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Abitudini
*
“Va via presto,
Comandante Joule,” notò la guardia, scattando sull’attenti. “Sono già alcune
settimane che lo fa, posso permettermi una domanda?”
Yzak mise sul bancone il suo cartellino perché l’altro lo
scannerizzasse ed annuì silenziosamente. Quel soldato panciuto aveva sempre
svolto il suo lavoro in maniera eccellente, la sua curiosità era giustificata e
molto più degna di risposta rispetto alle giulive domande delle cameriere della
mensa.
“Ha problemi a casa?”
azzardò l’uomo, mentre inseriva le generalità del suo superiore nel computer,
insieme all’orario di uscita. “Sua madre sta bene?”
L’albino strinse la presa attorno alla sua ventiquattro ore
e scosse piano il capo, la mente che galoppava verso l’ex-Consigliere Joule.
“Arrestata, ma felice
come una Pasqua,” lo informò con una scrollata di spalle. Infilò le mani in
tasca ed estrasse le chiavi della sua automobile. “Sa come sono fatte le
donne.”
A quest’ultimo commento la guardia scoppiò in una fragorosa
risata e gli tese nuovamente il cartellino, stupito dalla spiccia ironia del
giovane. Prima che potesse indagare oltre lo vide appoggiarsi al bancone, in
maniera quasi confidenziale.
“Ho solo bisogno di
riposo. Le trattative di pace con quelli dell’Alleanza mi stanno soffocando,”
spiegò velocemente. “A domani.”
Yzak lo guardò scattare ancora sull’attenti ed uscì
dall’edificio. Camminò tranquillamente fino alla macchina, entrandoci ed
accendendola. Ascoltò il rombo del motore e, prima di cominciare a guidare,
sintonizzò la radio su una frequenza a caso ed alcune note tranquille
riempirono la vettura.
Si concentrò sulla
strada, stupendosi come sempre di quanto più complicato fosse guidare un’auto
sportiva rispetto a pilotare un Mobile Suit.
Ormai il cielo era quasi completamente scuro ed i lampioni
ai lati della strada illuminavano la via verso il suo appartamento.
Sgranò gli occhi e
con un piccolo sorriso scosse rapidamente il capo. Il suo appartamento… Non aveva mai ambito tanto tornarci come in
quei giorni.
Continuò a guidare,
canticchiando distrattamente le canzoni trasmesse, grato al destino che quel
giorno nessuno aveva chiesto se per caso lui fosse al corrente di cosa stesse
facendo Shiho Hahnenfuß dopo essersi licenziata dall’esercito.
Si voltò e lanciò una veloce occhiata al sedile
alla sua sinistra, ricordando perfettamente quella sera, un mese prima circa,
in cui tutto era cominciato, nonostante pochi minuti prima che lei salisse in
macchina era convinto che sarebbe stata la fine di loro due. Se un loro due fosse
mai esistito, comunque.
Si passò una mano
nei capelli chiari mentre spegneva il motore ed usciva, investito dal vento
freddo della sera che soffiava dal mare. Strinse il colletto del suo cappotto
contro la pelle e corse in casa, riparandosi nell’ascensore dopo aver salutato
con un cenno il portiere. Alzò il dito e schiacciò il pulsante del quinto
piano, per poi appoggiarsi allo specchio con le braccia incrociate.
“Vieni, ti porto io a casa. Dove abiti?”
“… signore, non so
se glielo dovrei dire. E poi posso andare in taxi.”
“Shiho Hahnenfuß,
anche se non sei più un soldato vorrei comunque farti quest’ultima gentilezza.”
Sospirò,
stropicciandosi gli occhi stanchi mentre le sue parole ancora gli rimbombavano
in testa, il suo sguardo mortificato che vagava in ogni direzione, cercando di
evitare il suo. Alla fine gli aveva confessato che aveva sempre vissuto negli
appartamenti residenziali dei soldati di ZAFT e che la sua vera casa era su
Januarius. Colonia distrutta da quelli dell’EAF durante le ultime fasi della
guerra.
“In questi ultimi giorni mi sono presa una
camera d’albergo in periferia. Fino a quando non avrò trovato una sistemazione
migliore. E un lavoro.”
“E ancora mi devi
spiegare perché hai lasciato il tuo posto.”
“Non mi è mai
piaciuto combattere.”
Spinse la porta
dell’ascensore con una spallata e prese le chiavi del suo appartamento,
aprendolo. Sentì le guance diventargli bollenti quando si schiarì la gola, a
disagio.
“Sono a casa,” annunciò con il cuore che gli
martellava nelle orecchie.
“Signore, cosa sta facendo con la mia
valigia?”
“Chiamami per
nome, non sono più il tuo superiore. Comunque questa stanza è squallida, vieni
a casa con me. C’è abbastanza spazio per due.”
“Immagino non sia
un ordine.”
“Neanche per
sogno.”
Lei gli aveva
sorriso ed aveva accettato, dandogli una mano a radunare i suoi pochi effetti
personali e ridendo saltuariamente, incredula, e lui si era sentito di mettere
in chiaro il fatto che avrebbe potuto andarsene in ogni istante.
“Non me lo dire, però. Voglio arrivare e
non trovarti più.”
“Perché?”
“Farebbe meno
male. Fidati.”
Ogni sera, quindi,
era un’incognita per lui e non sapeva se l’avrebbe vista lì, come sempre, o se
si sarebbe ritrovato solo, immerso nella sua stessa tristezza.
“Bentornato!”
Alzò di scatto lo
sguardo e trattenne un sorriso quando udì la sua voce provenire dalla cucina.
Buttò il cappotto e la sciarpa sul divano, insieme alla valigetta, e la
raggiunse. Era intenta a preparare la cena, come ogni sera, con il suo
grembiule, troppo grande, addosso.
La guardò girarsi e fissarlo per qualche
secondo, indugiando sulla sua uniforme bianca di ZAFT, e poi brandire il
mestolo di legno, colmo di salsa scarlatta con qualcosa di verde.
“Assaggia!” esclamò gioiosamente, correndogli
incontro. “Attento che scotta.”
Yzak non riuscì a
non sorridere di fronte a tanto entusiasmo e soffiò sul cucchiaio, prima che
lei glielo mettesse in bocca.
“Sii sincero e dimmi cosa ne pensi,” aggiunse
Shiho, timidamente. “Se non ti piace possiamo ordinare una pizza.”
L’albino alzò una
mano, facendole cenno di aspettare, e deglutì il tutto. Si tolse dagli angoli
della bocca della salsa ed annuì.
“Buono. Cos’è, un altro esperimento dei tuoi?”
domandò mentre apriva il frigorifero e si prendeva una bottiglietta d’acqua.
“Ho visto la ricetta in televisione!” spiegò
felice, applaudendo se stessa. “E ho pensato di provarla questa sera stessa
visto che non sapevo se saresti tornato presto o meno. Il sugo si può sempre
conservare, dopotutto.”
“Scusa, la prossima volta ti telefono,”
promise con un sorriso imbarazzato. “Hai fin troppo tempo da perdere, eh?”
Shiho sospirò e si
strinse nelle spalle, buttando la pasta nell’acqua bollente. Gli lanciò
un’occhiata in tralice e lo trovò appoggiato al tavolo, intento a fissarla.
Aveva scoperto che quello era diventato il suo nuovo hobby, ma lei non se ne
lamentava, specie quando sapeva che era fin troppo stressato per avere
vent’anni.
“Com’è andata la giornata?”
“Un inferno, ovvio,” disse Yzak, andando
vicino al fornello e mettendo un dito nel sugo. Se lo infilò in bocca ed esalò
un sospiro stanco. “Questa roba è davvero buona. Cos’è?”
“Pomodori e fave.”
“Strana accoppiata.”
“Ce ne sono tante, di coppie bizzarre,”
sussurrò Shiho, guardandolo con un sorriso timido. “Io non avrei mai pensato di
finire a vivere con il mio comandante, per esempio.”
“Eravamo… compagni, dopotutto,” borbottò Yzak,
avvampando. Le diede le spalle e si guardò il dito, ancora leggermente rosso.
“Comunque avremmo dovuto iniziare a trattare con l’Alleanza, e solo dopo con
Orb. Il Delegato Athha si è dimostrato in gamba. Tremendamente in gamba.
Abbiamo risolto il tutto in neanche una settimana.”
La ragazza annuì e
si abbassò per controllare il fornello. Rimase in silenzio fino a quando servì
la cena e si accomodò di fronte a lui. Adorava la sua compagnia e il suo invito
era giunto come un fulmine a ciel sereno, sebbene per lei, alla fine della
guerra, il cielo era tutto tranne che sereno. Senza aggiungere che, vivendoci
insieme, aveva conosciuto un Yzak Joule più umano e, se possibile, divertente.
Ogni tanto la stupiva con qualche battuta o le portava un mazzo di fiori per
ringraziarla della sua dedizione ad una casa che, di fatto e sulla carta, non
era neppure sua. In neanche trenta giorni si erano conosciuti più che in
quattro anni.
Come tutte le sere cenarono e trascorsero del
tempo facendo le cose più normali che, per due giovani veterani come loro,
erano già di per sé il più ambito dei premi, per poi cambiarsi e mettersi a
letto. Lo stesso letto. Stesse lenzuola, stessa coperta, stessa stanza.
Tutto era routine,
ormai, comprese le braccia dell’altro: tra di loro posizionavano sempre un
cuscino extra, per prevenire qualsiasi gesto di cui si sarebbero potuti
pentire, ma quella barriera tanto odiata e tanto amata al contempo finiva
puntualmente sul pavimento e i due si cercavano fisicamente fino a quando il
sonno non li coglieva, gettandoli in un oblìo che si ripresentava al mattino,
al suono della sveglia, quando si mettevano a sedere sul materasso e trovavano
i loro indumenti sparsi a terra come petali e, spesso e volentieri, dei segni
scarlatti sul corpo di entrambi, preferibilmente sul collo di lui e sul petto
di lei. Fingevano che non fosse successo nulla e pretendevano di essere
semplici amici.
“Shiho?” la chiamò Yzak, pigramente, mentre
lei tornava a sdraiarsi sulla sua porzione di letto per non addormentarsi su di
lui. La udì mugugnare qualcosa e sospirò, incrociando le braccia sotto alla
nuca. “Ci sono cose a cui potrei abituarmi. O forse già mi ci sono abituato.”
Shiho lo guardò nell’oscurità
e dovette combattere contro i suoi stessi movimenti per non alzare una mano ed
affondare le dita nei suoi capelli chiari. C’era sempre stata una strana
tensione sentimentale tra di loro, anche sulla Voltaire e, prima ancora, sulla
Vesalius e, di tanto in tanto, senza grande consapevolezza delle loro azioni,
si mettevano a flirtare come due normali adolescenti, senza però mai concludere
nulla. Non fino alla prima notte sotto lo stesso tetto, almeno.
Sulle navi da guerra era un continuo stuzzicarsi
con le parole, con il tono di voce, con le dita che scorrevano leziose sul
dorso della mano dell’altro, sotto il tavolo, durante le interminabili riunioni
con l’equipaggio.
“Tutti ci abituiamo a qualcosa, Yzak,” mormorò
Shiho, chiudendo gli occhi. “Perché me l’hai detto?”
L’albino si strinse
nelle spalle e si sdraiò sul fianco, la schiena rivolta alla sua ex-sottoposta.
“Perché la tua presenza fa parte di questa
casa. Non voglio assolutamente perderla.”
Rimasero immersi
nel torpore delle coperte e del silenzio per qualche minuto, fino a quando lui
sentì le braccia di lei circondargli la vita. Gli comparve un sorriso minuscolo
sul viso mentre andava a posizionare le mani su quelle di lei.
“Non sto neppure cercando un nuovo
appartamento,” lo informò Shiho, incapace di trattenere una risatina che
contagiò anche il suo ex-superiore.
Sicuramente si sarebbero abituati anche
all’assenza del cuscino tra di loro, la sera dopo.