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{ It won't
end like this }
(Non
finirà così)
Se
non avete letto Lonely,
l’altra mia storia, vi
consiglio di non proseguire.
Salve
a tutte, volevo anticipare che questa breve one-shot è dal
POV di Jonathan
formata da tre piccoli flashback, e potete ambientarla in qualunque
momento
della storia preferite… comunque vi conviene, per
continuare, essere arrivate
almeno al ventesimo capitolo ^^. Okay, diciamo che ero in treno, dopo
un’affannosissima corsa per non rischiare di perderlo (grazie
mille Jessy ù__u
xD) comunque, ero seduta al mio posto a raccontare cose su Lonely alle
mie best
con il viso che grondava di sudore e i capelli neri appiccicati alla
fronte bagnata
quando... puff! Mi è venuta quest’idea.
Spero
vi piaccia, siccome, come già detto, Jonathan è
il mio personaggio preferito ^^
ringrazio anche qui chi mi ha votato per il concorso migliori
personaggi originali,
spero che ci saranno altri voti!! Baci^^
*******
Mi ricordo
perfettamente di quel giorno di marzo, avevo dieci anni e me ne stavo
comodamente e pigramente abbandonato sul divano dal rivestimento del
colore delle foglie d’estate, aspettando che i miei
tornassero a casa. I miei si fidavano, perciò mi lasciavano
tranquillamente da solo senza babysitter. A quanto sembrava era nato
qualcuno, o qualcuna, e i miei si erano diretti a casa della coppia
fortunata. Ma non me ne importava più di tanto, era
più interessante guardare la TV… dentro il
televisore nero le persone andavano avanti e indietro, spostandosi
piccoli piccoli, sembrava tutto un altro mondo, quello. Mi piacerebbe,
pensai, diventare famoso, ma vorrei sempre rimanere me stesso. Certo,
un pensiero totalmente diverso da ciò che veramente successe
nella realtà.
La sera si stava avvicinando lentamente, il sole cominciava a
tramontare con il cielo che stava assumendo diverse sfumature di colori
che andavano dall’arancione al rosa pallido, quei tiepidi
giorni di marzo facevano andar via il sole ogni giorno sempre
più tardi, stavano spuntando le foglie verdi sulle piante,
che non avevano più quel colorito marrone-giallo e non erano
più abbandonate a terra avvizzite, mentre altre aspettavano
solo di staccarsi dal proprio ramo. Non vedevo l’ora che
fosse abbastanza caldo per uscire con i miei amici a giocare a calcio,
un hobby che stavo lentamente però abbandonando per
dedicarmi la musica. All’epoca desideravo diventare un
calciatore, un calciatore famoso. Avrei realizzato quel desiderio solo
per metà, ma stavo comprendendo lentamente che cantare e
suonare la chitarra sarebbero diventate le mie vere passioni.
Sentii il rumore della porta leggermente cigolante aprirsi, immaginai
il freddo che potesse fare fuori e un brivido mi scorse giù
per la schiena a causa di quel pensiero. La mamma mi stava chiamando.
La raggiunsi così attraversando la stanza, lei mi stava
così davanti, truccata, con il rossetto rosso bordeaux che
le risaltava ulteriormente le labbra carnose e i capelli ricci e
rossicci erano ordinatamente raccolti con un elastico. Io i capelli li
avevo biondi, li avevo presi da mio padre, il suo ramo
dell’albero genealogico è pieno di biondi,
infatti. Si tolse il giubbotto con calma, era radiosa e colma di
allegrezza, mio padre era già andato verso il bagno.
— Ehi, sai chi è nata? — mi chiese lei
sorridente, non appena vide che ero lì.
— Chi? — le domandai io, un tantino disinteressato,
aggrottando lievemente un sopracciglio.
— La figlia dei Ross. La vogliono chiamare Jenice, penso.
È un bel nome.
Io annuii, pensando che i miei e i Ross si conoscevano da anni, avrei
visto quella bambina molto presto.
Non avrei mai detto che sarei potuto ritrovarmi in quella situazione:
tre anni dopo, per soli cinque dollari l’ora dei quali avevo
bisogno per soddisfare i miei capricci da tredicenne, mi ritrovavo da
solo in casa dei Ross a badare ad una bimba di soli tre anni di nome
Jenice. Aveva già i capelli belli e castani, gli occhietti
vispi che mi cercavano continuamente. La seguivo dappertutto, giocavo
con lei e l’assecondavo dov’era possibile, ero
diventato praticamente un babysitter. Era una bimba adorabile,
nonostante i continui e frequenti capricci.
Un giorno, mentre ero intento a fare i miei odiati compiti di inglese
controllando la bimba contemporaneamente, lei arrivò
indossando un adorabile vestitino pieno di fiocchetti, con dei piccoli
risvolti sulle maniche, e mi disse che aveva sete con il suo grande
sorriso e gli occhi vivaci. Io, ovviamente, chiusi il libro lasciando
la penna ad inchiostro nero in mezzo alle due pagine che stavo leggendo
per tenere il segno, mi alzai dalla sedia sulla quale ero seduto e mi
diressi verso la cucina, Jenice che come un’ombra mi seguiva,
potevo udire i suoi passettini, e anche se le davo le spalle, mi
sembrava di vedere il suo sguardo con quegli occhietti marroni e quel
largo sorriso da bambina innocente.
— Cosa vuoi bere, dolcezza? — le chiesi,
incamminandomi, tirandomi su i jeans e chiedendomi perché
l’avessi chiamata in quel modo con cui di solito non si
chiamavano le bambine. Forse perché la circostanza era
abbastanza scherzosa e allegra, e a quella parola che non sapevo
nemmeno se avesse mai sentito la bimba si mise a ridere di gusto.
Era la prima volta che la chiamavo in quel modo. Ma, siccome le piaceva
parecchio, decisi che da quel momento in avanti sarebbe stato il suo
soprannome. Dolcezza. Mi chiesi quanti ragazzi l’avrebbero
chiamata così una decina d’anni dopo.
Giunto in cucina, aprii il frigo e lei mi disse che voleva il latte. Le
dissi okay e lei, felice, si diresse allegramente verso il tavolo,
sulla sedia ad aspettarmi.
Chissà se beve dal bicchiere o dal biberon, mi chiesi.
— Ehi dolcezza, — cominciai — dove lo
bevi il latte, bicchiere o biberon?
Non me ne intendevo molto di bambini, dalla mia parte c’era
solo una grande pazienza nei confronti di Jenice.
— Bicchiere! — esclamò lei da lontano.
Aveva iniziato anche a parlare presto, rispetto ad altri bambini.
Sapeva anche l’alfabeto, i giorni della settimana e i mesi in
ordine esatto, e una volta mi aveva persino detto tutti i numeri in
ordine da uno a cento, e io l’avevo anche ascoltata con
interesse, non avendo nulla di meglio da fare al momento.
Preso il cartone di latte, versai il liquido fino a metà di
un bicchiere vitreo circa, forse un po’ di più, e
rimisi il contenitore nel frigo chiudendolo.
Mi diressi con il bicchiere di latte nella mano destra da Jenice, che
era impaziente. Mi chiedevo come facesse ad essere sempre
così allegra.
Mi sedetti vicino a lei e glielo porsi. Lei lo prese e
trangugiò avidamente il primo sorso. Poi però
successe qualcosa, lei mi guardò male, prese in bocca una
grossa quantità di latte e, avvicinando il viso a me con le
guanciotte gonfie e piene del liquido, me lo sputò tutto a
mo’ di fontanella sulla maglietta. Dopo averlo fatto, io che
ero a bocca aperta, sembrava più che soddisfatta.
— Io lo volevo caldo — disse semplicemente, in tono
molto ma molto tranquillo, con i capelli castani raccolti in due
treccine ordinate, una a destra e una a sinistra, che venivano
sventolate dal movimento del suo capo.
— Se cominci già a quest’età
ad usare quel tono siamo nei guai, dolcezza — le dissi senza
cattiveria, scherzando.
Avevo troppa pazienza per arrabbiarmi. Specialmente con lei. Lei, che
consideravo quasi come la mia sorellina. Ora dovevo pensare a come
pulirmi da tutto quel latte che grondava giù per la mia
maglietta come goccioline di pioggia grondano giù per un
vetro, solo che queste erano molto più abbondanti. Poteva
anche dirmelo che lo voleva caldo, accidenti.
Sette anni dopo.
Sulla soglia dei vent’anni, me ne andavo in giro fiero
sfoggiando J, la mia favolosa chitarra , in giro per i locali con la
mia band che si era da poco formata. Eravamo indecisi su parecchi nomi,
c’era addirittura chi suggeriva nomi lunghissimi che nessuno
si sarebbe ricordato. Comunque, non avevo voglia di pensarci, ma
proprio per niente. Cosa fare, per distrarmi? Fare da babysitter alla
piccola Jenice, che ormai aveva quasi dieci anni, mi sembrava
l’occasione perfetta.
I suoi dovevano andarsene per qualche ora, beh, più tempo
era, più soldi ci sarebbero stati per me, anche se in tutti
quegli anni la “paga” era rimasta invariata.
Cinque dollari l’ora.
Ogni volta che guadagnavo qualcosa, però, bruciavo tutto
subito in qualche sciocchezza che andava di moda al momento.
Non appena la porta dell’ingresso si aprì
facendomi entrare, io che avvertivo già il calore interno
della casa ed il suo profumo completamente diverso da quello di tutte
le altre cose, di lavanda o qualche altro fiore, Jenice
gridò il mio nome dal piano di sopra, e cominciai a sentire
i suoi veloci passettini mentre correva giù per le scale, e
in quei momenti il fatto che cinque anni dopo l’avrei baciata
era proprio l’ultimo dei miei pensieri. Io avevo
vent’anni, lei dieci. Ma poi avremmo avuto io venticinque
anni e lei quindici, e allora sarebbe stato diverso. Sarebbe stato
diverso ancora dopo, quando lei ne avrebbe avuti venti, o venticinque,
e io trenta, o trentacinque. Intanto però tutti quei numeri
nella mia testa non c’erano, non esistevano.
Per l’occasione mi ero portato dietro J, semplicemente
perché solo dieci minuti prima avevo finito le prove con la
band ed ero volato a casa Ross in un baleno, senza nemmeno passare da
me. La bambina non mi creava problemi, io intanto che lei giocava,
perché ormai non lo chiedeva più a me, potevo
esercitarmi con la chitarra, bastava che ogni tanto la tenessi
d’occhio.
Non appena i Ross uscirono di casa, subito Jenice si fiondò
addosso a me, era una specie di saluto, il visino che faceva una
leggera pressione sulla mia T-shirt giallo canarino. Io ovviamente
ridevo di tutto ciò, ignaro che appena lei avesse visto J mi
avrebbe chiesto di suonarla. Che strana richiesta, più che
altro mi aspettavo che mi chiedesse di provarla lei stessa, ma accettai.
Lei, entusiasta, mi ascoltava armeggiare con le corde della chitarra,
le mie lebbra erano incurvate in un leggero sorriso, finché
cominciai a suonare l’ultimo brano imparato con la mia band,
e mi scappò qualche nota cantata.
Non pensavo che subito dopo mi avrebbe fatto proprio quella richiesta.
Sì, mi chiese esplicitamente di insegnarle a cantare. Fu da
allora che, ogni giorno sempre di più, mi convincevo che
Jenice avrebbe fatto strada, perché imparava in fretta, e
aveva una bella voce, adatta al canto.
Per altri cinque anni andò avanti così,
finché non ci fu l’evento scatenante. Il contratto
discografico, ovvero.
Contratto discografico, evento scatenante.
Ricordo anche la sensazione di quando me lo dissero, che sarei potuto
andare a New York a fare successo, una stretta al petto, il cuore in
gola che martellava, sentivo i suoi battiti incontrollati pulsare in
tutte le terminazioni del corpo, mi sentivo come prima del primo
appuntamento, anzi, peggio, come quando ti puntano una pistola alla
testa, anche se non l’avevo mai provato, ma le sensazioni
erano positive. Completamente positive. Troppo positive,
perché non ci fossero conseguenze.
Dovevo davvero farlo, abbandonare tutto ciò che avevo nella
mia città per andare a New York a fare successo? Abbandonare
la mia sorellina? Forse sarebbe successo, sì. Quando lo
decisi, anche se in realtà avevo deciso senza esserne mai
pienamente certo, non mi sentii per nulla tranquillo. Tuttavia non
potevo non essere emozionato.
Chissà se prima o poi la dimenticherò, pensavo.
No.