mio petto.
È
Ray a prendermi le chiavi dalla tasca, a farmi sedere in
macchina, a prendere il posto del guidatore. La sua presenza ha fatto
scattare
qualcosa, ed ora non riesco più a trattenere i pensieri, i
ricordi, a non
rivedere quella scena dinanzi a me.
Angel.
Angel.
Sono
stato un cretino. Sono stato uno stupido, ti ho perduta
per un motivo stupido, per un mio atteggiamento stupido…ti
ho allontanata da
me, l’ho fatto perché ero frustrato, stanco,
perché non volevo che
t’intromettessi in un dolore che non era tuo…e te
ne sei andata.
Non
sei più qui, con me.
-Will.-
nemmeno mi rendo conto della macchina che si è
fermata, della portiera aperta, degli occhi blu di Ray che mi guardano,
duri e
pensierosi, preoccupati. -William.- ti sento, Ray. Perché
continui a chiamarmi?
Poi
mi rendo conto della paura. Della paura vera, sincera,
nella voce della mia amica.
E
mi accorgo della mia espressione. Del mio corpo
abbandonato e stanco, dei miei occhi vitrei, della mia pelle che ha
perso
colore. Mi rendo conto di essermi lasciato andare su questo sedile, di
non
volermi più muovere.
-Will,
reagisci o ti tiro uno schiaffo.- è la voce rabbiosa
e spaventata di Ray che mi costringe ad alzare gli occhi, appannati,
sfocati,
stanchi, su di lei. E riesco a scorgere il terrore, su quel visetto
strafottente.
Qualcosa si è spezzato
in te, Will.
Me
l’hai detto pochi minuti fa. È vero, qualcosa si
è
spezzato. Il mio cuore.
Ma
non riesco a non provare una fitta di dolore, di
preoccupazione, nel sapere quanto la sto spaventando. È il
mio affetto per lei
che mi costringe a muovermi, ad alzarmi, ad accennare con tutte le mie
forze un
breve sorriso.
-Scusa.-
mormoro, piano, ma lei scuote la testa, per nulla
tranquillizzata. Sono io a tenderle esitante una mano, a cercarla. Ho
bisogno
di sentirla qui. So che mi vuole bene, so che è qui per me.
Ho bisogno della
sua forza, non per la prima volta da quando la conosco.
E
Ray stringe subito le mie dita deboli fra le sue,
immensamente più forti, immensamente più calde.
Ed è un piccolo conforto,
insufficiente magari, ma mi basta per sopravvivere. Almeno, per ora.
Mi
lascio condurre di sopra, nel mio appartamento, quasi non
mi accorgo che è già notte. Sono stanco, ho
bisogno di dormire, ho bisogno di
sognare quei dolci ricordi che mi tormentano da sveglio. Ho bisogno di
inseguirla nei miei sogni, e di sperare di non risvegliarmi ancora in
questo
mio personale incubo.
Ray
mi costringe a infilarmi una tuta, una vecchia maglietta
troppo larga. Penso che se non lo facessi, se non le dessi retta, mi
costringerebbe con la forza. E ha ragione, so che sta facendo tutto
questo per
me. E fa bene.
È
quando mi lascio cadere sul letto, esausto, stanco,
svuotato, in piena balia dei miei ricordi e della mia
autocommiserazione, che
riesco finalmente a mettere davvero a fuoco il viso della mia amica.
È stanca,
probabilmente si è precipitata qui appena scesa
dall’aereo, dopo quindici ore
di viaggio.
Non
ho mai fatto nulla di così speciale, da meritare
un’amica come Ray.
-Resti…con
me?- mormoro, e non mi stupisco di sentire la mia
voce uscire insieme ad un singhiozzo.
Sorride;
un sorriso dolce, quel sorriso che rivolge soltanto
a pochissime persone, il sorriso di un’amica, di una sorella,
di una mamma.
-Sono
qui per questo, Will.- mi rassicura, la voce calda e
rassicurante, stendendosi vicina a me. Mi sento un bambino, un bambino
molto
piccolo che ha appena avuto un incubo. Ed è così;
la differenza, è che il mio
incubo è la mia realtà.
Faccio
appena in tempo ad abbracciarla, a nascondere il viso
nell’incavo del suo collo, a sentire la stanchezza piombarmi
addosso. E le mie
guance, dopo tanto tempo, finalmente si rigano di lacrime.
.
È
il profumo del caffè che mi sveglia.
Apro
gli occhi, gonfi, arrossati, assonnati, guardandomi
intorno e ritrovandomi accecato dalla luce allegra del Sole, che entra
prepotentemente dalla finestra spalancata.
Ehi,
un momento. È la mia camera questa!?
È…è
tutto in ordine. I vestiti sporchi sono spariti, quelli
puliti sono piegati nell’armadio, la mia chitarra non
è più buttata a terra ma
nella sua custodia, i libri sono in ordine sulle mensole. Alcune sono
vuote.
C’erano le cose di Angel, lì.
Ignoro
la fitta al petto, dolorosa, tremenda, e mi guardo
intorno.
Ma
è passato un tornado, per di qua?
-Buongiorno,
eh.- no, peggio. È passata Ray. Mi volto, e non
posso non lasciarmi sfuggire un sorriso esasperato; la mia amica
è lì, con una
delle mie magliette addosso – non mi sorprende che abbia
scelto quella con la banana
– e i suoi jeans, sotto. So
perché non ha la sua maglia, penso di averla giusto un poco
infradiciata, stanotte.
Ma
sto meglio.
Non
sono sereno, non sono tranquillo, sto ancora male…ma sto
meglio, lo stesso. Tenersi dentro tutto ha soltanto aggravato la
situazione, e
sfogarsi…mi ha fatto bene.
-Buongiorno.
Sei stata tu a…?- non termino la frase, perché
annuisce, soddisfatta.
-Non
puoi vivere in un porcile. Ora vestiti.- mi tira
addosso jeans e camicia, molto poco carinamente, direttamente in testa.
Ottima
mira.
-Sei
sempre così gentile, così posata…-
commento, quando la
sento posare una tazza di caffè sul comodino e sparire di
nuovo di là. Santa
pazienza.
Mi
vesto in fretta, e la raggiungo. Non so bene cosa dire,
non so cosa fare per farle capire quanto tutto ciò che sta
facendo sia
importante per me. Ma lei lo sa, mentre sfreccia per casa mia, un
fulmine che invece
di distruzione lascia dietro di sé ordine.
-Perché
tutto questo?- le chiedo, senza capire.
-Perché
non puoi continuare così. Siediti.- obbedisco,
allibito. Mi fissa con quegli occhi chiari, determinati, e un poco mi
sento
sprofondare.
-Will,
non mi hai detto cosa hai fatto per farla
allontanare.- non pronuncia il suo nome. Non lo fa. Gliel’ho
chiesto io,
stanotte. Ma allude a lei, cosa più che sufficiente per far
agitare con
violenza il mio cuore silente, nel mio petto.
-Ho…-
mi riscopro incapace di parlare, di articolare
discorsi. Davanti a me, ho soltanto l’immagine del visetto di
Angel, della mia
Angel. I suoi occhi color cioccolato, i suoi capelli scuri, lunghi,
soffici,
inframmezzati da sprazzi del colore dell’oro, il ciuffo che
le ricade sull’occhio
destro. Il modo in cui sorride, le sue guance soffici, la dolcezza
quando
arrossisce per un complimento.
La
ferita che ho visto comparire nelle sue iridi, quando
pronunciai quelle maledette parole che me l’hanno portata via.
-Non ho bisogno della
tua pietà. Non ho bisogno di nessuno.-
Quanto
sono stato idiota.
-Sono
d’accordo.- commenta Ray, seduta di fronte a me,
sospirando. Non so come ho fatto, a spiegarle tutto. A raccontarle di
quel
giorno. A spiegarle quanto ero frustrato, dopo l’ennesimo
provino andato male,
dopo il fiasco di Ironclad, quanto fossi deluso e arrabbiato con me
stesso. Non
so come ho fatto a dirle quanto Angel avesse cercato di capire
perché fossi
così arrabbiato, quanto volesse aiutarmi…e come
la respinsi.
-Io…io
non volevo ferirla.- sento gli occhi tornare a
bruciare, i pugni serrarsi.
-Io
non volevo farle del male.- un tremolio nella voce, nel
petto.
-Volevo
soltanto che non soffrisse per me…e invece l’ho
perduta, Ray…- gli occhi si serrano, impedendo alle lacrime
di tornare a scorrere.
-…l’ho
persa, se n’è andata e non è
più qui con me, e io sto
morendo senza di lei, non ce la faccio, non riesco più a
provare voglia di
vivere, di sorridere, di sperare un giorno di poterle chiedere
perdono…- Ray
sta zitta, mi lascia parlare.
La
sento soltanto alzarsi, senza quasi un suono, agile come
sempre, educata come sempre, lasciandomi sfogare come ha fatto per
tutta una
notte.
-Non
so dov’è, non so se sta bene, non hai idea di
quanto
vorrei anche solo vederla per un istante, sapere che non è
stato solo un sogno
quello che ho vissuto con lei…- ormai parlo, non so nemmeno
io cosa sto
dicendo. So soltanto che, se dovessi morire oggi – senza un
cuore, senza
l’anima, non penso si possa sopravvivere a lungo –,
vorrei che Angel sapesse
tutto.
Vorrei
che sapesse quanto la amo. Quanto l’ho sempre amata.
-Non
so più che cosa fare…- cedo a me stesso,
incrociando le
braccia sul tavolo e seppellendovi il viso. Ray mi ha visto piangere
già
abbastanza. Lascio che quelle lacrime scendano in silenzio, scuotendomi
la
schiena di singhiozzi mal celati, le labbra morse a sangue, il dolore
troppo
grande perché mi permetta di continuare a parlare.
-Potresti
provare a chiedere scusa, come prima cosa.-
La
voce che risuona nella cucina non è di Ray.
Per
un istante, sono sicuro di sognare.
Conosco
questa voce. La sento tutte le notti, nei miei
sogni; e tutti i giorni, nel mio incubo.
Conosco
il tono dolce e fiero delle sue parole. Conosco la
testardaggine, conosco la freddezza. Conosco ogni singola sfumatura, di
ogni
singola parola.
Sento
il mio respiro mozzarsi, e sono certo che anche il
cuore abbia mancato un battito.
Quelle
parole risuonano nel mio petto, fanno eco in quello
spazio lasciato vuoto da colei che le ha pronunciate.
M’irrigidisco;
lo sento in ogni muscolo, la paura, la
sofferenza, l’angoscia, tutto va a rendere il mio corpo un
unico fascio di
nervi.
-Angel.-
.
Per
la prima volta da quando se n’è andata, oso
pronunciare
il suo nome. Ed è dolce e delicato, scivola dalle mie labbra
con la dolcezza di
sempre, con la musicalità di sempre…ferendomi,
ancor di più, perché so che lei
è qui ma il mio cuore si rifiuta di accettarlo, ha paura, ha
il terrore di essere abbandonato
ancora.
-Proprio.-
la sua voce gronda sarcasmo, non la biasimo.
Posso immaginare le sue labbra carnose strette, serrate. Posso vedere
la rabbia
nei suoi occhi castani. Con il sole prendono una sfumatura dorata,
screzi di
sole sembrano riflettersi in quei due pozzi di cioccolato. Dio, quanto
li amo.
-Angel…-
sussurro di nuovo, alzando lentamente il viso,
senza curarmi di cancellare le lacrime.
E
poi, piano, mi volto.
Dio.
È
ancora più bella di come la ricordavo.
Ha
l’espressione che le immaginavo; contratta, altera,
ferita. L’unica cosa che non avevo immaginato era il dolore;
ha scavato
profonde occhiaie sotto quegli occhi che adoro, ha segnato il suo viso
di una
durezza che non conosco. Qualcosa serra il mio cuore in una morsa di
ghiaccio,
quando mi rendo conto che è tutta colpa
mia.
-Allora?
Basti ancora a te stesso?- mi chiede. Potrei
crollare in ginocchio di fronte a lei, adesso, implorarla di
perdonarmi. Ma non
riesco a muovermi, gli occhi fissi su di lei, cercando di strappare
ogni
dettaglio al presente e imprimerlo nella mia mente, per sempre, per
quando lei
non ci sarà più.
-Non
sono mai bastato a me stesso.- mi ritrovo a sussurrare,
gli occhi inchiodati nei suoi, beandomi di ogni singola venatura scura
di
quelle iridi, quegli sprazzi scuri che conosco, che non ho mai
dimenticato.
La
distanza fra noi non è di qualche metro. Quelli sarebbero
facili, da percorrere.
Ma
è il dolore che ha scavato una trincea, fra me e lei. Un
vuoto immenso che non riesco a riempire, che non ho più la
forza di riempire –
quella forza che è sempre stata lei. E che non ho
più.
-Angel…Angie…-
fremo io stesso, vedo sussultare anche lei,
quando uso il suo abbreviativo. Lo pronuncio con dolcezza, con timore.
Con
nostalgia. -…so quanto è…stupido…-
il
mio viso torna a seppellirsi fra le mani. Non riesco a guardarla. Non
la
merito. -…ma ti chiedo perdono.-
Ma
questo dovevo dirlo. Dovevo dirglielo. Magari sarà
inutile…magari se ne andrà di nuovo, e avrebbe
ragione a farlo, a lasciarmi per
sempre, l’ho soltanto ferita e lei questo non lo merita, lei
merita qualcuno
che non le faccia del male, che la ami…
Che
non potrebbe mai amarla quanto la amo io.
-È
stupido.- concorda con me. Ma la sua voce è dolce,
è più
delicata. È più vicina.
E
poi sento una carezza.
Una
soltanto.
Una
lieve carezza lasciata da mani di fata, mani che ho
baciato, sfiorato, venerato, manine minute e dolcissime che adoravo
sentire
sulla mia pelle, sul mio viso, fra i capelli.
-Tu,
sei uno stupido.- alzo lo sguardo. Non dovrei, ma lo
faccio. Lo faccio perché non riesco a non nutrire la
speranza, il folle
desiderio, che…
Ma
lei è qui. Di fronte a me, accanto a me. Gli occhi scuri
sono più lucidi che mai, ma dolci, tanto dolci, tanto miei,
tanto splendidi. E
mi sta accarezzando i capelli. Come a un cucciolo.
-Angel…-
sussurro, e qualcosa definitivamente si rompe
dentro di me. Sento gli argini crollare, e improvvisamente sono in
piedi, non
mi accorgo nemmeno di essermi alzato, e le mie braccia si chiudono
prima di
capirlo davvero intorno ai suoi fianchi morbidi.
Ed
è ora che le lacrime ricominciano a scendere. Non le
trattengo più, non ci riesco.
Sulla
sua spalla, il suo profumo che mi stordisce, il suo
corpo sempre caldo premuto sul mio, il dolore che ho trattenuto per
troppo
tempo esplode.
Per
un istante, resta immobile.
Ho
il terrore che mi spinga via. Che mi rifiuti, che se ne
vada, che non capisca quanto ho bisogno di lei…
Ma
l’attimo più tardi, ecco le sue braccia sottili
cingermi
le spalle, con forza, quasi con disperazione, il suo corpo avvicinarsi
al mio.
Mi costringe a sedermi. Mi stringe a sé, si siede sulla mia
coscia, lascia che
le mie lacrime le bagnino la camicetta che indossa.
-Sssh…-
mi sussurra, accarezzandomi piano il viso,
asciugando quelle lacrime che non vogliono saperne di fermarsi.
-Angie…Angie
mi
dispiace, io non volevo ferirti, non ho mai voluto, io non ce
la faccio
senza di te, non…- balbetto, senza accorgermi neanche di
parlare.
-William.-
pronuncia il mio nome con fermezza, ma
dolcemente. Mi costringo ad alzare lo sguardo, uso violenza su me
stesso per
farlo.
E
mi ritrovo in quegli occhi scuri e caldi che hanno rubato
il mio cuore, e la mia anima.
-Ora
basta. Sono
qui, adesso.- sussurra, pianissimo, e sul suo viso arrossito vedo
comparire un
sorriso. Un piccolo sorriso che per me è il regalo
più grande del mondo,
dell’universo. Un minuscolo sorriso che ha il potere di
riscaldarmi dentro, di
restituire la vita al mio cuore malandato, quel cuore che posso sentire
battere,
tanto forte, dentro di lei.
-Ti
amo.- mormoro, a mezza voce.
E
quel sorriso si fa più grande, il rossore sulle sue guance
si accentua. Dio, quant’è adorabile.
-Per
quanto sia una pazzia, ti amo anch’io, Will.-
E
sono queste parole, a far uscire finalmente il Sole.
.
.
.
.
.
.
.
.
{Aspettate!
C'è il finale anche per Ray, ovviamente ^^}
...
Sorrido,
soddisfatta.
Super
Ray colpisce ancora.
Gli
occhiali da sole calcano con eleganza i miei occhi,
nascondendoli alla vista degli estranei; c’è chi
direbbe che è una barriera
contro il mondo, ed è così, alla fine.
Quando
Angel si è presentata a Londra, da me e Ben, mi ha
spiegato tutto. Non l’avevo mai vista così
sofferente, così vuota, così…sola.
È
rimasta con noi per due settimane, ho cercato in tutti i modi di
tenerla al
sicuro, di distrarla, di proteggerla anche solo dai ricordi. Ha
funzionato, in
parte. Di sicuro, non si è mai lasciata andare come William.
Ma
è stato guardare la sua espressione, di fronte a quelle
foto, che mi ha convinta. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di
farli
tornare insieme. La minchiata di Will l’avevo capita e
accettata, ma l’orgoglio
e la testaccia di marmo di Angel sono ossi ben più duri del
raziocinio.
Ma
io sapevo quanto soffrisse, quanto vedere il dolore pieno
e devastante di Will l’avesse turbata. E così ho
deciso di agire. Nel mio
personalissimo stile.
Sorrido,
un sorriso sarcastico che non raggiunge gli occhi. Cosa
non si fa per gli amici…
Sono
brava, a fingere. Per fortuna, non c’è Ben, qui;
è l’unico
al mondo che riesca a vedere oltre queste lenti a specchio, oltre alle
lastre
di ghiaccio che sono i miei occhi.
È
l’unico che può vedere quanto mi sia costato tutto
questo,
quanto dolore – tanto di Will, quanto di Angie –
sia rimasto a proliferare nel
mio petto. Ho una tristezza assurda dentro, ho tanta voglia di
piangere, ho
bisogno di prendere quel fottuto aereo e di tornare di corsa a Londra.
Da
Ben.
E
finalmente uno di quei brutti taxi gialli assolutamente
antiestetici si ferma, alle mie richieste sbracciate e sicuramente
incazzose;
guardo molto male l’autista, un indiano antipatico che mi
scruta con
sufficienza – embè? C’è una
banana sulla maglietta che ho addosso, e allora?
È
quando carico la mia borsa sul taxi, quando, sto per
salire, che una voce mi ferma.
-Ray!
Dannazione, aspetta un secondo!- Will. È Will, lo
riconoscerei ovunque. Ma non il William complessato, triste, senza
voglia di
vivere, che ho visto nelle ultime ore. No.
È
il mio vecchio amico, il mio compare di disastri. È mio
fratello.
Mi
volto, sorpresa, e lo vedo correre verso di me.
Sorride.
Sorride,
e sembra di vedere il Sole splendere di nuovo dopo
un immenso temporale. Mi scalda il cuore, vederlo finalmente vivo,
finalmente…sé
stesso.
Mi
sta correndo incontro; e per una volta, posso buttare
alle ortiche la mia accuratissima maschera da stronza impeccabile, e
sorridere
anch’io. Un sorriso vero, raro, uno di quei sorrisi che
rivolgo soltanto a chi
amo. E lui, beh…non posso non amare mio fratello, no?
Ma
non ditegli che l’ho detto. Ho una reputazione da
difendere, io.
Ma
non posso fare a meno di abbracciarlo di slancio, quando
mi si butta praticamente addosso e mi stritola con una forza che avevo
dimenticato. Sorrido, cingendogli con delicatezza i fianchi, posando la
fronte
contro la sua spalla.
-Grazie.-
mi sussurra, solleticandomi l’orecchio col
respiro. Mi contorco di botto, involontariamente; sono ipersensibile,
io!
Lo
sento ridere, ma mi trattiene contro di sé, senza
lasciarmi andare. E non posso fare a meno di ridere anch’io,
arruffandogli i
capelli biondi, lunghi, riccioluti.
-E
di cosa?- rispondo, baldanzosa e arrogante. Mi guarda,
esasperato, scettico, divertito, ironico, tutto insieme. Posso
condensare
questa descrizione soltanto in due parole.
William
Moseley.
Mi
stacco da lui, avvertendo l’astio e il nervosismo del
tassista, il mio desiderio di tornare a casa, da Ben.
Ma
prima di salire in macchina, torno a voltarmi. Il mio
fratellone ha gli occhi rossi, gonfi, felici. Sembra rinato, ed
è tutto merito
di Angie. Non posso non sorridergli ancora, sentendomi decisamente
più
tranquilla, serena, nel riconoscere in quel viso più adulto
il Will a cui ho
imparato a voler bene.
La
prossima volta che fa un casino del genere, e finisce a
fare l’emo complessato, gli stacco le vene a morsi. Giuro.
Non può farmi
preoccupare così, non è leale.
Abbasso
un istante gli occhiali, lasciando che intraveda l’occhiolino
che gli rivolgo.
-Ricordatelo,
Will.- gli faccio, più dolce di quanto non
vorrei sembrare.
-Io ci sono sempre,
per te.-
Ed
è con questa uscita ad effetto, che mi infilo nel taxi e
sparisco alla sua vista, lasciandomi trascinare via dal sole fragrante
che
illumina Hollywood.
E
ora, si torna a casa.
.
.
.
.
My Space.
sìììì,
lo so, è una sclerata assurda e William è un emo
assoluto. Ma povero piccino lui ç____ç
Queste sono le foto incriminanti, che
hanno scatenato tutto questo putiferio di one shot. Io non voglio
niente bene a quel ragazzo, non mi ci sono affezionata, nono...ma
d'altronde, io sono una stronza, come Ray. Ho una reputazione da
difendere, quindi non andate in giro a dire che mi sono fatta prendere
dallo sconforto da queste fotografie, e dalla sua espressione. NON
è assolutamente vero. No. Mmm.
http://williamgallery.org/thumbnails.php?album=209
E questa invece è la
famosa maglietta con la banana XD
http://williamgallery.org/displayimage.php?album=lastup&cat=0&pos=81
a chi è dedicata? Beh...a
William, dopotutto. Per quanto so che non la leggerà mai,
che non saprà mai (per fortuna) gli scleri della
sottoscritta, questa è dedicata a lui. Perchè
quelle foto mi hanno davvero stretto il cuore. E, soprattutto, ho visto
in quegli occhioni azzurri la stessa cosa che vedo ogni mattina. Nel
riflesso del mio specchio.
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