Stand by me
[
Quarta classificata
e vincitrice del Premio Miglior Fandom
al
«Birthday's Contest» indetto da
Himechan84 ]
Titolo:
Stand
By Me
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 3231 parole ]
Genere: Generale,
Malinconico, Sentimentale
Characters:
Jason Mustang,
Edward Elric,
Roy
Mustang
Pairing:
Roy/Ed
Avvertimenti:
Shounen
ai, What if?
Rating: Arancione
Prompt:
13°
Argomento: Fasi della vita
› Morte
FULLMETAL
ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
Se
il cielo che guardiamo
dovesse crollare e cadere
e le montagne dovessero sbriciolarsi nel mare,
non piangerò, non piangerò, non
verserò una lacrima
finché tu sarai, sarai con me.
- Stand by me,
Ben Edward King -
Mi
ero
perso nell’osservare distrattamente il cielo dalla finestra
del mio ufficio,
pensoso.
Avevo abbandonato la stilografica di cui
mi ero munito sul
plico di fogli che adombravano la mia scrivania, lasciando perdere il
lavoro:
in realtà non avevo firmato nemmeno un documento, ignorando
deliberatamente
anche la mezza strigliata che mi aveva fatto uno dei miei
sott’ufficiali.
Non avrei voluto nemmeno mettere piede
in ufficio, se dovevo
essere onesto con me stesso. Era stato lo stesso Oto-san a spronarmi ad
andare a
lavoro, sebbene avessi insistito più volte di voler restare
a casa con lui per
fargli compagnia.
Erano passati nove mesi da quand’era successo, ma nessuno
dei due riusciva ancora a capacitarsene.
Sembrava troppo inverosimile, sia da pensare che da
affrontare.
Nei primi periodi, quando andavo da Oto-san - da solo o
con le mie gemelle -, l’avevo spesso trovato chiuso
in se stesso e con il
vuoto negli occhi, ma i momenti peggiori si presentavano quando
andavamo a
trovare Oka-san: gli vedevo dipinta in viso
un’espressione così triste e incredula che non
riuscivo mai a guardarlo più di
qualche secondo.
Dal canto mio, cercavo di dimostrarmi
forte
anche per lui, pur sapendo che non fosse per nulla facile. Mi sentivo
solo
peggio, dato
che mi tornavano alla mente troppe cose: i loro battibecchi, le volte
in cui
sgridavano me o si sgridavano a vicenda, i momenti belli e quelli
brutti,
persino gli avvenimenti degli anni passati e la guerra che avevamo
combattuto.
A quei pensieri, distolsi lo sguardo
dalla finestra e mi
portai una mano a sfiorare la cicatrice sul sopracciglio, carezzando
distrattamente anche un braccio al di sopra della stoffa della divisa
che
indossavo.
Quant’ero stupido a ritrovarmi a pensare a quelle cose
proprio quel giorno.
Provai quindi a concentrarmi inutilmente sulle mie
scartoffie, venendo preso d’assalto ancora una volta dai
ricordi: non mi
avrebbero dato pace nemmeno per un attimo, anche se provai a non dar
loro peso.
Firmai giusto un paio di documenti prima di scuotere
la testa e abbandonare nuovamente la stilografica sui fogli,
lasciandomi andare
contro il morbido schienale della poltrona con lo sguardo al soffitto.
Distrattamente, afferrai
l’orologio d’argento
che portavo nel taschino della divisa, aprendo il coperchietto con uno
scatto
per controllare l’ora. Scossi il capo nel constatare che
mancava ancora un bel
po’ alla fine del mio turno, ma mi alzai comunque per
aggirare svelto la
scrivania e raggiungere altrettanto velocemente la porta del mio
ufficio:
restare qualche minuto di più mi avrebbe solo fatto star
male.
Non mi curai dei richiami del mio
Tenente quando mi
vide correre nei corridoi, scendendo fino alla Hall ed uscendo
velocemente per
raggiungere la mia auto. Aprii la portiera e presi le chiavi,
infilandole nel
quadro d’accensione: quel giorno volevo lasciarmi alle spalle
il Quartier
Generale e mandare al diavolo il lavoro. Mi sentii un po’
meglio solo quando mi
ritrovai in strada, anche se quel peso opprimente che sentivo nel cuore
non mi
aveva abbandonato, esattamente come i giorni passati. Avanzai spedito
per un
bel paio di isolati o, almeno, finché qualcosa non
attirò la mia attenzione:
con la coda dell’occhio vidi un negozio di fiori, e fu
automaticamente che
accostai sul ciglio della strada, poco distante da esso.
Sorrisi nel vedere la fioraia
indaffarata fra quella miriade di specie
diverse,
allegra e vivace mentre serviva anche chi si presentava.
Ciò che mi aveva fatto fermare, comunque, era stato
il grosso vaso in cui facevano bella mostra delle splendide rose rosse,
accostate da quelle nere e
bianche. Mi ricordarono i momenti in cui
Oka-san si
presentava a casa con un bouquet composto proprio da quelle, scatenando
le
repliche quasi divertite di Oto-san: odiava essere trattato da donna, e
non
mancava mai di far notare che non era lui la mamma.
Sorrisi ancor di più a quel
pensiero, ritrovandomi ad
aprire la portiera per scendere dalla macchina.
Avrei comprato lo stesso bouquet di ‘Ka-san, regalandolo
proprio a lui. Era il suo compleanno, sarebbe stato
felice.
Mi affrettai quindi a raggiungere la fioraia e a
comprare un bel mazzo di rose, pagando e salutandola poi con un cenno
prima di
ritornare alla macchina; posai il bouquet sul sedile del passeggero e,
una
volta rimesso in moto, riattraversai le strade di Central per giungere
in
periferia. Quando arrivai dinnanzi alla porta di casa feci per
bussare, esitante, ma poi ci ripensai e infilai la mano libera in
tasca, alla
ricerca del doppione delle chiavi che avevo.
Una volta trovate, infilai quello che mi serviva nella
toppa, aprendo silenziosamente prima di gettare uno sguardo
all’interno:
l’ingresso era avvolto nella penombra come al solito, e tutto
ciò che si
sentiva era il suono del nulla.
Avanzai cauto e senza far rumore,
stringendo delicatamente
il bouquet che avevo comprato.
Sbucando in soggiorno, trovai anche quella parte
della casa priva di luce, e faticai non poco ad accorgermi della figura
appollaiata su uno dei divani. A prima vista sembrava che Oto-san
stesse
leggendo, anche se non mi sfuggì qualche sua piccola
parolina sussurrata al
vuoto.
Sentii il cuore stringersi in una morsa,
facendo
giusto qualche passo all’interno con la stessa andatura
felpata di poco prima. «Oto-san?» lo chiamai,
vedendolo alzare di poco la
testa prima di passarsi distrattamente una mano sul viso e voltarsi
verso di
me.
Aveva inforcato gli occhiali e se li era rimessi,
come se stesse cercando di dare alla sua espressione quella solita aria
composta che l’aveva sempre caratterizzato.
Mi rivolse persino un mezzo sorriso sebbene sapessi
che, in realtà, non esprimeva nulla.
«Ti aspettavo per le
cinque», mi disse nell'alzarsi, e
a
quelle sue parole non potei evitarmi di abbassare lo sguardo come un
bambino
beccato a fare una marachella. Avevo cinquant’anni tanto per
dire.
«Non ce l’ho fatta a
stare in ufficio»,
risposi
mogio, accennando poi ai fiori che reggevo. «Sono andato a
comprare questi».
Fu in quel momento che li
notò, dando vita ad un
nuovo sorriso quando s’avvicinò e glieli porsi.
«Dodici rose rosse e un giglio bianco», fece,
carezzando i
petali distrattamente. «Proprio come piacciono a
lui, eh?»
Fui quasi certo che, anche se non lo
dava a vedere,
dentro di sé Oto-san stesse piangendo.
Anche provare ad alleggerire la situazione, quindi,
non sarebbe valso a molto; ma ci provai lo stesso, sforzandomi di
sorridere
anch’io ed annuire. «Già,
quest’accostamento gli piace
molto»,
convenni, non riuscendo ad aggiungere altro.
Sentivo che sarei stato io quello a scoppiare in
lacrime, se l’avessi fatto, ma fu proprio Oto-san ad
interrompere quel momento,
facendosi forza prima di darmi un’amorevole pacca sulla
spalla.
«Andiamo, coraggio»,
mi esortò,
stringendo subito
dopo a sé quel mazzo di rose. «Lo sai che ad
Oka-san non piace aspettare».
Mi sfuggì una risatina
tremula. «Se non è lui a far aspettare gli
altri», precisai,
con un nuovo groppo in gola.
Mi affrettai a fare un colpo di tosse e a deglutire
per liberarmene, seguendo Oto-san fuori dal soggiorno e lungo il
corridoio. Nuovamente nell’ingresso, poi, stavolta
l’occhio mi
cadde distrattamente sulle poche foto riposte sul mobiletto
lì presente. Mi
ritrovai a sorridere come un idiota nel notare quella che ritraeva me
alla
Cerimonia di fine Accademia, con accanto, poco distante, una in cui
Oto-san e
Oka-san si trovavano insieme e si sfioravano dolcemente le labbra.
Fu proprio il richiamo di Oto-san a
farmi distogliere
l’attenzione da quei ricordi, e mi affrettai a raggiungerlo
sulla porta e fuori
casa per lasciarli temporaneamente alle spalle: non sarei riuscito a
guidare se
mi fossi lasciato sopraffare da quelli.
Arrivati alla macchina, ci accomodammo entrambi ai
nostri posti e, una volta messo in moto, ci avviammo a destinazione.
Durante il tragitto non spiccicammo una
parola, solo
di tanto in tanto ci sfuggiva giusto una constatazione o ci lanciavamo
appena
delle rapide occhiate.
Non ci misi più di una decina di minuti ad
attraversare la città e a fermare poi la macchina, voltando
lo sguardo verso i
lontani cancelli della nostra meta.
In quei mesi non ero andato molte volte, lì,
quand’ero solo: un po’ a causa del lavoro, un
po’ perché, spesso, non ce la
facevo. Mi aggregavo ad Oto-san - proprio come quel giorno -
o, quando
capitava, portavo con me i miei figli per non restare solo.
A quei pensieri, aprii la portiera con
un sospiro,
accorgendomi solo in un secondo momento che Oto-san era già
sceso e mi
aspettava poco distante con il mazzo di rose fra le braccia.
Mi diedi una mossa e andai da lui, sentendo già
quell’umido odore di terra e fiori giungermi prepotentemente
alle narici.
Il silenzio ci avvolse poi come in una bolla, venendo
di tanto in tanto infranto dai sussurri delle altre persone
lì presenti e che
vedevo incamminarsi con lentezza.
Camminavamo piano, senza parlare, ognuno
immerso nei
propri pensieri e rispettoso del luogo in cui ci trovavamo; sorpassammo
un paio di persone che conoscevamo di
sfuggita, rivolgendo loro appena un cenno del capo a mo’ di
salutoprima di dirigersi
verso il terreno erboso a poca distanza da lì.
Ancora una volta sentii quella terribile
stretta al
cuore, una sorta di senso d’abbandono che mi oppresse il
petto. E non scomparve
nemmeno quando giungemmo a destinazione, anzi, aumentò
vertiginosamente.
Guardando quella lapida bianca su cui era inciso il
nome di mia madre, ancora stentavo a credere che
fosse successo davvero.
Poco più di cinque anni
addietro stava benissimo,
avrei persino osato dire che sembrava in forma come non lo era mai
stato. Nonostante
l’età, difatti, in quel periodo insisteva ancora
con il voler mantenere la sua postazione
di lavoro: anche se gli dicevo d’andarsene in pensione, non
faceva altro che
ripetermi in continuazione di voler portare avanti quel suo folle sogno
fino
alla fine.
E così era stato. Ci era stato strappato via
così,
all’improvviso.
Si era coricato più spossato del solito, quella
lontana sera, e il mattino dopo non aveva più aperto gli
occhi.
Ero tornato a Central di corsa, quando
l’avevo
saputo. Avevo cercato stupidamente di convincere me stesso che fosse
tutto uno
scherzo, che sia Oto-san che Oka-san volessero solo prendermi in giro,
ma ben sapevo che non era affatto così. Il tempo
aveva fatto il suo corso.
Durante il funerale non avevo sentito nemmeno una
parola della funzione, guardando solo quella bara che veniva adagiata
nella
fossa e ricoperta poi di terra. E poi, vuoto come se fossi stato
privato di una
parte importante del mio stesso essere, ero rimasto lì con
Oto-san su quel
terreno smosso. Aveva mantenuto un aspetto decoroso per tutto il tempo,
come se
fosse rimasto estraneo a tutto ciò che gli era capitato
intorno, ma quando
l’avevo accompagnato a casa non avevo avuto il coraggio di
lasciarlo solo,
anche perché non ci sarei comunque riuscito vista la
situazione: era scoppiato
a piangere come non l’avevo mai visto fare in vita mia,
nemmeno quando eravamo rientrati
dalla guerra.
Quella, difatti, era una cosa che non poteva essere
comparata a nulla, un dolore che non sarebbe stato mai possibile
confondere con
altri.
E quella sera ci eravamo lasciati andare alle
lacrime, stretti l’uno nell’abbraccio
dell’altro fin quando alla fine, spossati
e scossi, c’eravamo addormentati entrambi sul divano in
salotto.
Ricordarlo ed osservare la tomba ebbero un effetto
devastante, tanto che mi affrettai ad abbassare lo sguardo per passarmi
distrattamente il dorso d’una mano sugli occhi.
«Ti abbiamo portato le tue
preferite, Roy», sentii
dire poi da Oto-san, rivolto alla lapide muta con voce flebile mentre
posava in
terra il bouquet. «Jason le ha comprate apposta per
te».
Ebbi quasi la sensazione di sentire
Oka-san
rispondere con una delle sue battutine, detta con quel tono sarcastico
e
divertito che spesso lo caratterizzava.
Vedendo Oto-san accovacciarsi sull’erba, poi, decisi
di fare lo stesso, venendo colto da un bizzarro senso di
dejavù: l’ultima volta
che ci eravamo ritrovati così, seduti ad osservare una
tomba, era stato un
giorno dei miei lontani quindici anni, a Reesembool. Un litigio fra
Oto-san e
Oka-san - forse il peggiore a cui avessi mai assistito - e
via, sul
primo treno diretto al paese natale di Oto-san, dove avevamo fatto
visita alla
tomba di sua madre.
Com’era strano che, proprio
quel giorno,
mi ritrovassi a
pensare a tutti quei ricordi legati al passato. Forse perché
in cuor mio ancora
non accettavo la realtà, ancora speravo che, tornando a
casa, avremmo trovato
Oka-san ai fornelli, e che ci avrebbe accolti con un divertito:
«Alla buon’ora,
pensavo che avreste lasciato che preparassi da solo la torta per il mio
compleanno!»
Il suo compleanno, già. Non ci era stato concesso
nemmeno di festeggiare, almeno per l’ultima volta, il giorno
in cui era venuto
al mondo.
A quei pensieri mi ritrovai ad abbassare
lo sguardo,
allungando una mano verso il terreno e cominciando a giocherellare con
i fili
d’erba come se fossi un bambino, catturandoli fra le dita
mentre sentivo,
simile ad una dolce e bassa nenia, la voce di Oto-san rivolgersi a
quella muta
tomba.
Non proferii parola per lunghi minuti che mi parvero
interminabili, ma mi ritrovai ad alzare appena lo sguardo verso di lui
quando
sentii un suo sospiro. Gli occhi erano atoni, sebbene avessi quasi
l’impressione che stesse accarezzando quella bianca lapide di
marmo con il suo
sguardo ambrato.
«È
strano», commentò poi
d’un tratto, sforzandosi di rendere la voce sarcastica.
«S’è beccato pallottole ed è
rimasto
ferito per tutti questi anni senza mai crepare, e poi ci fa lo scherzetto
d’andarsene senza ragione», vidi il suo labbro
inferiore tremare, scosso
probabilmente dal dolore e da un qualcosa di simile alla rabbia.
«Non mi ha
nemmeno baciato, questo bastardo. Non mi ha nemmeno dato un ultimo e
fottutissimo bacio, quella sera».
Non sapendo cosa dire per consolarlo mi
limitai a
farmi più vicino, cingendogli le spalle con un braccio come
se volessi provare,
almeno per quanto concessomi, a confortarlo con la mia presenza; mi
lanciò un’occhiata, sollevando poi le
labbra in un piccolo sorriso che, in quel momento, per me
sembrò non esprimere
assolutamente nulla.
Senza parlare, mi fece allontanare il
braccio e mi diede
poi una pacca sulla schiena, tornando a guardare la tomba come se fosse
unicamente quella il suo punto d’appiglio per combattere
quella folle tristezza
che ci stava attanagliando le viscere.
Riprese poi a sussurrare, rivolto a quel suo
invisibile interlocutore che era Oka-san, non curandosi più
di me se non per
qualche breve attimo.
Dal canto mio io lo lasciai fare, ben
comprendendo il
suo dolore. Aveva perso un uomo che per lui, in principio,
era
stato un padre e, in seguito, ben più d’un
semplice superiore. Era diventato il
suo compagno, l’uomo con cui aveva deciso di passare il resto
della sua vita, e anche per me era stato più d’una
semplice figura
genitoriale. Era con lui che mi ero sempre confidato e aperto
maggiormente, era
con lui che avevo passato dodici anni della mia vita prima di tornare a
Central
per raggiungere nuovamente Oto-san, ed era sempre con lui che, per
paura dello
stesso Oto-san, cercavo di trovare una qualche soluzione credibile
quando mi
ritrovavo a prendere dei brutti voti o combinavo guai con le ragazze.
Nel ripensare allo scapestrato
diciottenne che ero
stato, mi ritrovai a sollevare appena un angolo della bocca in un
sorriso,
spostando lo sguardo dalla grande distesa verde del cimitero a quel
marmo
perlaceo per rivolgere, unicamente nella mia mente, un augurio ad
Oka-san.
Era stupido augurargli buon compleanno, lo sapevo.
Non avevo mai creduto in nessun Dio e in nessuna vita
dopo la morte proprio come i miei tutori ma, in quel momento, in cuor
mio
sperai che quelle mie poche e mute parole arrivassero ad Oka-san,
ovunque si
trovasse.
Passò ancora una buona
mezz’ora prima che vedessi
Oto-san alzarsi nuovamente in piedi.
Portai lo sguardo su di lui, vedendolo baciarsi
appena due dita prima di carezzare, in un gesto che mi parve lento e
delicato,
la tomba che avevamo dinnanzi; si voltò verso di me,
facendomi giusto un cenno
prima di cominciare ad avviarsi all’entrata del cimitero
senza aspettarmi. Lo seguii con gli occhi, alzandomi poi a mia volta e
avvicinandomi alla lapide per imitare il mio biondo tutore. Rivolsi
persino un
piccolo sorriso al nome di Oka-san, affrettandomi poi ad affiancarmi ad
Oto-san
e a tornare con lui alla macchina.
Non proferimmo una parola quando la
raggiungemmo,
esattamente come all’andata, limitandoci
solo ad accomodarci ai nostri rispettivi posti.
Misi in moto e mi lasciai il cimitero alle spalle,
diretto nuovamente alla nostra vecchia abitazione.
D’un tratto un profumo che conoscevo fin troppo bene
e che, fino a quel momento, non avevo minimamente sentito, mi giunse
alle
narici, richiamando la mia attenzione.
Era quasi irreale, a dire il vero.
Per un attimo il mio pensiero era persino volato ad
una presenza che non avrebbe potuto essere lì, prima che la
mia razionalità
convincesse il mio cuore che non poteva essere così.
«Oto-san?» lo
chiamai quindi, volendo avere una
conferma.
Con la coda dell’occhio, lo vidi voltarsi verso
di me con un’espressione triste e spenta. «Che cosa
c’è?» mi domandò con voce
stanca.
«Per caso hai... hai messo il profumo di Oka-san?»
gli chiesi in risposta, aspettandomi una qualunque reazione a quel mio
quesito.
Ci fu un attimo di silenzio che mi parve
durare in
eterno, prima che traesse un profondo sospiro e lo vedessi di sfuggita
poggiare
il capo contro il sediolino dell’auto.
«Aye... ho messo la sua acqua di colonia»,
mormorò,
abbassando di poco le palpebre. «È stupido,
vero?» soggiunse, quasi si fosse
reso conto di chissà cosa.
Scossi di poco il capo, sincero.
«Nay, non è stupido», volli quasi
rassicurarlo,
azzardandomi a distogliere di poco gli occhi dalla strada per
adocchiarlo,
tornando ben presto a guardare dinnanzi a me. «È
solo che... per un attimo ho
pensato che fosse qui, in macchina con noi», aggiunsi di
getto, sentendomi io
lo stupido nell’esprimere a parole quella constatazione.
Avevo sentito dire che l’olfatto fosse il senso che
più richiamava alla memoria i ricordi. Era
maledettamente vero, a quanto sembrava.
Fu a quel punto che sentii la risata di
Oto-san, una
risata assolutamente priva d’entusiasmo o di quella solita
sfumatura ilare che,
spesso, l’aveva sempre caratterizzato.
«Siamo proprio in vena di sentimentalismi, a quanto
sembra», commentò, sebbene sembrasse
più rivolto a se stesso che a me. «Se ci sentisse
Oka-san se la riderebbe bella grossa, per questo nostro
comportamento».
Svoltai a destra, lasciandomi andare a
mia volta ad
un piccolo sbuffo ilare nonostante il nuovo groppo che mi si era
formato in
gola.
«Ci prenderebbe in giro fino allo sfinimento, è
vero».
«E la smetterebbe solo dopo
avergli negato il
sesso»,
soggiunse lui, e a quelle sue stesse parole si zittì,
poggiandosi le mani sulle
cosce per carezzare, al di sopra della stoffa del pantalone, il suo
ginocchio
d’acciaio.
Non ribattei e non aggiunsi nulla alle sue parole,
limitandomi ad annuire appena e tenendo gli occhi fissi sulla strada
anche se,
di tanto in tanto, mi voltavo ancora di lato per scorgere
l’espressione che
aveva assunto il volto di Oto-san.
Nel silenzio dell’abitacolo, i
pensieri cominciarono a
vagare da soli, senza freno alcuno, lasciando che mi perdessi nei
ricordi d’un
passato ormai lontano.
“Il mondo
è dei pazzi e dei sognatori”.
Non mi
dicesti proprio questo una volta, Oka-san?
STAND BY ME. FINE
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
La
storia che avete appena finito di leggere è stata scritta
per il contest
indetto da Himechan84,
“Birthday Contest”,
ma
è tutto fuorché una storia che possa realmente
adattarsi ad un compleanno. Si è
classificata quarta
con il premio Miglior
Fandom e non mi lamento.
Per quanto mi riguarda, scriverla è stato
straziante; ho
più volte pensato di abbandonare la stesura e di lasciar
perdere, poiché per me questa è una storia
abbastanza
autobiografica ed era opprimente scrivere parola dopo parola. Non ho
quasi nemmeno avuto il coraggio di rileggerla, perché mi
sono
immedesimata un po' troppo in Jason e in Edward per la morte di una
persona altrettanto cara.
Mi
reputo comunque abbastanza soddisfatta della posizione e persino del
premio ottenuto. Ammetto poi che questa storia avrebbe dovuto
indicare il mio abbandono
del fandom, vista la piega che sta ormai prendendo, ma
posterò prima i capitoli delle altre storie che ho
già
pronti prima di dire definitivamente addio a tutti voi che mi avete
seguita in questi anni.
Ora vi lascio alla lettura del commento del giudice. ♥
QUARTA CLASSIFICATA
GIUDIZIO
Grammatica e sintassi: 10/10
Originalità: 8,5/10
Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
Stile: 10/10
Gradimento personale: 5/5
Totale: 43,5/45
Sentimenti a
caldo dopo aver letto questa storia: profonda malinconia,
nostalgia, rimpianto, tristezza sconfinata, ma anche un amore grande,
una devozione commovente, e proprio per questo ancora più
forte e
indissolubile. Tutta la storia è pervasa da un alone di
abbandono nei
ricordi che mi hanno emozionato molto, e ho trovato
l’espediente del
compleanno per rievocare il passato gioioso della famiglia, un motivo
davvero struggente, ma allo stesso tempo molto dolce. In particolare mi
è piaciuta fortemente sia la parte finale, dolcemente
commossa nella
sua semplicità, in cui Jason (che è un original
character veramente
straordinario), annusa ancora nell’aria il profumo di Roy, in
una sorta
di rievocazione sincera e anche per questo ancora più
toccante, e sia
il conforto che Jaz e Ed hanno l’uno per l’altro,
perché entrambi,
nonostante la pesante e ingombrante assenza di Oka-san, cercano di
sostenersi a vicenda, provando probabilmente un minimo di conforto
l’uno nell’altro.
Forse, ed è una mia
interpretazione personalissima, è
che tutti e due vedono una parte di Roy nell’altro, e al
contempo la
parte mancante di se stessi, rivissuta nei gesti, negli odori e nelle
parole di entrambi. E tutto ciò è profondamente
evocativo,
appassionante, coinvolgente, incredibilmente metaforico. Ho trovato
inoltre l’idea di andare a trovare Roy, proprio nel giorno
del suo
compleanno, e di sdrammatizzare con una deliziosa battuta, immaginata
per sollievo da chi gli vuole bene, un motivo per esorcizzare il
concetto inaccettabile della morte e della mancanza terrena di un
affetto: Foscolo l’avrebbe chiamata una celeste
corrispondenza d’amorosi sensi;
non voglio fare paragoni azzardati, ma questa tua storia
così
introspettiva mi ha evocato le stesse sensazioni del poeta de I
Sepolcri,
che io amo profondamente. Questo probabilmente è
l’ulteriore aspetto
che mi ha colpito e coinvolto di più di tutta la storia,
scritta
davvero in maniera impeccabile ed elegante, senza alcun errore
grammaticale né di battitura. E’ una storia
scritta con il cuore, e si
sente in ogni parola, in ogni lettera, in ogni singola virgola. La
lettura poi avvenuta con la canzone di E. King mi ha letteralmente
distrutta: davvero, le parole che hai inserito come citazione sono
vere, e rispecchiano perfettamente tutto l’animo di questa
storia
veramente stupenda, bella, intensa, triste e commovente.
Complimenti Pride, bravissima!
Post scriptum:
Ora posso dirlo, ho letto silenziosamente anche altre cose scritte da
te, e il tuo stile mi piace tantissimo, è davvero
coinvolgente e
interessante, e poi devo ringraziarti ulteriormente per avermi fatto
immensamente appassionare a un fandom splendido come FMA.
Messaggio
No Profit
Dona
l'8% del tuo tempo alla
causa pro-recensioni
Farai
felici milioni di
scrittori.
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