Salve gente!
Qui cartacciabianca
e dark dream
che vi parlano, frequentatori abituali della sezione
Assassin’s Creed che vengono a tormentarvi anche qui, lieti
di annunciare la nostra seconda fan fiction in cooperativa! La gente
che scrive questo genere di storie non è normale,
perciò potete stare tranquilli che neppure noi lo siamo! XD
Allora, prima che vi
avventuriate alla lettura dei nostri scleri quotidiani, vediamo di
analizzare cosa è davvero questa fan fiction.
<.<
Innanzitutto, quando si
tratta di una nostra storia a più mani, abbiamo il brutto
vizziaccio di reincarnarci un poco nei personaggi che creiamo, in
questo caso i due gemelli di cui leggerete, Isabella (cartacciabianca)
e Leonardo (dark dream). L’unica premessa che facciamo
è che nessuno di noi due sa quanto costantemente e
assiduamente riusciremo ad aggiornare questa storia, per il semplice
fatto che a tenerci impegnati c’è moooooolto
(troppo) altro! E chi c’ha da fa latino sa di cosa
parliamo… <.<
Come secondo punto
fondamentale, la storia ricalca sicuramente meglio ciò che
è il GIOCO di Dante’s Inferno più che
la reale (Divina) Commedia, per il semplice fatto che (quanto mi piace
dire “per il semplice fatto che” *w* ) ci torna
più facile giocare al videogioco che leggerci e interpretare
i testi di Alighieri! XD
Nonostante
ciò (come avete potuto intuire, non siamo persone
normali!XD) speriamo vivamente che qualcuno abbia pietà di
noi e legga gli sfoghi della nostra fantasia. Se ci scappa una
recensione, pure meglio! *w*
Allora a presto! E buona
lettura ;D
Prologo
“Come
sale nella carne”
Qualcosa andò in frantumi e si sparpagliò in
mille pezzi sul pavimento.
Isabella richiuse il libro che stava leggendo e lo adagiò
sulle ginocchia, voltando leggermente il capo verso
l’ingresso di casa. Seduta sulla panca della veranda, che
affacciava in strada, la giovanissima Portinari non era ma quasi
sobbalzata per lo spavento. Aggrottò la fronte e chiese,
rivolta a chiunque fosse all’interno: -Tutto bene?-.
Era una soleggiata giornata, nonostante le minacciose nuvole grigie che
si annidavano a nord e puntavano verso Firenze spinte dal vento. La
città era nel fervore del mercato e della gente chiassosa,
il cui ciarlare non disturbava minimamente una ragazza così
prona e capace di isolare la mente da ogni male.
-Se vieni a darmi una mano forse è meglio, che dici?-
brontolò una voce maschile dall’interno.
Isabella sospirò e, con immensa pazienza, rientrò
in casa. Si affacciò in cucina e trovò il
fratello intento a raccogliere i cocci di una porcellana dal pavimento.
A prima vista la ragazza riconobbe in terra sparpagliato quello che le
parve zucchero.
-È sale- si apprestò a dire Leonardo Portinari
come leggendole nel pensiero. Finì di raccogliere i
brandelli e porse alla sorella la scopa. –Su, avanti, prima
che torni nostra madre e veda cosa abbiamo combinato-.
-Cosa TU hai combinato- lo corresse Isabella con una risatina.
–‘Sta volta non la passerai liscia-.
-Suvvia, sorellina, per una volta che voglio condividere qualcosa con
te, rifiuti in questo modo!- scherzò.
Isabella prese a spazzare il pavimento raggruppando il sale da una
parte, così che il fratello, con una paletta di legno,
potesse imprigionarla ad un nuovo passaggio di setole di paglia.
A cose fatte i due gemelli si scambiarono un’occhiata
complice.
-Il gatto?- domandò Leonardo inarcando un sopracciglio.
-Il gatto- ne convenne lei.
Dalla porta d’ingresso comparvero in quell’istante
due raggianti figure femminili, emerse come d’incanto dalla
folla che animava la strada di fuori.
La prima era l’Elisabetta loro madre: castana, occhi azzurri
come il ghiaccio, viso maturo, senziente quanto può esserlo
quello di una donna buona e saggia. Non era tanto alta, ma nemmeno
troppo bassa rispetto al figlio che l’aveva superata
già all’età di dodici anni. Figuriamoci
ora che ne avevano, sia lui che la sorella, venti! Vestiva di un abito
non troppo sfarzoso, ma che si addiceva al simbolo femminile di buon
casato che rappresentava.
La seconda dama aveva invece capelli lisci e vivi di un biondo oro.
Occhi profondi e carichi della stessa purezza che traspirava la sua
pelle candida come un lenzuolo. Indossava un vestito bianco e ocra che
risaltava le spalle magre e le sfinava il ventre piatto, senza
risaltarle troppo il seno.
Elisabetta entrò in cucina e posò sul tavolo le
buste con le compere fatte al mercato in compagnia della cognata.
-Zia Bea!- esultarono i gemelli quando la videro, nascondendo scopa e
paletta all’istante, e la donna sorrise radiosa.
-Sorpresa- gioì Elisabetta guardando prima i figli poi la
parente acquisita. –Ci siamo incontrate per caso al mercato e
ho pensato che vi avrebbe fatto piacere rivedere vostra zia- disse.
Isabella mise da parte la scopa e andò ad abbracciare la
dama. Beatrice le fece tanti bei complimenti sui suoi capelli sempre
profumatissimi, come li aveva da bambina, e per quanto in fretta fosse
diventata una bellissima donna. Isabella arrossì non
riuscendo a dissimulare l’imbarazzo che provava ad ogni
elogio di quelli.
Venne il turno di Leonardo che, dopo aver approfittato della
distrazione delle tre grazie per mettere via i resti di coccio e sale
nella pattumiera, andò incontro alla zia con un inchino
garbato.
-La vostra bellezza fa invidia alle mie coetanee compagne di scuola,
Beatrice- pronunciò sincero il ragazzo.
-Leonardo, potrei giurare che, per quanto me lo ricordi, sei diventato
più alto di tuo padre- rispose Beatrice senza smettere di
sorridere.
-E forse forte quanto lui! Se solo mi avesse permesso di venire in
Crociata, io…-.
Elisabetta lo interruppe bruscamente, ora accigliata. –Ma
sentilo l’ometto di casa! Vuoi andare in guerra proprio tu
che a mala pena selli il cavallo- lo derise con una nota amara nella
voce.
Il tasto della Guerra Santa era tanto delicato quanto spinoso per
Elisabetta, moglie di Francesco che era partito già da
qualche mese.
Isabella chinò il capo e affondò il mento nel
petto, sentendo salire l’angoscia di quelle volte che si
parlava di suo padre.
Beatrice scambiò con la cognata uno sguardo carico di
rammarico, come se fosse colpa sua il motivo di tanto improvviso
rancore.
-Vi fermate per cena, zia?- domandò Leonardo meno serio.
Bea scosse la testa. –Mi piacerebbe molto, ma Alighiero ha
insistito perché restassi a casa con lui in questo periodo.
Ho paura che farlo preoccupare potrebbe mettere a rischio
l’incolumità di più gente-.
Elisabetta arricciò il naso al sentir pronunciare quel nome.
Non gli era mai piaciuto il padre dell’uomo al quale Beatrice
era promessa. A Firenze era oltremodo risaputo che fosse un grande
avaro, goloso e lussurioso, e la moglie di Francesco aveva insegnato
con costanza ai suoi figli a stare lontano da gente simile. In
compenso, il Dante che era partito con Francesco si diceva fosse un
vero uomo onorevole e galante.
Beatrice andò via così, salutando cordialmente e
baciando tutti e tre con amore. Quando la porta si fu chiusa alle
spalle della dama, Leonardo seguì la sua figura angelica
perdersi nella folla.
-Lo sappiamo che è una bellissima donna, Leonardo, non
c’è bisogno che lo gridi così forte-
ridacchiò Isabella venendogli accanto.
Leonardo si riscosse dal guardare in strada e finse di occuparsi
d’altro. –Non so di cosa tu stia parlando-
biascicò.
-Se non fosse che è già promessa al miglior amico
di nostro padre, l’avresti corteggiata già cento
volte!- insisté la ragazza con malizia. –Meno male
che hai un po’ di buon senso a lasciar stare le donne
più vecchie di te-.
-Smettila, dai- eruppe Leonardo. –Sì, è
una bellissima donna, e con questo?! Non posso pensarlo senza che mi si
dia dell’innamorato?!- sbottò a sua difesa.
-Isabella, Leonardo!- strillò d’un tratto
Elisabetta dalla cucina.
I due si precipitarono di corsa, allarmati, ma sorpresero la loro madre
che teneva in mano il sacco di paglia dentro al quale il ragazzo aveva
gettato i cocci e il sale finiti in terra. La donna scrutò
allungo i figli senza aggiungere parola; bastava guardarla in faccia e
temere i suoi pensieri perché ai gemelli tremassero le gambe.
I due fratelli si scambiarono un’occhiata nervosa. Poi
guardarono la madre e dissero in coro: -È stato il gatto!-.
~ ۞ ~
Non aveva idea di che posto fosse o di quanto allungo vi sarebbe
restato. Quel che dava certo, però, erano le grida di dolore
e terrore mescolate ai cori di guerra e ai tamburi in lontananza.
Questi scandivano il passo dei prigionieri che seguivano la mala via
l’uno dietro l’altro, come legati da una catena
tanto robusta quanto invisibile come quella della resa alla
disperazione.
Di tutta la gente che lo circondava, Francesco non vide nessuno tentare
la fuga: in momenti del genere la natura umana comanda di star come
pecore coi suoi simili, senza ribellioni, senza litigi. Ma neppure
loro, gli umani davanti e dietro di lui, potevano dirsi tali: nudi,
privi di altro che non fosse l’unico corpo,
l’oggetto col solo scopo di contenere l’anima.
La salita finiva là dove, abbandonata la nave che li aveva
traghettati sull’Acheronte, Francesco vide comparire un
grande anfiteatro colonnato dall’aspetto greco antico. Nel
mezzo tra due pilastri sedeva, o meglio, s’aggrappava agli
stessi un mostro di misure colossali, peggio di tutti quelli che il
Portinari aveva incontrato nel suo lungo cammino da punibile reietto.
Si era milioni, (ma che!) miliardi di milioni a dover attendere il
proprio turno. Uno ad uno, quel mostro orripilante pigliava chi voleva
come prodotti da scaffale e se li portava vicino al naso,
perché occhi non aveva. Poi gridava:
“Avarizia!”, “Gola!”,
“Lussuria!”, “Ira!” con tanto
furore a seconda dei peccati di cui si erano macchiati quelle donne o
quegli uomini.
Alcuni tornavano indietro, nuotavano contro la corrente di gente che
saliva, saliva fino a non sentirsi più le gambe (era una
pena anche quella) stringendosi le tempie e gridando. Francesco ne vide
più di uno, scendevano, tornavano verso la nave
sull’Acheronte correndo o trottando, ma sempre in una falsa
fuga. Follia. Era ciò a cui aspirava quel luogo di tortura?
No, non la follia… bensì il dolore che scaturisce
da essa, la consapevolezza di essere matti nuoce ancor più
dell’esserlo e basta. Ecco cos’è il
Limbo, si disse Francesco giungendo alle colonne del teatro e
inginocchiandosi al viscido suolo, sporco di sangue.
Attorno a sé vedeva uomini e donne nella sua stessa
condizione, a mangiarsi le carni o giungere le mani in preghiera. Ma il
tempo del perdono era scaduto, comprese, perché dinnanzi
allo smistatore d’anime e corpi non sarebbe sfuggita neppure
la briciola di pane gettata in terra da un goloso.
Fu così che Minosse lo afferrò per la caviglia
stringendo a tal punto da rompergliela, ma Francesco ben sapeva che
nell’arco di pochi minuti gli sarebbe guarita, per poi
tornare a dolere nei momenti in cui altre bestie dell’Inferno
avessero voluto far di lui un dilettante giocattolo.
Francesco tentò in ogni modo, anche con un morso, di
strapparsi via il tentacolo da quel che restava della sua carne umana.
Picchiò colpi, pugni, si dimenò come la bestia
che aveva saputo essere in battaglia al fianco di Dante, il cui volto
al momento della morte ricordava per filo e per segno.
Era colpa sua se periva tra le fiamme dell’Inferno,
altroché! Francesco ruggì di collera, ira, e non
gli importò di farlo anche in faccia a Minosse che,
tenendolo sottosopra sospeso nell’aria, se lo
annusò per bene.
-Ira!- sibilò sprezzante, ma prima di gettarlo alla ruota,
indugiò un istante, se lo avvicinò di nuovo e
annusò una seconda volta. Storcendo il naso, Minosse
così disse: –Credevi di poter nascondere
i tuoi ben peggiori peccati dietro una maschera da iracondo?! Stupido
ingenuo! Violenza!- si corresse.
Scaraventò il Francesco senza esitare un attimo in
più. L’uomo finì trafitto e in un mare
di sangue sull’uncino della ruota. Tenne per sé il
dolore quando con un colpo netto all’ingranaggio Minosse lo
gettò nell’oscurità degli Inferi
volgendosi al condannato del turno successivo.
Francesco cadde come cadeva un morto, precipitò
nell’abisso scuro che era l’eterno dolore, tra
grida, fiamme e ancora grida. I suoi occhi verdi e sgranati videro le
anime girare nel vortice della lussuria, consumarsi nelle bocche di
Cerbero, crogiolarsi nell’oro
dell’avidità. Più giù
ancora, gli iracondi annaspare nelle paludi o gli eretici ardere nelle
tombe infuocate.
Francesco cadde avvolto dalle impetuose correnti del Fiume di Sangue
Ribollente, che lo trascinò lungo tutte le coste
frastagliate del VII Cerchio dell’Inferno: i Violenti.
Dove la disperazione e l’eterno calore del sangue li
corrodono, muoiono e rinascono, muoiono e rinascono i violenti verso
gli altri.
Una nera foresta di alberi umani accoglieva i suicidi, il cui corpo
tramutava in radici e arbusti per quel non rispetto ad esso dato in
vita.
Il Fiume di Sangue Ribollente schiaffò Francesco sulla riva
ospitante i violenti verso Dio. Nei torridi deserti dove piovevano
cenere e fiamme, il Portinari si trascinò in ginocchio
scottandosi quel che restava della sua pelle. Strinse
l’ardente sabbia tra le dita e sfogò il dolore
gridando, mentre il sangue del Fiume scorreva via dal suo corpo.
Ecco compiersi la meta del suo viaggio. Francesco alzò gli
occhi e vide le anime dei suoi compagni crociati inginocchiati a terra
e rivolti verso il Dio che in guerra o in pace hanno offeso o rinnegato
con la carne.
L’eternità gli si apriva dinnanzi come i battenti
di un grande e vasto portone. Il Portinari assaporò il
dolore e ne prese gusto, sotto il sole cocente e il cielo in tempesta.
Sgombrò la mente, concentrato solo a guardar il
Misericordioso Dio che da lassù l’aveva condannato
quaggiù.
D’un tratto, nell’oblio dei sensi,
un’ombra di fumo si materializzò al suo fianco, ma
Francesco, come imposto dall’eterno castigo, non
poté voltarsi, perché li occhi verdi suoi
dovevano restar fissi al Signore.
-Quale anima costretta al peccato giace qui?- si chiese
quell’ombra fluttuando alle spalle di Francesco.
L’uomo schiuse le labbra secche e spaccate:
-Francesco… il mio nome è tale- rispose in un
flebile sussurro.
Il fumo lo avvolse, Francesco se ne sentì mangiare le carni,
ma l’essere di tenebra si materializzò davanti a
lui nella sua forma più umana. Era un uomo, si capiva dal
fisico oltre che dalla voce; un viso sornione e occhi dorati,
così intensi da far rabbrividire che troppo allungo li
guarda. Francesco non poté muoversi per distogliere lo
sguardo, ora che l’ombra fissava lui come lui fissava Dio.
-Avverto del buono in te- sibilò, -non sei da gettar via-
commentò anche.
-Chi sei?!- gemé Francesco, improvvisamente nudo dinnanzi
quel lui che sembrava saper troppo di sé.
-Ho molti nomi, ma per te sarò solo colui che è
incatenato ai traditori per la stessa ingiustizia stata fatta a te- fu
la sua risposta, e Francesco seppe comprenderla.
-Cosa vuoi da me?-.
-Sei tu, piuttosto, che dovresti volere qualcosa da me…-
ridacchiò e, dissolvendosi nuovamente in fumo, si
spostò alla destra del Crociato. Mise i piedi in terra ma
non si scottò.
Al mortale dolevano le ginocchia: il sale della sabbia penetrava la
carne, guscio dell’anima. –Non so di cosa stai
parlando!- negò.
-Invece sì che lo sai. Scava nel tuo cuore, ragazzo, trova
conforto in ciò che resta della tua famiglia… e
pensa che almeno loro,- addolcì il tono, pur non perdendo la
malizia, -si salveranno-.
Francesco così tacque, incantato dalle parole del suo nuovo
Signore. Fissando il cielo, riempì la mente di ricordi lieti
di una moglie e due figli che aveva abbandonato a Firenze.
Le labbra spaccate gli si tesero in un tenero sorriso nel veder
comparire come un fantasma la figura della moglie Elisabetta. Ella
fluttuava dinnanzi al suo naso con tra le braccia due fagotti bianchi;
da essi spuntarono due bimbi, una fanciulla e un fanciullo, che presero
a correre in cerchio al loro padre ridacchiando gioiosi. Era la
falsità del Diavolo, che gli stava mostrando quel che aveva
perduto per sempre al solo scopo di farlo soffrire di più.
Ma Francesco, da pollo, cadde nella trappola, e si sentì
svenire, se solo avesse potuto chiudere gli occhi e piangere…
-Pensa ai tuoi figli, concepiti quando ancora tu e tua moglie non
eravate sposati. Pensa a loro, Francesco, perché adesso che
hanno perduto il padre, marciranno nel Limbo per
l’eternità! O almeno, è tale la sorte
che spetta al tuo maschio, Leonardo, perché Isabella
è molto carina e pura…- azzardò il
Diavolo sfiorando il viso della bambina con due dita.
-NO!- si ribellò Francesco, dimenandosi invano, con le
lacrime agli occhi. –Ti supplico, no… loro non
meritano questo…- mormorò quando le angeliche
visioni dei due gemelli e della moglie del Portinari svanirono.
-Se tu lo vuoi, posso impedire che accada-.
-Come?- gemé, sopraffatto dal dolore sia fisico che
psichico.
-Consacra la tua all’anima della tu’ moglie per
mano mia, ed io mi prenderò il fardello di risparmiare i
tuoi gemelli-.
-Giura… giura che non farai loro del male!-.
L’oro negli occhi del Diavolo balenò.
–Giuro, ma da te voglio un’altra cosa-.
-Son tuo, ormai-.
-La fedeltà della tua lama violenta, così che la
tua ira funesta possa abbattersi su chi avrà voglia di
strapparmi un tesoro-.
-Accetto. Dunque sposaci, Lucifero, convalida l’unione di me
e mia moglie, rendici grazia, e che i nostri figli trovino pace nel
Paradiso…-.
-Sia fatta la tua volontà…- sghignazzò
malvagio.
Francesco riuscì finalmente a congiungere le palpebre,
sentendosi pervadere da un fresco vigore a scorrergli nelle putride
vene come sangue. Si sentì sollevare con grazia dalla terra
sulla quale era stato allungo inginocchiato, per quel tempo che non
aveva saputo calcolare. Nella schiena gli nacquero le stesse spade che
l’avevano ucciso, metà testa gli si
tramutò in rami d’albero, poiché in
parte, offrendosi artefice di un violento massacro al posto del grande
amico Dante, al cospetto di Riccardo cuor di Leone suicida era stato.
Quando la trasfigurazione fu completa e il servo divenuto padrone, il
sangue lasciato dall’anima errante di Francesco venne coperto
dalle sabbie del deserto ardente. Per il Girone dei Violenti a Dio
tuonarono le possenti risate del Diavolo, poi i fantasmi di Isabella e
Leonardo, immaginati dal loro padre Francesco, si fusero in
un’unica macabra visione, una bestia, una creatura mostruosa
i cui occhi erano l’uno verde selva oscura e
l’altro azzurro cielo d’inverno.
~ ۞ ~
Quella notte un grido atroce lo gettò giù dal
letto.
Leonardo rotolò sul pavimento annodandosi le lenzuola tra le
gambe e sbatté la testa contro la gamba della panca. Intanto
le grida continuavano, incessanti, acute, come un pianto disperato, ma
ciò che mise più in allarme il ragazzo fu
riconoscere il timbro vocale della sorella.
-Isabella!- chiamò mettendosi a gattoni e poi spingendosi in
piedi. –ISABELLA!- strillò nuovamente correndo
fuori dalla sua stanza.
Giunse nella camera della sorella ma la trovò vuota, col
letto disfatto e le tende davanti alle finestre chiuse con le imposte.
Nel panico, il Portinari scese le scale seguendo il suono straziante di
quelle grida e giunse nel salotto, dove trovò ad attenderlo
una visione agghiacciante.
Parte del soggiorno era a soqquadro: c’erano mobili
rovesciati, vetri rotti, oggetti scassati e scaraventati
dall’altra parte del mondo.
L’attenzione di Leonardo, però, cadde
più che altro sulla figura di Elisabetta, distesa in terra
sul tappeto, e sulla sorella Isabella, china sul corpo della madre a
piangere sulla sua vestaglia.
Leonardo accorse al suo fianco, si chinò in ginocchio e
prese la mano della madre tra le sue, sentendola ancora calda, morbida.
Era viva, nonostante i gravi tagli sanguinanti che le inzuppavano gli
abiti da notte. I capelli erano spettinati e intrisi di sangue
là dove il colpo di un oggetto le aveva frantumato il
cranio. Le gambe mezze nude riportavano varie contusioni, residui di
una lotta brutale conclusasi nel peggiore dei modi.
Leonardo alzò gli occhi e guardò la sorella,
china a versare le sue lacrime sul seno della donna. Anche Isabella
riportava più segni di un combattimento. La guancia era
stata scalfita da una lama, i gomiti arrossati, le mani tremanti. Sulla
sua veste c’erano spruzzi di sangue che non appartenevano a
lei, bensì al corpo di un uomo gettato in un buio, angolo
del soggiorno. Era completamente vestito di nero, ma il cappuccio
adagiato di lato mostrava due grandi occhi spalancati, immobili, fissi.
Morti.
-Cosa…- fece per chiedere il ragazzo, tutto un tremore e il
cuore a mille.
Improvvisamente, dal corpo del ladro emerse una macabra ombra di fumo,
che si materializzò dinnanzi ai due gemelli prendendo le
fattezze di un uomo privo di vestiti, ma anche di qualsiasi attributo.
La testa pelata, il fisico allenato, ma due terrificanti occhi dorati
che fecero prigionieri quelli sgranati dal terrore di Leonardo.
Allo stesso modo di com’era comparso quello, dal corpo di
Elisabetta venne via un candido fantasma bianco, che scivolò
fuori dalla carne della donna come un lenzuolo portato dal vento.
Levitando distaccata dal suolo, la nuda anima di Elisabetta si
affiancò all’uomo nell’ombra. Questi le
cinse i fianchi, scoccò una brutale occhiata a Leonardo e
poi svanì nel nulla, tirando con sé
l’immagine di sua madre.
Quando nel soggiorno tornò a regnare un macabro e fittizio
silenzio, spezzato solo dai singhiozzi di Isabella che aveva continuato
a piangere sul corpo di Elisabetta per tutto il tempo senza accorgersi
di nulla, Leonardo sentì la mano di sua madre perdere calore
e morbidezza. In pochi secondi divenne fredda e rigida come la pietra,
e il pianto di Isabella si fece ancora più forte.
~ ۞ ~
Il sole calava all’orizzonte. Fuggiva pigro, timido dietro le
colline. Il clima si stemperava: il caldo estivo era scomparso in una
notte, il cielo si annuvolava, i venti presero a soffiare impazziti
sibilando ogni dove.
C’era puzza di cadavere, di morte in quelle stanze di una
vecchia casa di campagna, dalla porta della quale emerse una
giovanissima fanciulla, in lacrime e gridando. Corse allungo
nascondendo il viso tra le mani, corse per una buona metà
del selciato contornato di cipressi, ma in fine, disperata, cadde a
terra, in ginocchio, nella polvere e nel sangue di Beatrice, sua zia,
della quale si era macchiata le mani.
Entrando in quella casa aveva veduto lo scempio e per poco non
vomitava. Il viaggio li aveva condotti alla casa di Dante e Bea, ma
quel che avevano trovato ad attenderli erano stati i corpi di due
uomini, Alighiero e un saraceno, e una donna, Beatrice. La loro solare,
pura, bellissima zia. Il suo corpo freddo, steso tra gli arbusti e
mezzo spoglio degli abiti, a tal punto sfregiato da risvegliare in
Leonardo la collera da spaccare una pietra, se ne avesse avuta una a
portata di mano.
Isabella era rimasta a guardare impassibile, versando prima una, poi
due e in fine tre lacrime lungo le guance. Era corsa via, ripercorrendo
i suoi passi, e si era gettata a piangere in mezzo alla stessa strada
che aveva percorso con tanta speranza, pregando di poter trovare ad
attenderla in quella casa l’aiuto dei parenti che restavano.
Pianse allungo, gridando, graffiando la terra con le unghie. Premette
la fronte al suolo, sbatté i pugni nel fango,
assaporò un terribile dolore che le attanagliò il
cuore e lo stomaco, perché l’impotenza, di fronte
ad un tale scempio, era la vergogna più grande. Il non poter
cambiare le cose, l’essere arrivati pochi attimi
prima… avrebbe potuto significare la salvezza di qualcosa
che era andato perduto per sempre.
Francesco, Elisabetta, Beatrice… tutti… erano
morti tutti.
Suo fratello apparve improvvisamente al suo fianco posandole una mano
sulla spalla.
-Dobbiamo seppellirli…- digrignò Leonardo quando
gli occhi gonfi e rossi della sorella si specchiarono nei suoi.
–Dobbiamo… - s’interruppe, smorzandosi
le parole in gola prima di cominciare a piangere anche lui.
Dopo interminabili attimi di silenzio, durante i quali si
udì solo il gracchiare di una cornacchia e il ronzare di
mosche che si cibavano del cadavere di un uccello, Isabella
annuì convinta, contrastando la timorosa e spaventata parte
di sé che avrebbe preferito chiudersi in una scatola.
Leonardo e Isabella tornarono nella casa di Dante e Beatrice, presero i
corpi di Alighiero e dell’eretico musulmano e li seppellirono
in un cimitero improvvisato.
Avvicinandosi in fine al corpo della zia, al fine di seppellire
dignitosamente anche lei, Leonardo si vide costretto ad estrarre la
lama che le trafiggeva il ventre, ma nel gesto di impugnare la spada se
ne sentì risucchiato, e il legame che stabilì il
suo pugno con l’elsa fu destinato a non sciogliersi mai.
Quella era stata la lama che aveva ucciso un’anima innocente,
e quella sarebbe stata la lama che avrebbe squartato chi aveva osato
portarla via.
~ ۞ ~
Uno stormo di corvi neri si librò nel cielo notturno
abbandonando i rami degli alberi. Sul selciato che traversava la
campagna si udì a poco a poco un trottare di cavalli
divenire più intenso e distinto, fin quando a far tremare la
terra non comparvero in corsa due vivaci esemplari l’uno nero
e l’altro color mogano scuro. In sella c’erano una
ragazza e un ragazzo incappucciati in pesanti mantelle da viaggio.
Il sentiero che serpentava su per le colline li stava conducendo sul
pendio roccioso a nord, oltre il quale sapeva attendersi la meta della
loro corsa.
-Leonardo, aspetta!- gemette lei da parecchi metri indietro rispetto al
fratello.
L’altro neppure le rispose e, senza voltarsi indietro,
spronò il suo negro destriero ad un galoppo ancor
più portentoso. –Hià! Hià!-
diceva tallonando i fianchi. La bestia, i cui zoccoli picchiavano sul
terreno con potenza disumana, sbuffava condensa calda dalle narici
nella gelida notte, nitrendo agitato. I muscoli pulsanti, una vigorosa
forza nelle zampe e nel collo.
Il ragazzo proseguì spedito a tal punto che non si accorse
della sorella restata ormai troppo addietro.
La dama, fermatasi sull’apice del pendio per far riprendere
fiato alla puledra e con le gambe tutte un dolore, ammorbidì
le redini e guardò giù, ammirando il paesaggio
attorno. Un improvviso vento gelido le scompigliò i lembi
della mantella che le cadeva lungo il corpo snello. Si mosse anche la
criniera della cavalla, che sbuffò nervosa. Lei le
carezzò il collo in modo affettuoso acquietandola, ma fu del
tutto inutile, perché l’animale sembrò
peggiorare d’animo.
Così, non sapendo che altro fare, la ragazza le diede un
colpo ai fianchi e ripartì, non riuscendo a tenerla buona
ulteriormente.
Come se non bastasse, quella che in principio si presentò
come una pioggerella scoscesa, tramutò ben presto nella
tempesta più impetuosa, accompagnata dal rombo di fulmini e
tuoni.
Isabella si diresse giù per il pendio, a caccia della scia
ombrosa che lasciava suo fratello Leonardo, già metri
avanti, dietro di sé sul sentiero. China sulla sella e con
le redini nuovamente corte, vide aprirsi dinnanzi a sé la
macabra visione dei ruderi di una Cappella che, ne era certa, ricordava
integra e in perfette condizioni fino a poche settimane prima.
La Chiesetta sorgeva su un’altura a ridosso delle colline,
nella sperduta campagna attorno alla maestosa Firenze. Ora ridotta a
brandelli, squartata da una forza pari a quella di una catapulta,
presentava varie ustioni e quant’altro a testimoniare anche
un possibile incendio.
Leonardo Portinari fermò il cavallo ai piedi della
gradinata, dopo la quale si stagliava solo uno dei due battenti
d’ingresso, per di più sbrindellato e masticato
dai colpi di una lama piuttosto grossa.
La pioggia s’insinuava tra le macerie e sotto i vestiti,
nonostante le mantelle che indossavano i due fratelli. Il temporale
peggiorava di minuto in minuto e non avrebbe smesso di tuonare prima di
qualche ora, pensò Isabella smontando di sella assieme al
gemello. Andò vicino a Leonardo, che era fermo immobile in
balia delle gocce con un piede sul primo scalino della gradinata.
Fissava dritto dinnanzi a sé, guardando là dove
le forze dell’uomo avevano distrutto un Sacro Rifugio di Dio.
Strinse a sé la sorella infreddolita e avanzò per
primo nella Chiesa, o meglio, in ciò che ne rimaneva. Il
suono dei suoi passi le sembrò più forte dei
tuoni stessi quando Isabella vide il fratello addentrarsi nella navata
centrale. Leonardo camminò uno, due, tre metri al massimo,
poi si fermò.
-Che razza di luogo è mai questo?- domandò
spaurita la ragazza stringendosi nel mantello zuppo.
Leonardo indietreggiò tornandole affianco. Scosse la testa,
scettico. –Non lo so… io… veramente non
lo so- imprecò passandosi le mani tra i capelli.
-Cosa ci facciamo qui?- insisté Isabella.
–Perché siamo qui?-.
Leonardo non seppe rispondere, e i ruderi della chiesa precipitarono in
un lungo, macabro silenzio. Solo la pioggia e il suo incessante
scrosciare coloravano la notte di suoni agghiaccianti, ticchettii
ritmici e scoscesi, tuoni e impetuosi rimbombi. All’orizzonte
la campagna si era dissolta in una macabra cortina ombrosa.
Leonardo fissò allungo il terreno, stringendo i pugni lungo
i fianchi e socchiudendo gli occhi, mentre la pioggia gli scivolava
addosso e sui capelli, cadendo a gocce sul pavimento di pietra.
Isabella si allontanò un istante da lui, curiosando nella
direzione in cui un particolare bagliore aveva catturato la sua
attenzione. Trovò una cassa decorata d’argento
nascosta tra le macerie, ma all’interno della quale riconobbe
il bagliore metallico di una spada corta, un arco e qualche freccia. La
ragazza si stupì non poco di trovare delle armi nella casa
del Signore, ma quando si legò la spada alla cintura e la
faretra sulla schiena, avvertì come una seconda presenza
sulla sua pelle. Si sentì più pesante, ma al
contempo più viva e leggera di quanto non lo fosse mai
stata.
-Leonardo!- chiamò gioiosa, sorprendendosi del modo in cui
le sue nuove armi brillavano, facendo luce propria
nell’oscurità della notte. Fu un bagliore che
durò pochi secondi, giusto il tempo perché il
ragazzo si voltasse e non potesse credere ai propri occhi.
Andò incontro alla sorella a grandi passi.
-Dove hai trovato queste cose?!- domandò incredulo,
sfiorando l’arco in mano alla sorella con due dita.
-Là, in quella…- Isabella fece per indicare il
baule dietro di sé, ma questi era scomparso
all’improvviso, dissoltasi così come era apparso.
Leonardo aggrottò la fronte, ma non ebbe modo di chiedere
altro.
Alle loro spalle udirono una cantilena latina che li fece voltare
entrambi. Leonardo sguainò la spada dal fodero e Isabella
incoccò prontamente una freccia, affiancandosi al fratello
già pronto a scagliare un attacco.
Dalle tenebre, però, emerse una piccola figura tozza e
ricurva di un vecchio, che venne verso di loro camminando con
normalità sotto la pioggia. Nella mano che gli tremava
stringeva un rosario, aveva il cappuccio da monaco abbassato sulle
spalle e piccoli occhi porcini e infossati, coperti di rughe. La sua
cantilena non s’interruppe fin quando non fu abbastanza
vicino ai due ragazzi che abbassarono le armi lentamente.
Il monaco concluse la sua preghiera guardando prima l’uno poi
l’altra coi suoi piccoli occhi scuri. –Sapevo che
sareste arrivati- disse con voce profetica.
Leonardo si parò davanti alla sorella. –Chi
siete?- chiese serio.
-Il parroco padre di questa miseria- spiegò in breve parole
l’uomo di chiesa, alludendo con uno stretto gesto del braccio
alle macerie che li circondavano.
-Cos’è accaduto qui?- domandò Isabella.
Il monaco mosse un altro passo verso i gemelli, ma Leonardo, diffidando
di lui, spinse la sorella ad indietreggiare.
-È opera del Diavolo, tutto questo- disse. –Un
uomo si è opposto a lui e voi dovete aiutarlo. Dovete
aiutarlo- ripeté più volte. –Dovete
aiutarlo! Dovete aiutarlo!-.
-Tu sei pazzo!- eruppe Leonardo afferrando il monaco per la collottola
e minacciandolo alla gola con la spada.
Il cattolico posò la sua sulla mano di Leonardo che gli
stringeva la veste e a quel contatto chiuse i suoi piccoli occhi
porcini, schiuse le labbra e parlò con una voce meno da
vecchio.
-Il vostro destino
è scritto nel sangue. Vi è stato
sottratto ingiustamente un prezioso tesoro, che volete a tutti costi
ritrovare. Date perso quel che in realtà perso non
è, perché la retta v’è
già mostrata. Il Divino mi ha parlato di voi, mi ha
sussurrato la vostra venuta in questo luogo, e mi ha chiesto
d’indicarvi la prossima direzione. Egli l’Altissimo
vi suggerisce di trovare un uomo, che come voi lotta per la salvezza e
l’ingiustizia altrui. Aiutatelo, ed egli aiuterà
voi. Il vostro destino
è scritto nel sangue-.
Con violenza inaudita Leonardo gettò il monaco a terra.
–Non mi toccare! Smettila di farneticare, vecchio!-
gridò minacciandolo con la spada alla gola.
-La verità v’è occulta, il cammino
sarà tortuoso! Pentitevi, o peccatori, purificatevi, e la
strada vi sarà mostrata! Siate magnanimi, coltivate coraggio
e amore! Pentitevi, pentitevi de vostri peccati! Questa è la
via unica!-.
-Taci!-.
-Aiutatelo! Aiutatelo!- continuò quello.
Prima che Leonardo potesse calare la lama sulla carne, Isabella mise un
braccio tra il monaco e suo fratello, impedendo a
quest’ultimo di uccidere un uomo di chiesa.
Gli occhi azzurri della ragazza mandarono un intenso bagliore che
fulminò Leonardo e acquietò del tutto il suo
furore. Il gemello abbassò la spada, chinò le
spalle e prese a respirare normalmente, sciogliendo i muscoli tesi e
pulsanti.
Isabella si chinò su un ginocchio e aiutò il
vecchio monaco ad alzarsi. –Che Dio ti benedica…
grazie- mormorò lui.
La fanciulla gli sorrise soave. –Altrettanto, ma vi prego,
adesso dovete voi aiutare noi, padre. Qualcuno ha ucciso nostra madre,
siamo sulle tracce dell’assassino, ma dovunque cerchiamo non
riusciamo a trovarlo. Inoltre, c’è stata una
strage anche in casa di nostra zia. Aiutateci, ve ne prego- lo
implorò.
Il monaco non seppe rifiutare quella richiesta di aiuto e, senza mai
guardare il fratello della ragazza negli occhi,
s’incamminò verso dove un tempo sorgeva
l’altare della chiesa.
Leonardo li raggiunse rinfoderando la spada, ma giusto in
quell’istante, sotto i loro piedi si aprì una
gigantesca crepa, che spaccò quel poco di pavimento di
pietra rimasto intatto. La crepa s’ingrossò sempre
più, fino a quando non fu abbastanza grande come la stiva di
una nave. Il pozzo nero e profondo che si stagliò oltre il
naso di Leonardo, nel gesto di sporgersi, faceva invidia ai crateri
vulcanici della loro penisola.
-Questa è la bruta via. Seguitela, e troverete la retta-
disse il monaco indicando il baratro scosceso e roccioso, dentro al
quale la pioggia si riversava in una caduta infinita. Tra le sue
vecchie e fragili braccia comparve come per magia lo stesso baule
d’argento che aveva visto Isabella tra le macerie, dal quale,
poi, aveva preso arco, frecce e spada. Il monaco aprì la
cassa e ne riversò il contenuto metallico
(all’apparenza parti di un’armatura maschile ed una
femmine) nel baratro.
I due gemelli si scambiarono un’occhiata allarmata, ma
durò giusto pochi attimi, perché il monaco li
spinse entrambi giù dal precipizio.
Assordati dalle loro stesse urla, cominciò così
la discesa nell’Inferno.
.:Angolo Autori:.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita…!”
òOò
Se siete arrivati fino a qua non vi costa nulla recensire.
Perciò, FATELO! è__é
LOL XD
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