Mio
padre se n'è andato quando avevo quattro o cinque anni, e
ricordo perfettamente quella sera. Non so se capii subito che non lo
avrei più rivisto, so solo che non avevo mai visto i miei
genitori così arrabbiati. Avevano cominciato ad urlare e io
mi ero accostata alla porta per cercare di capire quello che si
dicevano, spaventata e allo stesso tempo curiosa. Parlavano in
italiano, questo me lo ricordo bene. Sono cresciuta bilingue ma non ho
praticamente mai parlato la mia lingua madre finché io e
mamma non ci siamo trasferite in Italia. Non capivo bene quello che
dicevano e oggi, se cerco di ricordarlo, non mi viene in mente, erano
parole quasi senza senso, per me. Ad un certo punto la mamma si era
seduta sul divano ed era scoppiata a piangere, coprendosi il viso con
le mani. Papà aveva esitato un momento, poi era uscito. Non
l'ho più visto, non è tornato mai neppure per
portare via la sua roba. Quando avevo avuto il coraggio di chiedere
alla mamma cosa fosse successo, lei si era limitata a stringermi a
sé e ad accarezzarmi i capelli, reprimendo i
singhiozzi. Era stata triste e taciturna per mesi, poi aveva cominciato
a riprendersi, sebbene credo pensi spesso a papà ancora
adesso. Io di lui conservo solo qualche fotografia sbiadita e delle
lettere che non ho mai avuto il coraggio di aprire. A volte lo odio,
per averci abbandonate, ma non riesco a fare a meno di sentire la sua
mancanza.
Non so perché in questo momento sto ripensando a lui, mi
sembrano secoli che non lo faccio. Probabilmente – anzi,
sicuramente – è a causa dello scatolone nel quale
sono inciampata questa mattina. Sopra, scritto a caratteri cubitali,
c'era il suo nome, ma non ho avuto il tempo di chiedermi
perché fosse in mezzo al corridoio o chi ce l'avesse
portato, ero troppo spaventosamente in ritardo.
«Valenti, è così cortese da ripetermi
quello che ho appena detto?» domanda stizzita la Neri,
interrompendo bruscamente i miei pensieri, mentre si aggiusta gli
occhiali spessi e mi fissa con quella sua perenne aria di
disapprovazione.
Sobbalzo e abbasso lo sguardo, cercando un qualche aiuto negli appunti
che ho preso, per poi rendermi conto che non ho preso appunti, mi sono
limitata a scarabocchiare. Impreco tra me.
«Stava dicendo qualcosa sui... uhm... la Scuola
Siciliana?» domando, con voce acuta.
Teoricamente non ho sbagliato, la Scuola Siciliana è
l'argomento che stiamo trattando da ormai due settimane, purtroppo temo
che la prof si aspettasse un qualcosa di più dettagliato.
La Neri fa un sorriso sarcastico. «Molto furba, Valenti, lo
riconosco, ma temo che dovrò metterle un meno sul
registro» sfoglia pigramente le pagine mentre io mi lascio
sfuggire un gemito.
È il quarto meno in una settimana, se arrivo a cinque mi
becco un tre, come non evita di ricordarmi la professoressa. Dio, e
questo come lo spiego a mia madre?
«Come vi ho già ripetuto un centinaio di volte,
l'ascolto e l'attenzione sono fondamentali se si vuole essere promossi
con più di un sei stiracchiato. Ritengo che sia impossibile
studiare tutto a casa. Lei cosa ne dice, Valenti?» mi
domanda, sistemandosi di nuovo gli occhiali.
«Mi scusi, prof... mi impegnerò a stare
più attenta» mormoro, distogliendo lo sguardo.
«Come stavo dicendo» riprende lei, impassibile.
«I poeti della Scuola sono riconducibili al numero di
venticinque, i cui componimenti trovarono realizzazione nel ventennio
compreso tra il 1230 e il 1250...»
Cerco di stare attenta, davvero, ma dopo meno di cinque minuti la mia
mente è di nuovo altrove. Non so cosa mi prende,
ultimamente: sono distratta e discontinua e la mia media ne sta
pesantemente risentendo.
Quando, qualche ora dopo, apro la porta di casa, la musica a tutto
volume mi fa sobbalzare.
«Mamma?» domando, a voce più alta che
posso.
Lascio lo zaino in corridoio e mi sfilo il cappotto e le scarpe da
ginnastica, per poi raggiungerla in soggiorno. Sta dipingendo qualcosa
al cavalletto, muovendosi a ritmo di musica. Non mi vede subito, troppo
impegnata a stendere il colore.
«Mamma!» la chiamo di nuovo, mettendo a dura prova
le mie corde vocali.
Si volta a guardarmi e sorride, per poi afferrare il telecomando dello
stereo e abbassare la musica.
«Michelle, tesoro! È già l'una e
mezza?» domanda, sorpresa, ignorando completamente
l'espressione stordita sul mio volto.
Alzo gli occhi al cielo, poi scoppio a ridere. «A quanto
pare...» sospiro.
Si passa una mano tra i capelli castani – ha smesso di
tingerli tipo l'anno scorso e non riesco ancora ad abituarmi
– e posa il pennello.
«Cavoli, non ho preparato nulla per pranzo...» si
rimprovera.
Mi stringo nelle spalle. «Non importa, ci mangeremo un
panino... non ho nemmeno tanta fame» la rassicuro, con un
mezzo sorriso.
«Sei tu la figlia» ricambia, divertita.
Si passa le mani sporche di colore sulla vecchia camicia che usa per
non sporcarsi e corre in bagno, probabilmente per una doccia veloce.
Mentre prendo il pane in cassetta, noto le tele impilate ordinatamente
sul tavolo.
Mia madre è un'artista e, se una volta dipingeva solo per
hobby, ora l'arte è diventata il suo lavoro. Ha cominciato
ad organizzare mostre a Parigi e i suoi acquerelli andavano a ruba, ha
guadagnato una fortuna in pochi mesi e ha deciso di provare altre forme
di pittura e di espressione artistica. Ora fa un po' di tutto, dai vasi
di ceramica ai graffiti, dai ritratti all'arte astratta.
Mi preparo un panino al formaggio e prendo una lattina di coca cola,
poi mi chiudo in camera mia, canticchiando tra me “Time is
Running Out” dei Muse, che mamma stava ascoltando quando sono
entrata, per poi sobbalzare sentendo qualcosa vibrare nella mia tasca.
Tiro fuori il cellulare e fisso il nome sul display in trance per
qualche secondo.
«Non rispondi?» domanda mia madre, facendo capolino
con un sorriso divertito.
Mi riscuoto e mi mordo il labbro, imbarazzata.
«Pronto?»
«Mi vuoi spiegare perché cazzo non mi hai
aspettata oggi dopo scuola?» domanda irritata la voce
dall'altro capo.
«Alice?» chiedo, incerta.
«No, la Fata Turchina! Certo che sono Alice!»
sbotta lei, sarcastica.
Resto in silenzio, senza sapere bene cosa dire.
«Allora?» mi incita lei, sbuffando.
«Cosa?»
«Perché hai preso e te ne sei andata? Guarda che
ci sono rimasta male... e anche Fabio era alquanto
perplesso...»
«Sì, io ho... ehm... oggi dovevo tornare a casa
presto» mento.
In realtà non so nemmeno io perché oggi non mi
sono fermata ad aspettare Fabio e Alice, semplicemente avevo voglia di
tornare a casa e l'ho fatto.
«Ah, okay... beh, la prossima volta avvertici! Insomma, non
è che ti costa qualcosa mandarmi un messaggio o dire a Marta
“Ehi, puoi avvertire Ali e Fabio che oggi vado via
prima?”» sbotta.
Alzo gli occhi al cielo. Alice sa essere molto polemica, quando vuole,
e riesce a sfinirti facilmente, in più è
permalosissima. Nonostante tutto, io la adoro... probabilmente
è una delle poche persone delle quali mi posso fidare
ciecamente, di quelle che mi fanno ridere e che sanno quando preferisco
essere lasciata sola con i miei pensieri. Non so come farei senza il
suo costante buonumore.
«Okay Ali, promesso» sospiro, sdraiandomi sul letto.
«Ecco brava...» ride lei, e io sospiro di sollievo:
la ramanzina è finita.
«Novità?» chiedo, sedendomi sul letto e
fissandomi i piedi assorta.
«No. Anzi, sì... Fabio dice che ti vuole
parlare» risponde lei.
«Eh?» domando, confusa.
«Me lo ha scritto adesso, stiamo chattando... gli ho detto
che sto parlando al telefono con te e lui “Ah, dille che dopo
le devo parlare”» spiega.
Stringo le labbra. «E tu sai perché?»
«Certo, anche tu no?» esclama, con fare ovvio.
Rimango in silenzio. Sì, lo so anche io... o forse no. In
realtà spero la seconda.
«Pronto? Michelle?» mi chiama Alice dall'altra
parte.
«Secondo te di cosa?» le chiedo, tanto per essere
sicura.
«Di Sara, è ovvio... perché, tu che
pensavi?» domanda di rimando.
«Anche io pensavo a Sara» ammetto, sospirando.
«Beh, è logico no? Si vedeva lontano un miglio che
ci sei rimasta di merda» mi fa notare.
Di nuovo non rispondo, fisso il tappeto senza sapere cosa pensare, per
poi sobbalzare quando mamma apre la porta ed entra in camera con una
pila di vestiti stirati in una mano e un panino al prosciutto
nell'altra. Qualcosa nella sua figura non riesce fare a meno di farmi
sorridere.
«Ma lui ti piace o no?» domanda Alice ad un certo
punto.
Scrollo le spalle. «Non lo so...» ammetto,
mordendomi forte il labbro.
Fabio è stata la prima persona con la quale ho stretto
amicizia quando sono arrivata in Italia: era nella mia stessa classe
alle medie e siamo diventati letteralmente inseparabili, almeno
finché non mi ha fatto conoscere Alice e ho cominciato a
frequentare quasi di più lei. Non c'è mai stata
nulla più che semplice amicizia, tra noi due, almeno
finché, due settimane fa, non l'ho visto baciare Sara. Non
mi sono resa conto nemmeno io di quanto la cosa mi avesse sconvolta,
finché Alice non me l'ha fatto notare. Qualcosa, nel mio
piccolo e perfetto universo personale, si era sconvolta, sconvolgendo
di conseguenza anche me. Pochi giorni dopo, Fabio mi ha rivelato che
tra lui e Sara era nato qualcosa, il giorno del bacio, e che
è possibile che si mettano assieme. Sì, ci sono
rimasta male, e io stessa mi sento una stupida, per questo. Credo di
aver paura che qualcuno mi porti via Fabio e mi sento un'egoista, dato
che io stessa l'ho trascurato, nell'ultimo anno. Eppure, sento che non
è solo questo: improvvisamente mi sento diversa ogni volta
che sto assieme a lui, scoppio di felicità ogni volta che mi
sorride, mi sento in imbarazzo per cose stupidissime, in ogni momento
ho paura di aver fatto una figuraccia e ogni volta che mi sfiora sento
uno strano calore invadermi e le mie guance si fanno immediatamente
rosso fuoco. Significa che sono innamorata di lui? Dio, non ci ho mai
saputo fare con i ragazzi, ma un tempo questo non era importante: non
mi è mai piaciuto davvero qualcuno, se non all'asilo. Sono
una specie di maschiaccio sotto molti versi, ho sempre visto i maschi
come amici, niente di più, e ora? Possibile che tra tutti i
ragazzi che ci sono nella mia scuola dovevo prendermi una cotta proprio
per il mio migliore amico? In più, come se non fosse
già abbastanza frustrante, lui sta per mettersi assieme ad
un'altra, e giuro che vorrei prenderla a schiaffi ogni volta che la
vedo, per quanto non abbia mai avuto nulla contro di lei.
A volte vorrei tanto parlare di questo con mia madre con la stessa
facilità di quando le parlo di altre cose, eppure
c'è qualcosa che ogni volta mi frena. Primo, ho paura di
farle affiorare brutti ricordi: conosco abbastanza il suo passato per
sapere che gli unici due ragazzi con i quali abbia mai avuto una storia
importante si sono rivelati solo fonte di tristezza, prima il suo
migliore amico, che le ha rovinato l'adolescenza, poi papà,
che, per quanto possa averle regalato molti anni felici, se
n'è andato senza tornare mai più. Secondo, il
sesso. Ho sedici anni e non ho mai avuto un ragazzo, perciò
mia madre non si è mai sentita in dovere di parlarmene, e sa
comunque che sono abbastanza intelligente da sapere abbastanza bene in
cosa consiste... insomma, farò la figura della verginella
incallita, ma sono imbarazzata da morire all'idea di avere un discorso
simile con mia madre... meglio tardi che mai, per quanto mi riguarda.
«Capisco...» mormora Alice, strappandomi dalle mie
riflessioni.
«Già, beh... cosa fai oggi?» domando,
sorridendo appena.
«Nuoto quasi tutto il pomeriggio, sabato ho le selezioni, tu
invece?»
«A quanto pare nulla» sospiro.
La sento ridacchiare, poi un tonfo preceduto da un piccolo strillo.
Allontano il telefono dall'orecchio, infastidita dal rumore, e aggrotto
le sopracciglia.
«Ali, stai bene?» domando, perplessa.
«No... merda, sono in ritardo! Come è possibile
che siano già le tre e un quarto?» esclama.
Le tre e un quarto? Guardo l'orologio.
«Non sono nemmeno le due» la correggo, ancora
più perplessa.
«Cosa?» domanda lei, incredula.
«Manca un quarto alle due, Alice... non credo che tu sia in
ritardo» ripeto.
«Ma la mia sveglia segna le...» balbetta, poi si
interrompe.
«Alice?»
«MARCO, BRUTTO IDIOTA!» strilla lei.
Sobbalzo e per poco non mi cade il telefono di mano.
«Non urlare» dice una voce che sento a malapena.
«Lo sai che ci sento benissimo.»
«Ti sembrano scherzi da fare? Mi è quasi venuto un
infarto!»
Ridacchio. Marco è il fratello maggiore di Alice, si odiano
più o meno da quanto lei è nata. Con il sorriso
sulle labbra, chiudo la telefonata, conosco la mia migliore amica
abbastanza bene da sapere che non sarà un litigio di qualche
minuto, e che una volta terminato lei sarà troppo irritata
per ricordarsi che stava parlando con me.
Indecisa su come passare il tempo, prendo lo zaino e mi metto a fare i
compiti che, stranamente, sono molto più facili di quello
che mi aspettavo, e riesco a finire in meno di un'ora. Quando chiudo il
libro di storia sono solo le due e quaranta e ho un intero pomeriggio
di assoluto far niente davanti a me. Non so se l'idea mi attira o meno.
«Tesoro?» mi chiama mia madre, facendo capolino
nella mia stanza.
«Cosa c'è?» domando, con un sorriso.
«Hai qualcosa da fare oggi?» mi domanda.
«Nulla di nulla» sospiro io, passandomi una mano
tra i capelli.
«Fantastico!» esclama lei.
«Cioè, avevo una mezza idea di andare a fare una
passeggiata, se ti va...» propone.
Ci penso un attimo. Sì, ne ho voglia, e mi farebbe bene
camminare un po'. Le sorrido e mi alzo, afferrando un elastico e
legandomi i capelli.
«Ci sto, basta che non ci metti mezz'ora a prepararti, come
fai sempre» accetto, divertita.
«Sono già pronta» ammette lei, aprendo
la porta del tutto e facendo un giro su sé stessa.
Scoppio a ridere e prendo scarpe e cappotto, per poi seguirla fuori.
Quando rientriamo, poco più tardi, noto di nuovo la scatola
di cartone di questa mattina, relegata in un angolo, come se fosse
stata lasciata lì per essere dimenticata per sempre. Mamma
non ci presta attenzione, si sfila il cappotto e si sfrega le mani,
infreddolita.
«Cavoli, la spesa...!» esclama, dandosi una sonora
pacca sulla fronte.
Sorrido, cercando di ignorare la voglia di chiedere spiegazioni.
«E chi ha voglia di fare una corsa per beccare il
supermercato chiuso?» sbuffa, passandosi una mano tra i
capelli.
«Beh, ci dev'essere qualcosa di commestibile, no?»
le faccio notare, sistemando la giacca sull'appendiabiti.
«Gli avanzi del pollo di ieri... e magari
un'insalata...» riflette lei.
«Perfetto, più del pane e un film... meglio di
quello che speravo» sorrido.
Lei ricambia e si dirige in cucina.
Ora o mai più.
Mi sfilo gli stivali e afferro la scatola, per poi trascinarla il
più silenziosamente in camera mia e posarla sul letto. Con
un sospiro e mi siedo accanto a lei, per poi sfiorare con dita incerte
le lettere scritte con il pennarello nero. Davide. A volte mi sembra di
sapere solo questo, di mio padre, il suo nome. Me lo ricordo appena...
già, ho sedici anni e di mio padre conservo solo qualche
fotografia sbiadita. Non ricordo nemmeno il suono della sua voce.
Sento un nodo stringersi in gola, mentre cerco di convincermi che se i
miei occhi sono umidi è solo ed esclusivamente per la
polvere. Accarezzo il cartone, senza trovare il coraggio di sollevare
il coperchio, mentre continuo a leggere il suo nome come se il solo
farlo potesse aiutarmi a ricordare come fosse lui.
«Michelle, tesoro...» mi chiama mia madre,
entrando, mentre si strofina le mani su un canovaccio.
Sobbalzo e mi volto a guardarla, quasi spaventata. Mi osserva
interrogativa, poi sposta lo sguardo sulla scatola accanto a me e il
suo volto cambia letteralmente espressione: la fronte si corruga appena
e gli occhi si accendono di quella punta di malinconia che appare solo
quando si parla di mio padre. Fa un sorriso triste e si siede accanto a
me. Non so cosa dire e allo stesso tempo capisco che non serve che dica
nulla, lei ha già capito. Si sistema la scatola in grembo e
la apre delicatamente, senza un pizzico di incertezza. I suoi occhi si
fanno umidi all'improvviso, mentre osserva gli oggetti al suo interno e
io, quasi spaventata, seguo il suo sguardo, per cercare di capire cosa
la turba tanto.
Una macchina fotografica professionale, una di quelle che ho sempre
desiderato, e montagne di foto, alcune tenute insieme da un nastro,
altre sistemate con cura in album rilegati in pelle. Mia madre le
sfiora con una mano, mentre con l'altra si asciuga gli occhi, e io
capisco che probabilmente non potrò mai davvero capire
quanto quelle foto significhino per lei.
«Scattare foto era tutta la sua vita» sussurra,
sorridendo di nuovo in un modo tanto triste e allo stesso tempo tanto
colmo di tenerezza da farmi commuovere. «Probabilmente lo
è ancora adesso» aggiunge. «Prima e dopo
la tua nascita abbiamo viaggiato tutta l'Europa in automobile, armati
solo di una cartina e la macchina fotografica, più qualche
tela bianca e dei colori per me» racconta. «Quei
mesi sono stati tra i più belli di tutta la mia vita, e sono
tutti racchiusi qui, in questa scatola.»
Incerta, afferro un paio di foto. Non riesco a riconoscere il
paesaggio, ma sullo sfondo c'è una strada. La mamma
è bellissima, probabilmente come non l'ho mai vista: sorride
in modo così sincero e naturale da sembrare una bambina, e
nei suoi occhi non c'è traccia di tristezza o di solitudine.
Sorrido appena, poi mi volto a guardarla.
«Mi diceva sempre che ero il suo soggetto
preferito» ammette, sorridendo di nuovo. «Per
quanto cercassi di convincerlo a fotografare qualcos'altro, il suo
obbiettivo tornava sempre su di me, dopo un po'... diceva che ero
troppo bella per essere vera.»
Automaticamente, poso la testa sulla sua spalla. Non mi sono nemmeno
accorta di aver cominciato a piangere.
«Lui ti amava?» mi ritrovo a chiedere, con voce
rotta.
Non risponde subito, guarda davanti a sé, persa in
chissà quali ricordi.
«Amava entrambe» risponde infine.
«E allora perché è andato
via?»
Questa volta il silenzio dura più allungo, poi lei richiude
la scatola, la posa sul pavimento e si alza.
«È meglio che vada a preparare la cena,
adesso» annuncia, cercando di suonare allegra.
La guardo uscire senza riuscire a sorridere, poi mi accoccolo sul letto
e chiudo gli occhi, cercando semplicemente di non pensare.
*** Spazio Autrici ***
Salve, qui Leslie, come avrete intuito (:
Sarò breve, anche perché non sono riuscita a
rileggere il capitolo (causa: pc stupido) e non mi è venuto
in mente un granché da dire >,<
Come fose avrete notato, Michelle è un personaggio piuttosto
diverso da Cleo, dal punto di vista caratteriale, infatti mentre il
passato burrascoso della madre l'ha resa un po' innocente e quasi
infantile, quello di Michelle l'ha fatta crescere un po' troppo in
fretta. Aspettatevi dei capitoli un po' più malinconici, per
quanto riguarda la mia metà della storia.
Per quanto riguarda la stesura, sono alla parte finale del quarto
capitolo mentre Lalla è impegnata con il quinto, spero che
continueremo a procedere più o meno regolarmente, in modo da
non creare buchi enormi tra un capitolo e l'altro, ma vi consiglio
subito di essere pazienti. (: (mah, secondo me abbiamo ripreso a
scrivere brillantemente – modesti a parte, ovviamente
X°°D – Io francamente pensavo di non
riuscire più a riprendermi dal periodo nero in cui ero! ^^''
NdLaLLa)
Foto personaggi
Michelle
ashleys
waaa, siamo contente che tu sia contenta che abbiamo postato il seguito
xP e ci dispiace per il tuo periodo stranissimo >.< (ti
capisco però, stella, anche a me capitano questi periodi. Ed
è orrendo =.= NdLaLLa) spero che tu sia rimasta entusiasta
(si può dire? o è troppo 'non modesto'? xD) anche
di questo secondo capitolo e speriamo di continuare a leggere le tue
recensioni... (quoto alla grande: adoooooro i tuoi commenti. Sei
fantastica, tesoro ^^ NdLaLLa) un bacio <3
so, it's all for now...
love, Leslie and LaLLa
Ps. Scusate ma neanche per questa volta siamo riuscite a concludere il logo, per il prossimo capitolo giuriamo che sarà pronto ^^'''(NdLaLLa)