Death lullaby
Risuonava, dolce e tetra, una melodia nella stanza.
Macabra, vuota, eppure
ricca di sinistri significati, un canto di morte che accompagnava
lietamente la sua esecutrice, sapientemente intenta a far danzare le
sue dita affusolate sui tasti dell’immenso e cupo organo a canne
che, simile ad un’ombra, incombeva su di lei.
Note distorte e lugubri uscivano come un estremo soffio di vita dalle canne, vibrando nell’aria.
Tutt’attorno, leggiadre, danzavano coppie di scheletri in eleganti abiti da festa, o da funerale.
Le orbite orlate di sangue si fissavano le une in quelle dell’altro, sguardi d’innamorati nel fiore degli anni.
Danzavano come fossero ancora vivi, come se ancora la linfa vitale fosse in loro e non li avesse mai abbandonati.
L’esecutrice era l’unica scintilla di reale vita che fosse presente.
Lei, nel fulgore
dell’adolescenza, i lunghi capelli dorato-argentei che le
avvolgevano dolcemente il viso, portava dipinta in viso
un’espressione che esibiva tutt’altro che gentilezza.
Viveva, ma al tempo stesso era come non vivesse.
Non c’era niente di
vivo nel suo sguardo: tutte le emozioni erano risucchiate e annullate
in un gorgo di nera e assoluta apaticità.
Avvolta nel suo elegante
abitino viola, continuava a suonare, mentre sui tasti si raccoglieva il
liquido scarlatto che dalle sue dita cadeva.
|